Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

LA PATRIA ARMATA di Salvatore Costanza


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LA RIVOLTA CONTRO I «CUTRARA»
(Castellammare del Golfo, 1/3 gennaio 1862)



5. I «cutrara» in azione


Il territorio comunale aveva avuto, fino al 1846, un'estensione di salme 3092 (cioè ettari 5400) coincidenti con l'antico «stato» d'Aragona170. Ad esso erano state aggregate le tre ex baroni e di Baida, Inici e Tursi, estese salme 3908 (cioè ettari 6823), che cosi ampliavano la superficie del Comune fino a sette mila salme. C'è da pensare che abbia spinto l'amministrazione borbonica a rettificare questi confini il convincimento che gli ex feudi staccati dal territorio di Monte S. Giuliano fossero piu assimilabili a Castellammare, sia per la natura dei luoghi, sia per l'eredità baronale che essi avevano conservato nel contesto demaniale dell' Universitas ericina. Mentre s'intendeva completare l'a­zione eversiva della feudalità, attraverso lo scioglimento delle promi­scuità e la divisione dei demani, una riforma del vecchio assetto territoriale sembrava al governo napoletano il presupposto necessario a conferire alla stessa azione coerenza e rigore d'interventi amministra­tivi su realtà socio-economiche omogenee. Nel Comune di Monte S.Giuliano, infatti, mediante la censuazione dei fondi demaniali ordi­nata il 5 dicembre 1789 dal viceré Caramanico, si era proceduto ad assegnare a 306 famiglie di coloni, proprietari e allevatori di bestiame quasi cinque mila salme di terra misurate secondo la corda locale (ettari 3, are 34 e centiare 94 a salma)171. Quella censuazione, nonché

170 L'investitura della baronia, terra, caricatore e tonnara di Castellammare era venuta al principe d'Aragona, Baldassare Naselli, nel 1698 (v. L.M. LO PRESTI, Genealogia cronostorica della cospicua e nobilissima famiglia Naselli, Palermo 1755, pp. 271-72). Gli ultimi baroni di Castellammare erano stati, dal 1754, Luigi e Baldassare Naselli Morso e Luigi Naselli Alliata.
171 ASP, Real Segreteria, Giunta delle censuazioni dei fondi comuni e patrimoniali delle Università demaniali, buste 5251 e 5252. Sui risultati della censuazione nel Comune di Monte S. Giuliano, v. il memoriale di Tommaso Natale (Palermo, 20 luglio 1791) che si conserva in ASME tra i documenti raccolti dal can. Antonino Amico (Il Sindaco Giuseppe Sardo e la censuazione delle terre comunali. 1791, voI. I, n. 4). Fu scritto in risposta alle critiche mosse dai giurati del Monte (e per essi dal barone Sardo) nei confronti delle Istruzioni vicereali sulla enfiteusi dei fondi demaniali. La resistenza dei giurati deve riconoscersi nella difesa d'interessi speculativi di parte, piuttosto che nella tutela dei diritti comuni dei contadini, come invece ha pensato Salvatore Francesco Romano (Momenti del Risorgimento in Sicilia, Messina-Firenze 1952, p. 148). Scriveva, infatti, Tommaso Natale che la «querela» era fatta per solo spirito di ostinata contraddizione da un esiguo gruppo di «prepotenti, nelle di cui mani raggira l'amministrazione de' publici interessi, per motivo che restando sistemati gl'introjti di simili cespiti con canoni fissi, ed invariabili, viene a mancar loro il dispotismo, e l'esercizio de' loro privati fini nella economica amministrazio­ne, o nella poco fedeltà, con cui si trattano le locazioni de' fondi». Statistiche delle varie fasi dell'enfiteusi, che videro successivamente la dimissione delle quote assegnate ai bracciali e il loro concentrarsi in mano di pochi speculatori (tra cui lo stesso D. Giuseppe Sardo), furono compilate nel 1791 («Stato demostrativo della Rimisura nelle Terre rampanti, redimibili a cultura, e Zarbi di pertinenza del Demanio Comunale di Monte S. Giuliano date ad enfiteusi nell'anno 1791»), nel 1828 (31 dicembre) e nel 1829 (3 marzo). Vedile ora nel Fondo Amico cito Un primo esame della censuazione dei feudi demaniali nell'agro ericino nello studio di VINCENZO ADRAGNA in «Trapani», a. XIII (1968), n. 9/12 (settembre/ dicembre). Per un indispensabile quadro di riferimento delle questioni sollevate dalla politica riformatrice borbonica, V. sempre E. PONTIERI, Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze 1943.

