Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Romano

da: Santa Caterina alla Colombaia

Breve storia delle carceri della provincia di Trapani


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FUGA DALL'ISOLA: EVASIONI CELEBRI DA FAVIGNANA

Anche Favignana non fu immune dal fenomeno evasioni che durante i primi anni dell'ottocento, per tutta una serie di cause, aveva assunto proporzioni enormi.
Il condannato Giovanni Lastorina, di 32 anni, palermitano, nel febbraio del 1800, fuggiva dalla nave che doveva trasportarlo in un carcere di Napoli. Riacciuffato, venne rinchiuso all'Arsenale di Messina. Da qui, il 14 marzo, fuggiva per la seconda volta. Catturato a Palermo, veniva condannato con un ulteriore aumento di pena e rinchiuso nel Castello di Favignana. Non rassegnato tentava ancora la fuga. Dal camerone n.5 del Castel San Giacomo in Favignana, la notte tra il 29 e il 30 dicembre 1812, il Lastorina praticava un grosso buco nella muraglia, poi con una fune si arrampicava sul rivellino del castello da dove "se la diede a gambe". Inseguito dai militari del presidio, il Lastorina si era rintanato sul campanile della Chiesa Madre dell'isola dove si spegneva la sua ultima speranza.
A questo proposito bisogna precisare che in caso di fuga dei carcerati i militari addetti alla custodia erano ritenuti responsabili e per questo venivano immediatamente incarcerati (da quella prassi deriva il detto: "da carceriere a carcerato") e sospesi dal servizio. Mentre i militari che si prodigavano nel riacciuffare i fuggiaschi venivano incentivati con incentivi in denaro.
Un'altra evasione dall'isola di Favignana si verificava la notte del 15 gennaio 1814. Protagonisti 8 condannati che riuscivano a rubare la barca al pescatore Vito Rallo di Favignana che a sua volta chiedeva di essere risarcito dall'erario per il danno subito.
Ma la fuga più clamorosa, dalla fortezza di Santa Caterina, fu quella organizzata dal Generale Pepe. Riportiamo il suo racconto: "La fossa di Santa Caterina è posta nel fondo del castello, incavata nel sasso, umida, trista, ma spaziosa.
Sta il castello in sulla cima del solo monte altissimo che si erge su quell'isola affatto piana; e pochi sono i giorni in cui quel monte non sia tutto coperto di nebbia.
Il comandante del forte della Favignana era ancor egli, come quello del Marettimo, un povero alfiere con famiglia, e di animo non cattivo quando non era brillo, e poco, colla profferta d'una mercede mensuale, ottenemmo da lui immensi sollievi al nostro stato infelice.
Potevamo in alcune ore del giorno passeggiare nelle due piattaforme, e a piacer nostro scrivere a chi volevamo, ricever libri. Il cappellano del castello era un ottimo giovine, che pizzicava alquanto del patriota, ed io per viemmeglio accattivarmelo, tolsi ad insegnare a un suo nipote le matematiche elementari.
Col mezzo del comandante e del cappellano feci, per via di lettere, conoscenza con il signor Alberti, maggiore del genio, impiegato in Trapani, dond'egli inviavami tutti i libri ch'io desiderava, i quali potevano venire liberamente, atteso che nel castello e nell'isola pochi eran coloro che sapevano leggere.
Durante tutti e tre anni della mia prigionia, studiai con indefessa perseveranza, e mi astenni da due vizi comunissimi nelle prigioni: il bere vino e il fumar tabacco. E siccome a me non pareva né giusta, né probabil cosa che per delitti politici, senza condanna regolare, dovessi rimaner lungo tempo in prigione, così confortavami collo studio, che solo potea se non distrarmi all'in tutto, alleviare almeno di un tantino il peso delle mie disgrazie.
