Archivio culturale di Trapani e del1a sua provincia
Calatafimi e Garibaldi di Carlo Cataldo


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CALATAFIMI E GARIBALDI

Saggio storiografico commemorativo
sulla battaglia di Pianto Romano (15 maggio 1860)


LA CALUNNIA SUL GEN. LANDI "COMPRATO" DA GARIBALDI


R. LEGAT, "La battaglia di Calatafimi" (Milano Museo del Risorgimento).

Il 15 maggio 1990, al termine della mia commemorazione del 130° anniversario della battaglia di Pianto Romano, l'amico Giovanni Bruccoleri, direttore della Biblioteca Comunale di Calatafimi, m'interpellò gentilmen­te sulla "diceria secondo cui il Landi sarebbe stato «comprato» da Garibaldi, per compiere la sua ritirata da Calatafimi".
Con uguale gentilezza gli accennai quanto aveva scritto il discendente Guido Landi nel documentato saggio, Il generale Francesco Landi, apparso sulla "Rassegna storica del Risorgimento" nell' aprile-settembre 1960.
La sera del 15 maggio - pur con gravi perdite di uomini e avendo a fronte un nemico con forze in gran parte intatte e in ottima postazione strategi­ca - Garibaldi ebbe ragione dei borbonici, perchè il Landi ordinò la ritirata, temendo l'accerchiamento da parte dei picciotti.
Il generale borbonico asserì che le bande sulle colline circostanti Calatafimi mostravano di voleri o accerchiare.
Un testimone garibaldino, il futuro generale Baratieri, concorda con lui, scrivendo: "Le bande che occupavano le alture circostanti potevano avvolgere i regi e gettarsi sulla linea di ritirata".
Che il loro numero fosse tale da preoccupare il generale nemico, è rivelato dal Bandi, allorchè scrive che, dopo il combattimento, i siciliani delle due ali garibaldine, calarono giù dalle alture, "in lunghe file, simili agli sciami delle formiche, e in un batter d'occhio ebbero invaso il campo".
A convincere il Landi alla ritirata, furono la minaccia di accerchiamento, gli sprechi imprevisti di munizioni, che avevano costretto i soldati a ri­correre ai sassi; le perdite umane e il mancato arrivo di rinforzi; la notizia che le bande avevano saccheggiato i mulini e si erano impadronite della farina destinata alle truppe; l'ordine giuntogli di ripiegare su Palermo.
Secondo Guido Landi, per giudicare il suo antenato, "bisogna prescindere sia dall'apologetica risorgimentale, che spiegò tutto col terrore incus­so dall'eroismo garibaldino ad una truppa priva di ideali, sia dalla storiogra­fia borbonica, che attribuì i successi di Garibaldi ad una pura e semplice serie di tradimenti".
Il gen. Landi, preoccupato più dalle "masse dei siciliani" che dalla tmppa italiana, isolato in un paese nemico, senza comunicazioni con la propria base, senza informazioni, senza rifornimenti, e minacciato di momento in momento in modo imprevedibile, pensò, giustamente, prima a tenere in ri­serva parte della sua colonna e poi a ritirarsi da Calatafimi.
Contro il luogo comune che nella battaglia dà parte preponderante e decisiva ai garibaldini, e parte secondaria ai picciottt', Guido Landi rileva:
"Bisognerebbe in tal caso dimostrare che il generale borbonico si era immaginato una situazione inesistente: falsa l'insurrezione, falso il taglio dei telegrafi, falso lo sbarramento delle strade, inesistenti o innocue le bande". Invece, "dal 4 aprile, cioè da più di quaranta giorni, le truppe erano impegnate in continui conflitti coi rivoltosi. Le comunicazioni erano tanto malsicure che i corrieri passavano a stento, o cadevano nelle mani dei ribelli. Le bande esistevano, e le ritroveremo armate ed aggressive il giorno dopo a Par­tinico ed a Montelepre". Per questa situazione, il Comando borbonico ave­va deciso di concentrare tutte le truppe attorno a Palermo.
Chiarito che, nel giudizio sul gen. borbonico, "ha influito l'impostazio­ne epica e leggendaria di un nucleo di prodi, condotti da un eroe, che urtano e travolgono un esercito in piena effIcienza", Guido Landi afferma: "Non si vuole sminuire una delle più belle pagine dell'unificazione nazionale, se si restituisce alle popolazioni siciliane la parte che hanno avuto nella vicenda". Vicenda che "non può essere valutata come un duello tra due avversari isolati", in quanto "una parte e l'altra s'affrontò nella più vasta cornice d'un movimento insurrezionale in pieno sviluppo.
Garibaldi, grande condotti ero e grandetrascinatore di masse, seppe rivolgere a proprio favore tutti gli elementi utilizzabili, e li unificò in una sola, irresistibile corrente. I suoi avversari subirono la situazione e fInirono per esserne travolti: ma è estremamente mal certo che essa potesse essere rovesciata da un comandante isolato, al quale i superiori avevano concesso ben poca autorità e ben poca iniziativa, e che avrebbe dovuto assumere su di sè tutta la responsabilità di trasformare in azione offensiva il piano puramente difensivo che egli sapeva elaborato dal Comando in capo, e che gli era stato comunicato".
Certo, "il gen. Landi non valutò se un colpo d'audacia avrebbe potuto essere vantaggiosamente sperimentato", e ubbidì al supremo Comando, che voleva raccogliere tutte le truppe a Palermo, non "effettuare azioni offensive a distanza".
Ma il fatto che nella ritirata "si aprì il passo, combattendo in più luoghi, conferma che il timore di essere circondato era tutt'altro che illusorio". Ed "è diffIcile comprendere come questo ripiegamento sia stato da taluni definito una fuga". Nella difesa di Palermo, il suo comportamento fu "tutt'altro che insoddisfacente". Sottoposto poi ad esilio a Ischia e al giudizio di una borbonica Commissione militare d'inchiesta, con altri generali, fu riconosciuto fedele al dovere e incolpevole dei fatti di Sicilia, "imputabili ad un complesso di circostanze eccezionali".