l'iniziato processo di trasferimento della popolazione dalla vetta di Erice al vasto contado sottostante, avevano ormai con figurato struttu­re fondiarie di tipo capitalistico, sulle quali si era formato un ceto borgese medio/alto, occupato nella gestione di paricchiate e cortiglioli intensamente coltivati. Un'economia, cioè, con tratti peculiari d'imprenditorialità borghese, avulsa in gran parte dalle persistenti vocazioni del latifondo baronale che era stato assegnato alla giurisdizione amministrativa di Castellammare.
Un rivelo del 1788 indicava quali fossero nel Comune di Monte S. Giuliano i feudi baronali, quelli cioè che, ad eccezione di Arcodaci e Murfi, sarebbero passati in seguito a Castellammare: «In primis rivela tutto il territorio essere stato arbitrato dalla locale deputazione coll'intervento, assistenza e perizia di D. Girolamo Vajro di questa città per salme 13000, cioè salme 8000 di terre lavorieri, incluse Baronie di Bajda, Arcodaci, Mursis, feudo di Scopello, feudo del Celso di Bajda, ed Inici possesse dai loro Baroni, ed il restante componenti in diverse strasatti, paricchiate, luoghi, giardini, vigne, oliveti e trappeti di olive possesse da diverse persone si cittadini, che esteri, in parte date a gabella, ed in porzione concesse ad enfiteusi alle loro rispettivi enfiteuti, e salme 5000 di Montagne possesse da questa Università»172. Un'altra rilevazione di vent'anni dopo, che aveva carattere fiscale173, calcolava in salme 2656 della corda locale l'estensione di questi feudi, ma non vi era compreso Scopello già entrato a far parte del demanio regio per essere stato destinato, fin dal 1802, a riserva di caccia del Borbone. Il solo feudo dei Fraginesi, esteso 343 salme, era stato concesso in enfiteusi; mentre per lo piu erano dati in affitto a grossi gabelloti di Castellammare i terreni pascolati vi e semineri ricadenti entro il perimetro delle tre baronie suddette.

172 Cfr. Rivelo che fa D. Gio. Battista Oddo Giurato Seniore dell'anno 7a Ind. 1788 e 1789 della Città del Monte S. Giuliano alla Spettabile Deputazione dell'Estimo della Città medesima, in ASME, Corte Giuratoria, doc. 58, f. lr.
173 Si tratta di un prospetto della Tassa alla ragione del quattro per cento sopra il fruttato del territorio di Monte S. Giuliano, redatto sulla base della «cordiazione» eseguita nel settembre 1808 dall'agrimensore D. Giacomo Cusimano (ivi, doc. 902).

Su queste terre, poi, non si esercitavano piu da tempo gli antichi diritti comuni, poiché il disconoscimento dell'uso di pascere e legnare nei feudi baronali, accanto al processo di erosione del demanio comunale, aveva ormai raggiunto la fase estrema della inagibilità della legge, per le consolidate (e non piu contestate) usurpazioni, di cui si era perduta perfino la memoria. Del resto, lo stesso Comune, quando tentava un'azione di rivendica, lo faceva, piu o meno scientemente, senz'altro presupposto che la memoria, appunto, o la semplice induzione dal nome del feudo rivendicato (Comuni, per esempio), oppure sulla base di argomentazioni giuridiche abbastanza labili. Tutte prove e ragioni che dovevano necessariamente cadere di fronte alla certezza del «possesso» ereditario del barone174. Le speranze dei contadini di poter accedere alla proprietà della terra erano perciò legate esclusivamente alle concessioni enfiteutiche praticate dai baroni e dai titolari degli enti ecclesiastici. La contesa per i demani, in mancanza di un consistente retaggio di fondi comuni (e mentre ancora il bosco di Scopello era vincolato al patrimonio regio 175), si porrà soltanto per quelle poche salme di terra che il Comune potrà ottenere dallo scioglimento delle promiscuità.

174 È il caso dell'ex feudo di Mafi e Linciasa, posto nel territorio eri cino tra gli altri feudi demaniali ed usurpato al Comune dalla famiglia Fardella. Sull'istanza presentata dal Comune di Monte S. Giuliano contro il conte D. Giovanni Fardella per la reintegra dell'ex feudo Mafi, si veda il Processicolo degli atti di verifica sull'ex feudo di Mafi e Lenciasa contenuto nel volume dei Verbali per usurpi dei beni demaniali (AST, Opere Pie, Vendita ed ajJrancazione, b. 15, fasc. 15). In mancanza di atti possessori certi, il consigliere d'Intendenza Antonio Saporito, incaricato delle questioni demaniali, credette di risolvere la causa a favore del conte Fardella sulla base delle testimonianze rese dai Quartana, gabelloti del feudo, e dell'atto di successione dei beni pervenuti in eredità ai Fardella.
175 L'ex feudo, prima di passare al demanio regio, era appartenuto al principe di Paceco, Fardella. Era contiguo alle contrade Scardina, Cugno di mezzo, Timpone di Ianni, Pizzo di Corvo e Zingaro, che formavano nel Comune di Monte S. Giuliano un vasto demanio di circa 6000 salme destinate al pascolo vagante. Il principe di Paceco, in una supplica del 25 agosto 1770 indirizzata al viceré Fogliani, aveva lamentato i frequenti sconfinamenti dei bestiamari ericini sulle terre di Scopello, che già allora era «quasi tutto albo rito di olive, vigne, manna, giardino, seminerj, ed altri generi facile a venir incendiati, come ben spesso ha successo col pericolo anche della vita delle persone che han bisognato occorrere per estinguere il minacciante e introdotto fuoco» (cfr. in ASME, Corte Giuratoria, Lettere viceregie, fasc. 2252). Con bando reale del 23 giugno 1802, Scopello fu incluso nel «Piano di riserve» disposto da Ferdinando I per la Sicilia (ASP, Real Commenda della Magione (1802), filza 119). Negli anni 1848-'49, fu dato in fitto a Giovan Maria D'Ali (atto del 16 ottobre 1848 in noto Gaetano Mangiarotti: ANT, 2313, ff. 862r-870r).