Nonostante che in quella fossa di Santa caterina marcissero venti condannati a' ferri per delitti comuni, non per ciò in tutto il tempo che vi rimasi, fui minimamente distolto dalle mie assidue applicazioni. Era la detta fossa di forma, bislunga ed avea da una banda in tutta la sua lunghezza un intavolato simile a quello dei Corpi di Guardia, su di cui giacevano la notte quei poveri disgraziati, i quali, ferrati a due a due, lavoravano poi il giorno ai bisogni del castello.
Quei galeotti erano tutti rei di più omicidi, e quegli che essi riverivano quale capo ne aveva commessi d'intorno a venti. A chi non è ignoto lo stato infelice delle Due Sicilie in que' tempi, non recherà punto meraviglia che uomini coperti di delitti numerosi ed enormi, non venissero condannati alla pena capitale.
Tutti quei forzati erano verso di noi, come tanti famigli rispettosi a' loro padroni, sebbene uno solo fosse addetto a servirci, mercè d'un piccolo salario che da noi riceveva. Nel vederli così solleciti di noi, ci pareva che dicessero tra loro: questi due poveri giovani, forse cospirarono a distruggere un governo iniquo e crudele, cagione delle comunioni nostre miserie? Rinchiusi nella fossa sul tramontar del sole, passavamo tristissime notti, massime nell'inverno (…)
Eravamo già molto inoltrati nel 1805, e più di due anni erano trascorsi ch'io in si tristissimo stato languiva col solo conforto che traeva dallo studio e da una certa lusinghiera speranza , compagna fedele degl' infelici. (…). Più e più volte Rodinò ed io pensammo di scappare dal castello, ma era difficilissima, anzi impossibile cosa il riuscirvi. Un solo divisamento ci parve finalmente men degli altri improbabil, quello cioè, d'istigare i galeotti ad impadronirsi del forte per indi fuggirsene, e noi mostrare di non aver presa parte a quel tentativo, qualunque ne fosse l'esito e, quindi, in grazia della nostra apparente rassegnazione, ottenere carcere men duro nella Sicilia, ove la fuga poi sarebbe divenuta agevole. Rodinò, che aveva dieci anni più di me, e presumeva altresì aver senno e scaltrezza maggiore, opinava che dovessimo nascondere a que' forzati tutto il netto de' nostri pensieri, e dire anzi che saremmo con esso loro fuggiti, per togliere così ogni sospetto di tradimento.
Al che io fermamente mi opposi, perch'essendo il governo inteso più ad imprigionare i rei di Stato, che non i condannati per delitti comuni, que' galeotti avrebbero trovata la nostra compagnia più pericolosa che utile (…) quindi risolvemmo di parlar con franchezza, promettendo segreto religioso, assistenza e denaro.
Capo di tutti i forzati al Castello non era più il medesimo ch'era dentro la fossa, ma sì bene un tale Sciaino, siciliano di famiglia alquanto agiata, uomo coraggiosissimo e condannato a vita per i suoi delitti. Ma che non può la fortuna? Essa fece allora assai più di quello che giammai noi avremmo osato sperare. La presa del castello era oltremodo ardua e rischiosa.
Un solo colpo di moschetto avrebbe fatto immediatamente mettere in moto tutta l'isola, né quel comandante avrebbe tardato a spedir tosto forze bastanti a riprender il forte, o pure stringerlo di assedio, essendo già appostata una sentinella di là del ponte.
Era per ciò necessario, senza far minimo rumore, impadronirsene di sera. In quanto poi allo scender nell'isola bisognava che si fosse trovato sulla spiaggia un battello da poterli traghettare in Sicilia, il che mi pareva un vero sogno. Ma, i galeotti, confortati dalla speranza e tenaci nel conservare il segreto, osavano tutto perché non avevano nulla da perdere (…) Il comandante del Castello, dedito al vino , e propenso a ricever doni da chi gliene poteva fare, permetteva a tutti i trenta detenuti, tra forzati e rei di Stato, di girare per l'intero Castello. Ora un giorno sul far della sera si fece in modo che i soldati del presidio, favignanesi ed ordinati a forma di milizie, si riducessero tutti in un corridoio a bere vino stato ad essi regalato; e quivi furono tostamente da noi chiusi.