* * *

Guido Landi puntualizza il carattere deteriore di certa "apologetica garibaldina che, credendo d'esaltare maggiormente la figura dell'eroe, volle mostrare come il solo lampo della sua spada travolgesse, in rotta vergogno­sa, caterve di nemici vili e inetti. La vera epopea non svaluta e non disonora il nemico contrapposto al proprio eroe. Garibaldi, che aveva veramente qualità da personaggio di chanson de geste, ed istintivo spirito cavalleresco, non negò mai il merito dell'avversario, e contribuì in tal modo alla propria gloria più dei suoi fanatici ammiratori. Fu anche il miglior politico - egli cui di solito si nega questa qualità -, perchè comprese come dovesse attribuirsi al valore italiano quanto pur si compiva sotto una bandiera che non era quella nazionale".
A prova dell'impossibile sopravvivenza d'una dinastia, Guido Landi adduce l'estrema "insipienza e povertà intellettuale" di sostenitori e propagandisti del governo borbonico, poichè "quanto di meglio fu detto sulle istituzioni borboniche si dovette a scrittori liberali che gli resero ragionevole giustizia".
Le prime calunnie di "tradimento" partirono dal maggiore Sforza, che "sostenne di essere stato lasciato dal Landi senza appoggio"; ma non si conosce di lui alcun episodio di valore nelle fasi successive della guerra. Inconsciamente, forse, egli infuse nei militi tanta sfiducia nei superiori, se il suo battaglione registrò il più alto numero di diserzioni.
Sul gen. Landi - morto il 2 febbraio 1861, provato dal dolore e dalla miseria per cui aveva dovuto vendere i cavalli, uno dei quali gli era stato sottratto dai garibaldini - ricaddero i livori di quei borbonici che "volevano ad un tempo disonorare Garibaldi. Stando a quanto essi scrissero, fiumi d'oro sarebbero corsi dalle mani di Garibaldi a quelle dei comandanti nemici".
La Civiltà Cattolica creò la leggenda di un Garibaldi falsario, "divenuta dogma, sulla fede di quel periodico reverendissimo": il Landi, recatosi al Banco di Napoli a riscuotere una fede di credito di 14.000 ducati avuta da Garibaldi, e accertatosi che era falsa, sarebbe morto di crepacuore.
La fantasiosa calunnia - poi ripetuta da De Sivo, Buttà e altri che variarono a volontà la somma - fu riferita a Garibaldi dal figlio del gen. Landi, Michele (che aveva fatto la campagna di Sicilia nell'esercito borbonico), con l'invio di questa lettera da Bologna il 1° ottobre 1861:

"Onor.mo Signor Generale,
Spinto dalla impellente necessità nel veder manomessa la fama ed onoratezza dell'amatissimo mio genitore, ch'or giace fra gli estinti, mi corre il sacro dovere tenerla per poco occupata con questa mia rispettosa, scritta in nome e parte eziandio degli altri miei germani, (dell') inconsolabile vedova genitrice comune, nonchè di tutto il parentado.
Ella, Sig. Generale, conobbe da presso il povero mio padre, primo dal caduto governo destinato a combattere la irrompente falange guidata dalla invitta vostra spada là sui gloriosi campi di Calatafimi. Ella quindi è alla portata di giudicare, se il generale Landi siasi di portato nel rincontro da vecchio ed onorato militare, come contenne la sua truppa, per tradizione corriva al vandalismo, a non abbandonarsi al saccheggio, a rispettare i cittadini nelle loro proprietà e nelle persone, e con quanta perizia riuscì a fare la sua ritirata sopra Palermo coll'intiera colonna, quantunque transitar dovesse per paesi insorti tutti come un sol uomo, ed armatisi per opra d'incanto al solo annunzio dello avvenuto sbarco a Marsala dei Mille animosi italiani, guidati dalla spada del prode Generale Garibaldi.
Generale! Se mio padre si trovò suo avversario a Calatafimi fu una mera fatalità; chè un uffiziale, il quale per i fatti politici del 1820 si era trovato escluso dai ruoli militari, non poteva restarsene insensibile alla vista di una nazione, che rivendicavasi a libertà.
Ma egli solo, parte di una numerosa classe di uffiziali, devoti fino alla follia al paterno governo dei Borboni, mai per sentimento di dovere, ma sibbene per l'innato egoismo del personale benessere, salvo pochi, non potè agire altrimenti. E dopo l'ostinata resistenza che tutti sanno e da Lei, Sig. Generale, con Ordine del giorno affidato alla storia contemporanea, è da vituperarsi il generale Landi, se dopo dieci ore di sostenuto combattimento, nel mentre cadevano le fitte ombre della notte, privo oramai di munizioni da guerra e da bocca, abbia, fatto sonare a raccolta, imitato in ciò dai contrari italiani, e preferito abilmente ritrarsi al cedere con viltà le armi e rendersi prigioniero?
Generale! La maniera di servire del defunto mio genitore assai onesta, disinteressata di troppo, tutta umanitaria, e i buoni ne fanno fede, aveva fatto sì che l'animo del re Ferdinando II, non facilmente al bene proclive, pure si fosse piegato a beneficarlo in vari rincontri.
E l'uomo onesto non può non conoscere i benefizi che gli vengon prodigati anche dal suo nemico. L'invidia feroce, che sè stessa macera, se l'ebbe a dispetto; e colse il destro di perderlo nella pubblica opinione apponendogli la taccia di traditore e causa prima del glorioso vostro ingresso a Palermo; perchè malignamente buccinossi dai tristi averlo il generale Garibaldi subornato, mercè lo sborso di ducati 14.000 in fede di credito, e questa ritenutasi per falsa dal Banco di Napoli, ov'erasi recato a realizzarla. E tanto indipendentemente pubblicavasi dai giornali austro-clericali-borbonici: Il Cattolico di Genova, la Civiltà Cattolica del partito gesuitico, ed altri, che non rammento, usciti in luce in Napoli stesso.
Calunnia sì obbrobriosa colpì nell'anima sensibile il troppo onorato mio genitore, che ne mori in breve di crepacuore.
Chi più di Lei può smascherare sì vile, sì impudente calunnia? E deve a tutt'uomo praticarlo; se da ciò deriva onta ed infamia alla memoria benedetta di mio padre, non è meno sanguinolento lo insulto fatto al primo patriotta che l'Italia s'abbia, all'intemerato Garibaldi, addebitandogli di esser si avvaluto di vili mezzi per conquistare la Sicilia.
Sappia infine, Generale integerrimo, ch'era sì retta l'opinione politica del fu Brigadiere Landi, mio padre, che, disgustato dallo immeritato esilio d'Ischia regalatogli da Francesco II, dopo di averlo onestamente servito, chiese ed ottenne il suo ritiro.
Si degni, illustre Generale, onoranni di un suo pregevole riscontro, il quale ridonar possa la pace ad una onesta famiglia ingiustamente calunniata da un partito avverso all'Italiano Risorgimento, e mi autorizzi a renderlo di pubblica ragione.
Gradisca i sentimenti del mio doveroso rispetto, col quale mi professo di Lei, Generale invittissimo,