Non abbiamo per questo periodo i dati relativi all'assetto proprietario in quella parte del Comune di Castellammare che originariamente era infeudata al principe d'Aragona. Come si vedrà in seguito esaminando il catasto del 1842/44, aggiornato al 1865, vi compaiono comunque abbastanza frequentemente i livellari del principe. Disponiamo, invece, di un esatto rivelo del 1808 per quanto riguarda il piu vasto territorio staccato dal Comune di Monte S. Giuliano. Secondo questo rivelo, i trenta feudi baronali (su cui pesava una «tassa», in ragione del 4% sul reddito, di onze 181.6.10) erano ancora uniti nella gestione economica, che si reggeva sul grande affitto (sistema delle gabelle e subgabelle) e sui contratti di fida per il pascolo vagante. Si calcolava che da tale gestione i tre feudatari ricavassero un «fruttato annuale» di onze 4231,7. Soltanto il feudo Fraginesi era stato diviso in 438 quote ad altrettanti enfiteuti. Nel citato rivelo, 48 quote risul­tavano assegnate agli eredi degli originari censualisti, segnando cosi un ulteriore frazionamento di questi fondi, quasi interamente occupati dal vigneto. Può essere interessante notare che solo il 7,31% degli enfiteuti apparteneva al ceto civile e al clero, ma con oltre un quarto della superficie censita, mentre i villici avevano il 63,40% della terra con l'82,42% delle quote. Una certa presenza degli artigiani (il 7,76%) e di elementi della marineria locale (tre padroni di barca e otto raisi), seppure con pochi tumoli, ci indica pure il valore di rinforzo economi­co e di prestigio sociale che rappresentava per tutti la proprietà della terra.
L'enfiteusi nobiliare avviò a Castellammare, come un po' in tutta l'isola, un processo di spinta alla frantumazione della terra che fu all'origine della formazione della piccola e media proprietà borghese; ma tale processo appare piu marcato nel momento in cui il real decreto del 10 febbraio 1824 per l'assegnazione forzosa dei beni ai creditori soggiogatari costrinse il principe Naselli alle alienazioni in favore dell'Oratorio palermitano di S. Filippo Neri, detto dell'Olivella, consentendo allo stesso Oratorio di estendere man mano le concessioni enfiteutiche nelle contrade Duchessa, Tavolara, Cerri, Forgia, Mangiaferro e Molinello assegnategli l'11 luglio 1825 «in soddisfazione di debiti». Dagli atti di ricognizione registrati dai notai ci è possibile rilevare la consistenza del fenomeno e valutarne le specifiche modalità. Nel 1849 gli enfiteuti dell'Olivella erano 24; ma passeranno da 46 a 61 nel periodo tra il gennaio 1859 e l'aprile 1861176. Figurano negli atti ricognitori borgesi e villici, ma anche alcuni mastri e numerosi civili e sacerdoti. Questi ultimi, però, subito dopo aver ottenuto il terreno a censo lo subconcedono a contadini coltivatori, come fanno, del resto, tutti gli altri civili acquirenti di quote enfiteutiche concesse da nobili e titolari di enti ecclesiastici177. Sono, infatti, civili/proprietari, sacerdoti e patrizi i piu attivi in questo tipo di operazioni, le quali in qualche caso assumono il carattere di una vasta speculazione fondiaria. Dal 3 novembre 1850 al 28 ottobre 1852, il barone Vito Cascio, e i suoi fratelli D. Lorenzo e D. Giuliano, subconcedono a 93 piccoli borgesi le loro terre, «in parte seminatorie, in parte non dissodate», nell'ex feudo Comuni (salme 92 della misura legale), per un canone comples­sivo di 261 onzel78. Nello stesso periodo subconcedono a 70 nuovi censualisti altre terre degli ex feudi Sarconi e Valle di Baida e Xacca, da loro acquisite per l'enfiteusi pattuita il l° luglio 1833 con l'antico proprietario, il barone Francesco Colnago179. Nel solo anno 1861, un altro civile/proprietario, D. Procopio Carollo, dà in subenfiteusi «terre rampanti e lavoriere» in ex feudo Bruca per un valore di lire Il 219 e 90 centesimi, equivalenti a 878 onze e 26 taril80. Si realizzava, in questo modo, il duplice intento di percepire piu gravosi canoni dai nuovi censualisti e di beneficare terre per lo piu incolte. Cogli atti ricognitori, poi, i concedenti potevano operare periodiche revisioni del canone sulla base delle stesse migliorie introdotte dall'enfiteuta.

