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Atlante del pane siciliano



La grazia di Dio:
il pane tra storia e folklore

di Giuseppe Oddo




Il pane, il corvo, il vino

Dammi la manu,
tu ca zappi la terra
e manci picca,
maistru e patri
di la rima ricca.

Tu scrivi ntra la terra
e lassi signi,
iu ntra la menti
fazzu li disigni.
[ ... ]

 


Questi versi sono forse il più importante omaggio di Ignazio Buttitta alla cultura contadina1. Ha senso riproporli come premessa alle note introduttive di una riflessione sul pane? Probabilmente sì, tanto più se si scelga di prender le mosse da un episodio di vita vissuta, raccontato da una persona nata nell'ultimo decennio dell'Ottocento in un paesino della Sicilia del grano.
Era un uomo rubicondo dallo sguardo leale: contadino e ottimo affabulatore, capace di lasciare segni nella mente, oltre che nella terra che zappava. Li lasciava soprattutto quando parlava dei suoi antichi rapporti con il pane, con quella «grazia di Dio» che in certi mesi scarseggiava nelle famiglie dei «metatieri» del feudo. Il periodo più nero era, a suo dire, il tempo della sarchiatura del grano, quando nelle famiglie contadine c'era la «Francia» 2 e in campagna gli uomini cambiavano tre volte al giorno il posto alla fame, come diceva lo zzu Cicciu , il simpatico ispiratore di questa nota.3
Ora, ci sono tanti modi di descrivere la fame. E, tra gli intellettuali, pochi hanno saputo farlo con la stessa efficacia di Gesualdo Bufalino:

Molto difficilmente qualcuno tra i lettori delle pagine che seguono conosce la fame per diretta conoscenza carnale. A tutti sarà capitato una volta o due di rimanere a lungo senza cibo e d'averne sentito un disagio, temperato dalla certezza del prossimo soddisfacimento. La vera fame, credetemi, è un'altra cosa. La fame di cui parlo io è una sorta d'urlo silenzioso del corpo, il sentimento d'uno sfacelo vertiginoso di tutte le nostre fibre, cui s'accompagna un presagio di fine imminente. È la fame antica dei miserabili all'addiaccio, dei prigionieri murati dentro una torre, dei marinai naufraghi su uno scoglio deserto…la stessa fame, insomma, di me militare dalle fasce troppo larghe e dalle scarpe troppo strette, in cammino per Ripalimosani, dalle parti di Campobasso, una mattina di dicembre del '42… Ebbene, d'un tratto un bisbiglio, una scossa elettrica corse lungo la fila indiana. Sulla soglia d'una casa di contadini una ragazza ci salutava, ci offriva in una sporta di vimini, su un fazzoletto spiegato, il miracolo di tre quattro immensi pani bianchi, fraganti, appena usciti dal forno…Ci furono botte, bestemmie, un parapiglia indescrivibile. Dal quale venni fuori con un occhio pesto ma col bottino d'una porzione cospicua, artigliata fra le unghia. La mangiai al riparo d'una siepe, durante la sosta, e mai mi sono sentito così “naturale”, ridotto ai miei limiti elementari e stupendi di animale umano, fatto per nascere, respirare, mangiare, bere, coire, morire … 4

Non c'è dubbio, però, che la fame di Bufalino e la ritrovata gioia di vivere nell'addentare una «porzione cospicua» di pane, raccontate da quel «mago della parola» che era lo scrittore comisano, fossero figlie dell'emergenza bellica. Erano invece periodiche, ricorrenti come le primavere, le analoghe sensazioni provate dalla povera gente dei campi della Sicilia preindustriale. Una chiara testimonianza ce la dà il «barone dei villani» Serafino Amabile Guastella:

Da Giugno a Natale su per giù la provvidenza non manca: ma dopo Natale il freddo e la fame, dice il proverbio. E il freddo e la fame non si fan mica aspettare, ma picchiano inesorabilmente all'uscio del povero, specie negli anni di carestia, e in quei terribili mesi, che il contadino denomina mesi grandi, perché gli stenti della famiglia fanno sembrarli interminabili: mesi, in ché si è dato fondo alle magre provviste: e il frumento e le fave son cresciuti di prezzo; e il lavoro è divenuto scarso, o è mal retribuito, e spesso è interrotto dalle intemperie. Oh in quei mesi grandi! È l'agonia che sta fra le nude pareti. Cinque o sei bimbi scalzi, leceri, mezzo nudi, con le carni di color rosso di ruggine, con le faccine gialle ed infossate, avvolti entro un putido e grasso vortice di fumo, tossono orribilmente e strillano dalla fame, mentre la madre livida, scarna, affamata, con gli occhi gonfi dal fumo si ammazza a soffiare sui tizzoni verdi per destarne la fiamma.
A quei gridi acuti dei figli, a quel pianto che non ha, né può avere conforto, essa dà un tremito con sembianze scomposte, e cerca racquetarli con le promesse, colle minacce, e coi calci. E si racquetan davvero per un momento, ma di lì a poco incominciano a cacciar stridi più spaventevoli, e ad avvoltolarsi rabbiosi sul pavimento ghiacciato. L'infelice donna esce a furia da casa, e cerca avere a credito un pane, un pugno di fave, qualsiasi cosa che possa mettere in bocca dei bimbi: ma, oh, quante volta ritorna con le mani vuote e la disperazione nel cuore! E non potendo più reggere a quei strilli, a quella fame, a quella fiera agonia si avvinghia le mani alle fauci, e grida con voce rauca dalla rabbia:
- O Cristo di misericordia! …Son forse io sola la peccatrice nel mondo? … sono stata la sola a configgervi i piedi? Perché siete senza pietà? Ne muoion tanti, e questi soli non muoiono! … Per questi soli non c'è angina, né colera, né vaiuolo, né il diavolo che se li pigli! Sia maledetta chi si marita! Il padre in campagna, che mangia e beve e sta in pace … e io qui … in questo inferno! Ed esce di nuovo, e fa … di tutto perché ritorni col pane.5

Era questa l'atmosfera che si respirava a casa dello zzu Cicciu nei «mesi grandi» dei primi decenni dell'Ottocento, con una piccola differenza, però: il capofamiglia e i figli maschi che assieme a lui zappuliavanu 'u lavuri 6 non erano affatto dei privilegiati. Mangiavano cardi crudi ed erbe spontanee appena strappati dalla terra. Bevevano acqua di ruscello e bestemmiavano come turchi. La madre, naturalmente, faceva sempre del suo meglio per rimediare qualcosa da mettere sotto i denti: pane, fave o carrube, non importava. Inchi la panza e inchina di spini,7 diceva l' antico. I suoi tentativi erano, però, troppo spesso vani: la fame a quell' epoca si tagliava col coltello in tutto il vicinato e gli usurai difficilmente concedevano soccorsi alimentari a chi l'anno prima se n'era tornato dall'aia col tridente in spalla.8 Capitava anzi che in quella famiglia si dimenticasse per mesi il sapore della grazia di Dio e si sopravvivesse mangiando scoddi, cardedda, sudda, vurranii, cicoria, finocchi, pisciacani, caluzzi, airazzu, cotrulacita, spiredda, trunza di vrocculi, purciddana, tinnirumi ri favi e altre erbe che manco gli asini volevano.
Ma un giorno, benedetto giorno di primavera, la Divina Provvidenza si profilò in quella casa – e in almeno — altre cento del paese - con le sembianze di un tumolo (circa 14 chilogrammi) di grano regalato dalla «buonanima del Principe» il quale, Dio gliene renda merito, non si dimenticava mai dei più poveri di quelli che considerava ancora propri «vassalli». Un po' di quel grano, nemmeno a dirlo, quella sera stessa fu consumato sotto forma di minestra di farru,9 il resto macinato col mulineddu di petra e nottetempo panificato.
Sicché gli uomini l'indomani poterono andare a scurriri u lavuri10 con un grosso pane nel saccuni. Contenti e giulivi, estirpavano erbacce e pregustavano la gioia di riconciliarsi con quel cibo «da cristiani». Certo, sapevano bene che avrebbero dovuto mangiarlo scusso. Ma il miglior companatico era la fame arretrata, la lupa , ‘u pitittu , a cui da tempo davano del tu. Il problema era, semmai, che il pane era poco e bisognava tagliarlo con parsimonia e distribuirlo equamente, per non scontentare nessuno. Ma questo era compito del capo famiglia, non certo dello zzu Cicciu , che a quell ' epoca aveva tredici anni. Il padre, uomo più giusto di Salamone, già socio del Fascio dei lavoratori e poi vice segretario della Lega Cattolica, non era certo il tipo da far disparità, né tanto meno così incosciente da lasciar cadere molliche a terra, di cui avrebbero beneficato solo le maledette formiche che gli rubavano il grano nell ' aia. Ma, pani e cuteddu , lo dice pure il proverbio, non inchi vureddu.11 Questo pensava il giovanissimo zzu Cicciu , mentre estirpava aneto e loglio in mezzo al lavuri , con la debolezza che gli mangiava gli occhi nella trepidante attesa del pane. D'un tratto vide svolazzare « tri curvazza », più neri della mal'annata. Certo, non gli fecero una buona impressione. I corvi, si sa, sono uccellacci di malaugurio, nemici giurati degli zappaterra e di tutti i mangiapane di questo mondo, con buona pace di Noé, che «aprì la finestra che aveva fatto nell'arca e mandò fuori un corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque non si furono prosciugate».12 Ma questo il contadinello forse non lo sapeva.
Né poteva credere, ammesso che qualcuno gliela avesse raccontata, alla storia di Elia, il più solitario dei profeti, al quale l'Onnipotente «era solito mandare un corvo, sera e mattino, che lo rifocillasse con pane e carne».13
Per lui i corvi erano solo volatili immondi, dannosi: si nutrivano di carogne e rubavano le sementi ai poverelli. Non valeva nemmeno la pena di sprecare una cartuccia per mangiarne la carne, visto che gli stessi cani la rifiutavano, quant'era dura e puzzolente. Ma in quella stagione c'era poco da temere dai corvi: non era più tempo di semina, il grano era morto e risuscitato sotto forma di lavuri , grazie a Dio. E l ' annata prometteva bene. Sarebbe bastato che il Signore mandasse ancora una buona pioggia per riempire il cannizzu e mettersi dentro la mezza mancia14 per l'inverno. Avevano quindi voglia i corvi di fare quaquà! Ma quando gli uccellacci sparirono dalla circolazione, e i contadini andarono a rovistare nel saccuni … lo trovarono vuoto. Il pane se l ' erano portato i corvi. Aveva ragione Piero Camporesi: «Il pane dei poveri, degli straccioni, dei disoccupati e specialmente di coloro che, vittime di una logica economica e sociale paradossale, lo producevano, i contadini, è un pane sempre in fuga, inafferrabile come in un incubo al rallentatore, d'interminabile durata». 15 In preda alla rabbia, quel giorno i nostri sfortunati zappaterra non poterono fare altro che riempirsi le tasche di pietre con l ' illusoria speranza di poterle scagliare contro la razza corvina, contendendosi nel frattempo, zappudda in mano, i pochi cespugli di scoddi , sfuggiti alla precedente sarchiatura del seminato.