Il comandante fu preso dallo Sciaino, e le sentinelle fuori il ponte da due galeotti compagni di catena, quivi usciti col pretesto di trasportarvi immondizie. Due altri galeotti assaltarono la sentinella sulla piattaforma presso alla campana. Ed ecco in un baleno tutti i forzati armati di fucile presi nel corpo di guardia.
Costoro fecero scendere nella fossa il comandante, sua moglie e tutti quelli del presidio, ed anche noi due prigionieri di Stato. A tutti posero indistintamente i ferri e per allontanare ogni sospetto di connivenza, tolsero a me un paio di stivali e qualche vestito. E nell'atto ch'io li supplicava di usar più umanità verso il comandante, e di chiudere la moglie almeno nelle proprie sue stanze, essi voltavansi verso di me minacciosi e sordi alle mie preghiere, come già era stato fra noi convenuto. Ma, pertanto, alla scaltrezza siciliana non sfuggì né che Rodinò ed io eravamo stati gli autori di quel fatto, né il motivo che ci aveva indotti a far eseguire quella fuga.
Dietro alla porta della fossa, che chiudevasi con un cancel di ferro, i galeotti gettarono quanto più legname poterono, affinché, se fossero giunti que' del presidio a sferrarci, spendendovi tutta la notte, sarebbero riusciti appena la mattina ad aprire la porta. Ciò fatto, essendo bene armati, recaronsi a notte avanzata ad una spiaggia lungi dall'abitato, dove avevano innanzi sera veduta una barchetta, che colà sogliono chiamare lautello, e trovatola, costrinsero que' marinari a trasportarli in Sicilia. (…) Giunti in Sicilia, si fecero seguire dai marinari del lautello affinchè costoro non li denunziassero alla giustizia ed a' capitani d'arme che avevano il carico di sterminare i banditi.
Dopo scorsa lunga strada, il loro capo Sciaino commise il fallo di liberare i marinari, i quali andaron tosto ad avvertire le autorità più vicine. I forzati già stanchi dal molto camminare, cui per la lunga prigionia erano divezzati, riposavansi, placidamente in un campo, quando, assaltati all'improvviso da un capitano d'arme, tre rimasero morti, e gli altri furon tutti ripresi, tranne lo Sciaino, il quale rifuggì in casa di un prete, donde gli riuscì ad imbarcarsi per Genova.
E passò di là a Milano ove, prese servizio da soldato, divenne sergente, poscia ufficiale nell'esercito di Murat; bravissimo in guerra, e di savia e regolare condotta. Indicibile fu la meraviglia degli isolani della Favignana nel veder la mattina le porte del castello spalancate, e noi chiusi dentro la fossa. Il governatore dell'isola pose in arresto il comandante di Santa Caterina e tutti i soldati cui era confidata la guardia del presidio.
Noi prigionieri di Stato fummo ringraziati e ben trattati per la buona condotta tenuta in quella occorrenza, sebbene tutti gli isolani e il comandante medesimo fossero internamente persuasi che quella evasione fosse frutto del nostro consiglio. Fu in breve aperto in Trapani un processo contro il comandante del castello e gli ufficiali del presidio, e noi prigionieri di Stato fummo trasferiti a Trapani in una torre (la Colombaia n.d.r.), che guarda il porto di quella città. (…)
La nostra prigione componevasi quivi di due stanze, ed eravam custoditi dal presidio con una guardia giornaliera, comandata da un ufficiale sotto gli ordini del comandante del forte".

Il 15 marzo del 1853 il "Decreto Organico del personale addetto ai Bagni Penali in Sicilia" stabiliva per il bagno di espiazione in Favignana nel Forte di San Giacomo la seguente pianta organica:

1 Comandante di 1^ classe con ducati 25 al mese di soldo;
1 Meritorio con ducati 4 idem;
1 Cappellano con ducati 12 idem;
1 Chirurgo con ducati 16 idem;
1 Comite con ducati 13 idem;
2 Algozini con ducati 10 per ciascuno idem;
2 Sotto - Algozini con ducati 9 per ciascuno idem;
9 Custodi con ducati 9 per ciascuno idem;




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