176 Atti di ricognizione in noto Andrea Di Blasi: Il novembre, 3 e 9 dicembre 1849 (AST, 1000, ff. 689,-703" 851,-858" 881,-888,); noto Vito Parisi, 25 gennaio 1857 (AST, 1197, ff. 27,-83v); not. Andrea Di Blasi, 12 giugno 1859 (AST, 1028, ff, 1213,-1255v); 14 aprile 1861 (AST, 1033, ff. 895,-1024v). Procuratori dell'Olivella furono D. Francesco Saverio Borruso e D. Antonino Costamante.
177 Tra gli altri, per il solo periodo compreso tra i14 febbraio 1859 e il 14 luglio 1861, D. Giacomo Verderame, il sacerdote D. Michele Plaja, D. Giuseppe Lombardo, D. Gaspare Nicotri e D. Procopio Carollo (v. atti d'obbligo in not. Andrea Di Blasi).
178 Atti in not. Gaetano Mangiarotti, 3 novembre 1850 (ANT, 2315, ff. 933,-966v), Il e 28 ottobre 1852 (ivi, 2317, ff. 1009,-1042v, 1159,-1194,).
179 [vi, 4 e 24 ottobre, 23 novembre 1852 (ANT, 2317, ff. 941,-961" 1109,-1134" 1337,-1352v), 3 gennaio 1853 (ANT, 2318, ff. 31,-59,), nonché l'atto di ricognizione dell' 11 ottobre 1852 (ivi, 2317, ff. 969,-1007,) da cui si ricava l'estensione delle proprietà dei Cascio: Sarconi (56 salme della misura legale), Comuni (230 s.), Balata (106 s.), Ramo d'alloro (15,3 s.), Baida(31 s.), Sciacca (42,5 s.), per un totale di salme 480,757. L'estensione delle terre subconcesse a Baida e a Sarconi era di salme 24 e tumoli 5 dell'antica corda, gravate per l'annuo canone di ducati 370, 6 taci e 15 grani.
180 Cosi calcolavano i consoli di campagna per le salme 29,260 dell'ex feudo Bruca subconcesse, tra il 2 giugno e il l' novembre 1861, per l'annuo canone di lire 102,13 a salma dell'antica corda (atti in noto Andrea Di Blasi: AST, 1034, ff. 183,-208,; 1035, ff. 593,-604v). Altre quote di Bruca erano state censite a 7 contadini di Monte S. Giuliano il 22 gennaio e i15 febbraio 1860 (atti in not. Gaetano Mangiarotti: ANT, 2325, ff. 69,-86v, 159,-192,).

Ancora un'osservazione sul periodo in cui l'enfiteusi fu maggior­mente praticata nel territorio di Castellammare ci porta a considerare il fatto che quasi tutti i contratti furono stipulati negli anni piu pros­simi, o di poco successivi, agli eventi rivoluzionari del '48 e del '60; mentre dopo l'Unità (se si eccettuano le operazioni per l'enfiteusi forzosa dei fondi ecclesiastici disposta dalla legge Corleo del 1 O agosto 1862) questo istituto agrario praticamente venne a cessare181. Tra la fine del '47 e l'estate del '48, il barone don Lucio Tasca, successore del duca della Ferla, concede a 16 piccoli borgesi alcune terre di Baida182. L'ex feudo Grotticelli, di proprietà del cavaliere D. Francesco Sammartino Ramandetta, è dato a censo, nel dicembre del '59, per un canone annuo di ducati 293 e grani 23 pagato da 65 enfiteuti183. Il marchese Antonio Cardillo, proprietario d'lnici, si convince agl'inizi del '61 a censire una parte dell'ex feudo, e precisamente quella che è chiamata Pocorobba, estesa salme 88 (ettari 295). Le quote vanno a 81 enfiteuti (civili e villici) che s'impegnano a pagare un canone annuo netto di sei onze a salma, cioè il 5% del valore della terra censital84.

181 Sulle varie forme dell'entiteusi moderna (o livello), specie sulla crisi dell'istituto sopravvenuta nella seconda metà del secolo XIX, v. G. GIORGETII, Contadini e proprietari nell'Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI ad oggi, Torino 1974, pp. 94-103.
182 Atti d'obbligo in not. Andrea Di Blasi, 8 e 12 dicembre 1847,31 agosto 1848 (AST, 997, ff. 811 r-836r).
183 Atto di ricognizione del 25 dicembre 1859, ivi (1030, ff. 1084r-1206r).
184 Atti del 27 gennaio e 22 marzo 1861 (ivi, 1033, ff. 137r-284r), 13 ottobre 1861 (ivi, 1035, ff. 369r-389r). L'ammontare del canone per !'intera partita è di lire 6753, pari ad onze 529, oltre al «paraguanto» in lire 22773 e 90 centesimi (pari ad onze 1763, tari 28 e grani 13). Procuratore del marchese Cardillo negli atti di censuazione è il suo «fattore di campagna» Agostino Randazzo fu Paolo.

Sono gli anni in cui si può notare un accentuato dinamismo del mercato fondiario, sia per l'enfiteusi che per la compravendita dei fondi, per lo piu piccoli e medi (da pochi tu moli a cinque/sei salme), ma di buon rendimento perché coltivati a vigna e olivo; mentre si estende il regime colonico nei latifondi dell'interno. Si deve pensare che una tale maggiore mobilità (piuttosto evidente attraverso i negozi registrati negli atti notarili, soprattutto nel triennio 1859/1861) sia venuta anche sotto la spinta degli eventi politici, quando la «questione agraria», o piu generalmente la pressione sociale e morale esercitata dai contadini sulla terra, nel clima di crescente tensione che precede, o segue di poco, l'Unità, rende piu preoccupato e instabile il ceto proprietario. Quest'ultimo ha capitalizzato il risparmio derivante dall'usura e dagli affitti di seconda e di terza mano, ma vuole realizzare ora una condizione economica che lo ponga al riparo dai rischi della concorrenza per le gabelle. Da qui l'affidamento dei propri terreni a coloni parziari, ad enfiteuti e subenfiteuti, quando addirittura non preferisce vendere quei fondi che richiederebbero per essere meglio sfruttati l'impiego di forti capitali.
Il sistema delle concessioni entìteutiche e subenfiteutiche era perciò abbastanza diffuso. Dal 1825 al 1861 esso aveva contribuito a una certa redistribuzione del reddito proveniente dall'agricoltura, magari col mutare semplicemente i percettori delle rendite parassitarie. L'ex feudatario di Castellammare aveva proceduto nello stesso periodo ad alienare quasi per intero il suo patrimonio fondiario - ridotto alla data del 7 novembre 1861 a poco piu di ottanta ettari di seminerio e alla montagna Gagliardetta185 -, sia per liberarsi dei numerosi pesi soggiogatari, sia per assicurarsi attraverso i canoni censuari una rendita residuale dopo il crollo della gestione economica della casa. Nel 1843 un'ordinanza dell'Intendente di Trapani aveva contestato i diritti signorili che egli aveva indebitamente percepiti, fino al 1825, sui suoli occupati da 408 edifici nell'abitato di Castellammare, trasferendoli poi all'Olivella di Palermo «in soddisfazione di debiti»186. Due anni dopo, lo stesso Intendente avrebbe assegnato al Comune di Castellammare la quinta parte in valore dell'ex feudo Gagliardetta, posseduto dai Naselli, a compenso dell'uso civico di legnare sul morto esercitato dai naturali del paese187.