Ma la Giustizia Divina prima o poi arriva su chiunque tolga il pane ai poveri. Venne l'autunno e si cominciò a scalzare il sommacco.16 Per antica consuetudine i braccianti addetti a questa operazione percepivano, oltre al salario in moneta suonante, anche il pane, il vino e il companatico. Lo zzu Cicciu , suo fratello e suo padre non incontrarono quindi difficoltà a trovare insieme lavoro nell ' esteso sommaccheto dello speziale che, in qualità di ex presidente della Lega Cattolica, ci teneva a trattare i giornalieri come cristiani e a scambiare qualche chiacchiera con loro durante la pausa per la colazione. Chiacchierando chiacchierando, un giorno il galantuomo seppe del brutto scherzo che i tre avevano ricevuto dai corvi. »Non vi siete ancora vendicati?« chiese. E si premurò di spiegar loro un trucco. «Inzuppate una fetta di pane nel vino ed esponetelo alla vista dei corvi» consigliò. Detto fatto.

In men che non si dica un corvaccio planò sul pane, come i pesci abboccano all ' amo e i topi addentano il formaggio della trappola. Lo sforacchiò a beccate, fece due volte quaquà e stramazzò a terra, ubriaco fradicio. Lo zzu Cicciu , ebbe perciò gioco facile nell ' afferrarlo per i piedi. Gli fracassò il cranio con il manico della zappa, lo legò a testa in giù ad un fico, l ' albero di Giuda,17 e lo lasciò così, in pasto agli avvoltoi.

La punizione esemplare inflitta al corvo dal giovane eroe rurale, per il tramite del vino, «sangue dell'alleanza, che è sparso per molti»18 e segno inequivocabile della punizione divina,19 fu naturalmente condivisa dallo speziale e da tutti i contadini presenti. Era, d'altronde, prevedibile: il corvo aveva attentato alla vita umana, vuoi mangiando il grano che i contadini non portavano al mulino per affidarlo alle cure della Madre Terra, con l'aleatoria speranza di raccoglierne di più, vuoi rubando il pane, frutto della terra e del lavoro umano.
D'altra parte il pane, «reso saporoso e commestibile dall'ingegnosa cultura degli uomini, rappresenta l'allegoria della vita, della natura guidata e trasformata dalla pensosa manualità».20

Il corvo meritava perciò d'esser giustiziato ed esposto a pubblico ludibrio. La scelta di appenderlo ad un fico, anch'esso fonte di nutrimento umano, rispondeva, forse inconsapevolmente, all'esigenza di riscattare la provvidenziale pianta mediterranea dall'ingeneroso marchio infamante che gli era stato appioppato, albero di Giuda, come dire di colui che aveva tradito il Salvatore dell'umanità.