Umilissimo e Dev.mo Servitore
Michele Landi
Luogotenente al 9° Regg. Fanteria.(1)

Garibaldi, nella sua intemerata coscienza, rispose al figlio del Landi con questa lettera del 1° novembre 1861 da Caprera, demolendo la calunnia, formulando parole di stima per chi "fece il suo dovere di soldato" ed esprimendo l'amichevole cordoglio per la perdita del "bravo Genitore":

"Mio caro Landi,
Ricordo di aver detto sul mio ordine del giorno di Calatafimi: che non avevo veduto ancora soldati scontrarsi e combattere con più valore; e le perdite da noi sostenute in quel combattimento lo provano bene.
Circa ai quattordicimila ducati ricevuti dal vostro bravo genitore in quella circostanza, potete assicurare l'impudenti giomalisti che ne insultano la memoria, che 50 mila
[lire] era il capitale che corredava la prima spedizione in Sicilia e che servirono ai bisogni di quella, non per comprare generali.
Sorte dei Tiranni... Il Re di Napoli doveva soccombere, ecco il motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella entrata su Palenno fece il suo dovere di soldato.
Dolente per quanto avete perduto, vogliate presentarni alla vostra famiglia come un amico, e credetemi con affetto

Vostro
Giuseppe Garibaldi" (2).


* * *

La battaglia di Calatafimi danneggiò irreparabilmente una monarchia.
La giustizia storica vuole che si accenni ad altri - non noti - "danneggiati": i proprietari dei luoghi dove infuriò la lotta, anch'essi assertori della sua asprezza.
Il 28 maggio '60, il governatore di Calatafimi informa Garibaldi sui "danni sofferti dai proprietarj nei seminati [di grano] e terre coverte a sommacchi, nelle campagne in cui avvenne il conflitto del 15 maggio"(3).
L' 8 agosto seguente, il governatore del distretto di Alcamo invierà a Palermo, al ministro della Guerra (che la inoltrerà, il 13, al collega dell'Interno) la richiesta - formulata dal presidente municipale di Calatafimi - di risarcimento dei "danni, causati dalle truppe borboniche, nella gloriosa giornata che portò seco la rigenerazione della Sicilia" (4).


(1) La lettera è in G.E. CURATO LO, Scritti e figure del Risorgimento italiano. Con documenti inediti. Fratelli Bocca. Torino 1926, pp. 210-12.
(2) Cfr. Epistolario di Giuseppe Garibaldi, voI. VI, 1861 - 1862, Ist. per la Storia del Ris. Ital. Roma 1983, p. 184.
(3) Docum. nell'Arch. Com. di Calatafimi.
(4) Docum. nell'Arch. militare di Sicilia (b. 1, Arch. di Stato di Torino).



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Proprietà letteraria
riservata all'Autore


Ringrazio l'amico
Salvatore Gallitto
per il suo vivo
e sincero amore
per il prof.
Carlo Cataldo













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