185 AST, Catasto provvisorio, cit., voI. 8, art. 2521, D. Domenico Naselli di Baldassare da Palermo. Fondi nelle contrade Aversa (ettari 48,675), Ginisaro/Arcidiacono (ettari 14,970) e Firriato (ettari 21,146). La montagna Gagliardetta, quasi tutto terreno rampante e sterile, era passata in eredità alla duchessa Laura Naselli (ivi, voI. 10, art. 3273).
186 «Ordinanze emesse dall'Intendente della Provincia di Trapani su' progetti del funzionario aggiunto per promiscuità e diritti signorili», supplemento al Giornale dell'Intendenza della Provincia di Trapani nell'anno 1845, Trapani, Stamperia di Pietro Colajanni, p.te II, pp. 32-36.
187 Ivi, p.te I, pp. 72-76. Il decreto dell'li ottobre 1817 sullo scioglimento delle promiscuità per le terre destinate all'esercizio degli usi civici fu seguito, in un primo tempo, dalle istruzioni dell' 11 settembre 1825; ma la legge cominciò ad essere applicata soltanto dopo il decreto del 19 dicembre 1838 (che ribadiva il precedente decreto del 1817), cui seguirono le istruzioni dell' 11 dicembre 1841 (v. Istruzioni per lo scioglimento delle promiscuità e per la divisione de' demani. Decreti per compiersi l'abolizione della feudalità in Sicilia, Palermo, Stamperia di Francesco Lao, 1842).

In tutte e due le circostanze, il principe si era avvalso della testimonianza procurata dinanzi al funzionario preposto allo scioglimento delle promiscuità da alcuni suoi dipendenti, che vale la pena di ricordare: i procuratori D. Francesco Saverio Borruso e D. Giuseppe Marcantonio Occhipinti, i campieri Bologna, Garofalo e Sangiorgio.


Pianta topografica del territorio comunale di Monte S. Giuliano disegnata da Francesco Fontana. 1855. Scala 1 :2000, cm 70 x 80 (AST, Piante topografiche, N. 116).


Mappa dell'ex feudo di Baida e Valle di Xacca (già dell'abolito Convento di S. Francesco d'Assisi di Monte S. Giuliano) disegnata da Gaspare Nicotra e Andrea Fundarò. 1865. Cm 50 x 70 CAST, Piante topograjiche, N. 65).

Un'altra ordinanza dell'Intendente di Trapani pubblicata il 4 febbraio 1845, che riconosceva il diritto all'uso civico di pascere nell'ex feudo Comuni posseduto dal barone Stabile di Calatafimi, sarebbe stata annullata dalla Gran Corte dei Conti188. Eppure D. Nicolò Dommarco, funzionario incaricato dello scioglimento delle promiscuità, aveva creduto di poter pienamente dimostrare il diritto al predetto uso civico da parte dei naturali di Castellammare, i quali erano stati «sempre soliti condurre al pascolo i loro animali, di qualunque specie, ed abbeverarli nella montagna denominata Comuni fino a pochi anni sono quando l'arbitrio dell'ex barone assegnò quel latifondo» allo Stabile, privando la popolazione degli antichi usi189.
188 L'intendente barone di Rigilifi comunicava il sovrano rescritto del 19 marzo 1851 che approvava la decisione della Gran Corte dei Conti del 21 aprile 1847 «con la quale, annullandosi l'Ordinanza dell'Intendente di Trapani, che assegnava al Comune di Castel­lammare la quinta parte in valore della montagna detta del Comune, di proprietà del barone Stabile, in compenso del vantato uso di pascere, rigettavasi la domanda di compensa mento proposta dal Comune istesso>>> (v. in «Giornale della Intendenza di Trapanh», n. 4 dell'aprile 1851, p. 77).
189 [vi, suppl. del 1845, p.te I, pp. 76-79.