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NOTE

1 Sono le prime due strofe di Pueta e zappaturi, poesia inclusa nel volumetto di Ignazio Buttitta, Lu pani si chiama pani – Versi italiani di Salvatore Quasimodo – Disegni di Renato Guttuso, pubblicato a Roma nel 1954 dalle Edizioni di Cultura Sociale per gli Editore Riuniti. La traduzione di Quasimodo, sicuramente meno efficace dei versi in vernacolo, recita: Dammi la mano, / tu che zappi la terra / per poco pane, / maestro e padre / della rima ricca. / Tu scrivi nella terra / e lasci segni / io nella mente / immagini disegno […]. Cfr. I. Buttitta, Lu pani si chiama pani (a cura di G. M. Rinaldi), Palermo 1999, pp.48-49.

2 Francia nel gergo del contadino siciliano è sinonimo di fame, in ricordo forse della famigerata dominazione angioina, scacciata a furor di popolo dalla rivolta del Vespro (1282).

3 La metafora «cambiare posto», molto comune nel linguaggio dei contadini della Sicilia preindustriale, trae origine dall'uso di legare l'asino ad un piolo per consentirgli di sbocconcellare l'erba di un prato finché ce n'era. Quando finiva, si cambiava posto all'asino. Il personaggio indicato come zzu Cicciu si chiamava Francesco Mercante (classe 1891) da me intervistato a Villafrati il 21 gennaio 1984.

4 Cfr. G. Bufalino, Nota a A. Buttitta – A. Cusumano, Pane e festa. Tradizioni in Sicilia , Palermo 1991, p.7.

5 Cfr. S. A. Guastella, Le parità e le storie morali dei nostri villani , Palermo 1969, pp.32-33.

6 Sarchiavano il seminato in erba.

7 Riempi la pancia e riempila di spine.

8 Espressione pittoresca usata dai contadini per descrivere la condizione del metatiere che non ricavava nulla dalla divisione del prodotto, cosa che avveniva più spesso di quanto non si creda. Da calcoli dal 1895 relativi a Palazzo Adriano (Palermo), risulta che per gli iniqui patti agrari, il contadino portava qualcosa a casa soltanto quando una salma di terra rendeva otto salme di grano. Nel migliore dei casi rimediava i mezzi di sostentamento per quattro mesi e «il soccorso ad usura» da parte del padrone per altri due mesi. Cfr. A. Battaglia, L'evoluzione sociale in rapporto alla proprietà fondiaria in Sicilia, Palermo 1972, pp.212-213.

9 Si chiama così «una poltiglia di grano duro grossolanamente sminuzzato» con cui «si preparava una minestra povera con o senza legumi, a lungo base alimentare della cucina contadina siciliana».
Cfr. A. Cusumano in A. Buttitta A. Cusumano, op. cit. , p.66.

10 Ad estirpare le erbacce dal seminato, operazione che si faceva a mano, «per non spezzare la pianticella ancora in erba del grano». Cfr. M. Gangi, Le fasi del ciclo del pane , in Il ciclo del Pane – Giambecchina , Palermo. s. d.. I contadini usavano portarsi comunque la zappudda , per quest'operazione, anche se la usavano con molta attenzione.

11 Pane e coltello non riempe budello. Il proverbio nella versione calabrese suona: Pani e cuteju non inchi gudeju .
In proposito Raffaele Lombardi Satriani spiega: «usa il contadino, mangiando il pane, tenere in mano il coltello e tagliarne un pezzo alla volta e quindi denota il risparmio che si fa del pane, del quale sempre si difetta».
Cfr. L. M. Lombardi Satriani, Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Palermo 1979, p.171.

12Cfr. Gn 8,6-7. Una leggenda popolare siciliana vuole però che il corvo sia stato maledetto da Dio perché, inviato da Noè a vedere se diluviava ancora, non ritornò più nell'arca, perché andò a mangiare «carnazzu», cioè carne d'asino.
Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi-Credenze e pregiudizi del popolo siciliano , Vol. III, Palermo 1978, pp.290-291.
Sul simbolismo contraddittorio del corvo cfr. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli miti sogni costumi gesti forme figure numeri , trad. it., Milano 1989, Volume primo, pp.327-329.

13 Cfr. P. Camporesi, Il pane selvaggio , Bologna 1983, p.173. Cfr. pure 1 Re 17,6

14 Cfr. Scorta di cereali per l'alimentazione della famiglia.

15Cfr. P. Camporesi, Il pane cit., p.33.

16 Pianta officinale le cui foglie venivano utilizzate per la colorazione delle pelli. Quanto al sommacco arboreo cfr. G. Pitrè, Usi e costumi , cit. pp.281-282

17 Il fico si chiama così perché, secondo una leggenda, vi si impiccò Giuda. Un'altra leggenda vuole invece che il traditore di Gesù si sia impiccato ad un tamerice. Cfr. G. Pitrè, op. cit., pp.244 e 295.

18Cfr. Mc 14, 24.

19 Cfr. Ger 25, 15-30.

20 Cfr. P. Camporesi, L'officina dei sensi , Milano 1991, p.119.



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