Quale esito abbia avuto l'unico «compensamento» fatto a favore del demanio comunale per gli aboliti usi civici nell'ex feudo della Gagliardetta non è possibile sapere. L'archivio municipale di Castellammare fu incendiato nella rivolta di capodanno del 1862 e gli atti notarili non registrano (almeno per il ventennio successivo) alcuna quotizzazione che si riferisca a quei demani. Comunque il real decreto dell'11 dicembre 1841, il quale aveva di mira il «duplice scopo di favorire l'agricoltura e di mutare i proletari in proprietari», non pro­dusse quegli effetti che erano stati auspicati: cioè «la convenienza di di videre i latifondi per favorire l'agricoltura e creare novelli proprietari»; soprattutto perché l'opposizione dell'ex feudatario di Castellammare contro le ordinanze emesse dal funzionario provinciale riusci quasi sempre, in ultima istanza, a vanificarle.
Se l'abolizione della feudalità accentua il processo di trasferimento di quote di terra ai contadini attraverso l'enfiteusi nobiliare (ma, accanto ad essa, pure quella ecclesiastica), non pare comunque che le speculazioni agrarie del ceto civile castellammarese per accaparrarsi il patrimonio ex feudale e quello che rimane in compenso delle disciolte promiscuità siano contestate dalle masse, che ignorano, o non si cura­no gran che, del diritto revocato dalle disposizioni borboniche a favore dei «proletari» della campagna. Sicché la rivendica dei demani e dei diritti civici è lasciata alla debole iniziativa del Comune, forse nemmeno ispirato da vero interesse civico se deve considerarsi la dipendenza economica di una parte dei suoi amministratori dall'antico feudatario. Cosi la spartizione, dopo l'Unità, del demanio regio di Scopello fra pochi cutrara non produsse quei conflitti agrari che altrove caratteriz­zarono la vicenda demaniale. Né potè formarsi a Castellammare un «partito» con indirizzo democratico che rivendicasse per i non abbienti le quote di terra assegnate al demanio. Furono, infatti, ininfluenti sulla base popolare le idee di un vecchio esponente del «radicalismo» quarantottesco, quel Pasquale Calvi che dal 14 marzo 1861 rappresen­tava il collegio di Alcamo/Castellammare/Partinico al Parlamento nazionale190 e che all'ambiente castellammare se era pure legato da parentele acquisite e da tenui interessi fondiari191. Del resto, l'atteggiamento politico del Calvi, in questo periodo, parve improntato a sostanziale distacco dalle faccende paesane, o piuttosto a voluto disimpegno dallo scontro sociale in atto tra cutrara e popolani. E ciò può forse spiegarsi soltanto con le posizioni ambivalenti della Sinistra isolana: coerenti e solenni le dichiarazioni di principio, ma poi gli uomini preoccupati di non recidere nelle realtà periferiche, con qualche iniziativa troppo spinta sul terreno concreto delle proposte e delle scelte democratico-sociali, le basi del consenso raccolto nello stesso ambito del ceto medio/alto borghese.

190 Pasquale Calvi ottenne nel primo turno, contro Vincenzo Errante e Luigi La Porta, 181 voti, e 364 nel ballottaggio che lo oppose ad Errante (v. Il Parlamento dell'Unità d'Italia (1859-61). Atti e documenti della Camera dei Deputati, Roma 1961, I, p. 282). A Castellammare fu sostenuto dal gruppo Borruso/Marcantonio schierato sulle posizioni democratiche dell'Associazione Unitaria. Sull'esito delle elezioni politiche del '61 v. F. BRANCATO, La Sicilia nel primo ventennio del Regno d'Italia, pp. 131-37.
191 Calvi aveva sposato in seconde nozze Rosaria Pilara, di famiglia castellammare­se, imparentata coi Ferrantelli e zia di quel sacerdote Benedetto Palermo che sarebbe stato fucilato il 3 gennaio 1862 a seguito della rivolta. Nel Catasto provvisorio, cit., vol. 3, art. 681, egli figura per un fondo di ettari 6,5 (rendita netta annua lire 299,38). Atti di compravendita di rustici e casamenti da parte di Pasquale Calvi e Rosaria PiI ara sono registrati in noto Vito Mattarella, 17 dicembre 1866 (ANT, 4018, ff. 733r-740v).

Scopello fu acquistato dalla Società Anonima per la vendita dei Beni del Regno d'Italia, che si era costituita in Torino il lO settembre del '64 onde procurare «l'acquisto, il miglioramento, la gestione prov­visoria, la permuta e la rivendita dei beni immobili, e specialmente di quelli demaniali, o di altra natura, che il Governo italiano fosse per vendere»192. L'ex feudo fu poi rivenduto, nel '68, a cinque civili/proprietari di Castellammare (Natale Asaro, Giuseppe Calandra, Pietro Costamante, Vito Foderà e Ignazio Galante)193. Il sacerdote Galante ne acquistò alcune quote per una estensione di ettari 169 e are 41. Quelle che costituivano una vasta area pascolativa (Cannamelata e Brucano), estesa centodieci ettari, le affittò al massaro Pietro Galante fu Giacomo per un annuo estaglio di 115 lire194. Le altre (Vignazze, Balatelle, Cozzo di Finazzo, Pezza del Mulino e Mesilla) formarono una sua ubertosa tenuta di terre vignate e giardini che facevano corona ad una elegante e confortevole residenza di campagna.

192 Cfr. Società italiana per l'acquisto dei Beni Demaniali ed altri. Statuti, Torino 1865, p. IO. «Le rivendite - prescriveva lo statuto - avranno luogo in corpi od in frazioni, a lunghi termini di pagamento, col sistema di ammortizzazione annuale, o con quello già in uso presso la società di credito fondiario» (art. 5 del titolo II). La società avrebbe trasferito in seguito la propria sede in Firenze. 193 AMC, Carte Galante; ivi la contabilità relativa al feudo demaniale di Scopello (v. pure in AST, Tribunale Civile e Penale di Trapani, Perizia giudiziaria per conto della Società anonima dei Beni Demaniali di Firenze, 16 novembre 1870, voI. 30, fase. 28). Il «real sito di Scopello», secondo il Catasto provvisorio cit. (voI. 4, art. 1344), aveva una estensione di ettari 639,313, in parte destinati al pascolo vagante (235), in parte alle colture cerealicole (308), della vigna (35) e dell'olivo (23). Erano occupati dal bosco 34 ettari. Sulla «riserva» borbonica v. in ASP, Real Commenda della Magione, 1802 (filza 119) e 1815 (filza 1754). 194 Atto del 15 novembre 1870 in not. Vito Mattarella: ANT, 4024, fI. 127r-128v.

L'accesso dei contadini alla proprietà della terra assai contrastato nei fondi demaniali di pertinenza regia e comunale lo fu ancora di piu in quelli della manomorta ecclesiastica. L'azione governativa in questo settore si era esercitata con criteri riformistici sin dalla seconda metà del secolo XVIII, allorché furono espulsi i Gesuiti dalla Sicilia195 e si affermò il principio di assegnare i loro beni in enfiteusi a gente di campagna196.

195 Bando viceregio del 12 dicembre 1767 in esecuzione dell'editto reale del 3 novembre s.a. in F. RENDA, Il riformismo di Bernardo Tanucci. Le leggi di eversione dell'asse gesuitico (1767-1773), Catania 1969, pp. 15-19. Una prima ricostruzione dell'avvenimento aveva già fatto E. D'ALESSANDRO, L'abolizione della Compagnia di Gesu nel 1767 e l'espulsione dalla Sicilia, in «Archivio storico siciliano», Palermo, s. II1, IX (1957-58), pp. 71-103.
196 I criteri della censuazione furono determinati con gli ordini reali del 25 marzo, 16 e 30 luglio 1768, 4 marzo, 2 maggio, 7 luglio e 1° ottobre 1770, 3 maggio e 29 dicembre 1771, 2 marzo, 12 aprile, 18 giugno e 9 luglio 1772, l° luglio e 5 agosto 1773, i quali prescrivevano che «tutti li fondi rusticani in questo regno oggi appartenenti all'azienda d'educazione si censuino a piccole partite o siano a moggia a poveri bracciali ed uomini di campagna giornalieri, atti ed abili all'agricoltura delle terre tanto al regno profittevoli». Sulla complessa questione della riforma tanucciana e dei suoi contrastanti risultati economici, v. F. RENDA, Bernardo Tanucci e i beni dei Gesuiti, Catania 1970.

I Gesuiti del Collegio di Trapani possedevano a Inici (allora in territorio di Monte S. Giuliano) una masseria di 689 salme di terreno, con un reddito lordo valutato per l'anno colonico 1767-68 in onze 2557. Nei libri contabili dell'amministrazione gesuitica si indicava che la suddetta masseria era in parte gestita direttamente dal Collegio (il quale ricavava dalle terre date a terraggio salme 439 di grano e dalla nevai a un reddito di onze 558) e in parte era data a gabellal97. Non poteva dirsi, perciò, che le terre fossero abbandonate; o che non rendessero al massimo della loro potenzialità agraria e silvo-pastorale, tenuto conto della natura montagnosa del feudo.
La riforma antigesuitica non si richiamava soltanto alla necessità di aumentare la produttività di quelle terre, ma invocava un principio di giustizia sociale che avviava un modello di sviluppo della società isolana suscettibile di sconvolgenti effetti sugli equilibri del potere. Tanucci, promotore della riforma, pensava infatti di concedere i fondi rustici dei gesuiti «a partite non piu grandi di dieci moia, e questo pel mantenimento e moltiplicazione delle famiglie nelle campagne»198. Le tendenze giurisdizionalistiche e le suggestioni di tipo rigorista e giansenistico, presenti nell'iniziativa tanucciana, passavano in seconda linea di fronte alla concreta minaccia paventata dalla nobiltà di una politica di riforme dell'assetto fondiario a vantaggio della classe contadina. Da qui le forti resistenze frapposte dall'aristocrazia isolana, attraverso i pareri espressi dalla Giunta Gesuitica di Sicilia in aperto dissenso con le direttive di Tanucci, e mediante un'azione dilatoria che riusci alla fine ad ottenere il risultato di snaturare lo spirito della legge eversiva, che si muoveva nel senso di sviluppare un'azione politico-sociale unitaria, concepita al di fuori dei particolarismi locali e degl'interessi feudali.

197 Già prima (sec. XVII), nel feudo d'lnici alcune terre erano ingabellate a muzzo, altre erano condotte in economia: come risulta dai libri contabili del Collegio conservati in AST nel fondo secreziale di Trapani (bb. 188/192) e in quello delle Corporazioni religiose soppresse (Convento Gesuitico, bb. 104/105).
198 Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo [Il di Barbone (1769-1776), a cura di R. Minguzzi, Roma 1968, p. 437. Dieci moggi della misura napoletana equivalevano ad ha 3,36,40; cioè a una salma della corda di Monte S. Giuliano.

La consulta del 2 maggio 1768, in cui si elencavano le «difficoltà» che la Giunta pensava si sarebbero riscontrate in ordine alla censuazione a moggia a gente di campagna delle terre gesuitichel99, costituisce, in realtà, una sorta di cahier de doléances del baronaggio siciliano inteso a prevenire i possibili effetti della riforma dal punto di vista del rapporto giuridico ed economico tra feudatari e contadini. Per il suo significato ideologico (e insieme pragmatico) il documento assume il valore di un manifesto, i cui echi di fondo si sentiranno nelle piu tarde, ambigue posizioni di un certo indipendentismo siculo.

199 Il testo integrale della consulta del 2 maggio 1768 con cui la Giunta esprimeva le sue perplessità sulle modalità della «censuazione a moggia a gente di campagna delle tenute e dei territori gesuiti ci» è pubblicato da F. RENDA, in Le leggi di eversione dell'asse gesuitico, pp. 40-43. Si trova in ASP, Real Segreteria. Registri dei dispacci. Azienda Gesui­tica, vol. 1468.

L'intendimento che ispirava l'articolato parere espresso nella consulta era quello d'impedire che, una volta iniziata la fuga dei coltivatori dalle terre dei baroni e del demanio verso le nuove colonie, si allentassero gli antichi vincoli feudali: «Resterebbe deserto il baronaggio e il demanio piu d'ognaltro, e preggiudicato lo interesse del regio erario, poiché il censuario concorrerebbe piu volentieri a formarsi una capanna nella sua piccola possessione che a far l'andar vieni dall'abbitato alla campagna, che per lo meno quattro o cinque leghe trovasi da quello distante, e passando in questa i giorni suoi darebbe addio alla patria, cosi per applicar tutto se stesso a rendersi coll'industria in stato di poter divenire piu comodo, come per sottrarsi dalle gabelle regie e baronali, del di cui pagamento resterebbe immune, non essendo abitato re della terra o città d'onde si parte». Piu che del pregiudizio derivante agl'interessi del regio erario, l'aristocrazia si preoccupava, però, del danno che ne sarebbe venuto all' «arbitrio dei seminari di grani forti, di maiorche, orzi e legumi»: il quale richiedeva sempre «l'impiego d'infinito numero d'operari, che obbligano ad anno, a mese ed a merito i loro servizi», con la conseguenza di vedersi «a stretti» i borgesi e gli arbitrianti dei feudi «a soddisfare la di costoro personale fatica a prezzo piu eccedente di quello che ne' tempi andati a' medesimi contribuivasi»200. Il possibile rarefarsi dell'offerta bracciantile, e quindi l'aumento dei costi della mano d'opera, erano veramente i mali piu tangibili della colonizzazione auspicata dalla legge, che veniva a turba­re quel patto tra baroni e mercanti di campagna su cui poggiava nell'isola il sistema della rendita fondiaria201.

200 Ivi.
201 O. CANCILA, Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna, Bari 1980, pp. 3-50; nonché Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palermo 1983; ma anche M. AYMARD, La transizione dal feudalesimo al capitalismo, in Storia d'Italia, Annali l, Torino 1978, pp. 1133-92.

Né era meno surrettizio nel ragionamento della Giunta l'altro motivo addotto contro la legge d'eversione dell'asse gesuitico: che, cioè, la riconversione colturale che avrebbero attuata i censuari al fine di ricavare una produzione agricola piu redditizia («anche per adempimento del patto di beneficare «solito» apporsi negli atti enfiteutici») sarebbe stata esiziale per il seminerio e, quindi, per il commercio dei grani. Infatti la quantità dei fondi suscettibili di miglioria non sarebbe stata tale da intaccare il predominio della coltura frumentaria; e, d'altro canto, gli stessi baroni avevano da tempo concesso molte terre ad enfiteusi, senza preoccuparsi delle conseguenze ora paventate.
La ragione delle «difficoltà» che si argomentavano era, in primo luogo, politica, perché la riforma tanucciana tendeva alla formazione di una classe di coltivatori sottratta al dominio diretto dei signori; ma era anche di natura economica, in quanto metteva in circolo interessi agrari diversi da quelli ormai standardizzati sul modello di accumulazione «feudale» centrato sulla massima estensione della superficie coltivata a grano e sulle gerarchie economiche del grande affitto202. Si temeva, in sostanza, che l'azione colonizzatrice intrapresa dallo Stato - che pure aveva il suo equivalente nella piu antica colonizzazione promossa dal baronaggio per il popolamento della campagna - potesse spingere il mondo contadino ad uscire dai circuiti di sofferenza in cui era stato cacciato a causa dei gravami parassitari della rendita, innescando, perciò, pericolose valenze politiche («l'addio alla patria», cioè ai miti della devozione e soggezione feudale). Cosi i baroni mostravano di non voler piu riconoscere quei principi che essi stessi avevano invocati all'epoca della fondazione dei nuovi centri rurali per la colonizzazione interna dell'isola203.

202 Sulla struttura del mercato del grano nell'economia feudale, v. M. AYMARD, Amministrazione feudale e trasformazioni strutturali tra '500 e '700, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», Catania, LXXI (1975), pp. 17-41. Specifiche indicazioni sul rapporto feudalizzazione/popolamento in F. BENIGNO, Una casa, una terra. Ricerche su Paceco, paese nuovo nella Sicilia del Sei e Settecento, Catania 1985.
203 Gli studi sul fenomeno della colonizzazione interna sono ormai numerosi. Li ha iniziati C.A. GARUFI con la documentata ricerca su Patti agrari e Comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia, in «Archivio storico siciliano», s. III, I (1946), pp. 31-111; II (1947), pp. 7-131. Piu di recente ne hanno trattato M. A YMARD/H. BRESC, Problemi di storia dell'in­sediamento nella Sicilia medievale e moderna: 1100-1800, in «Quaderni storici», VIII (1973),24, pp. 945-76; G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Viceregno al Regno, in Storia della Sicilia, VI, Napoli 1978, pp.95-98; D. LlGRESTI, Sicilia moderna. Le città e gli uomini, Napoli 1984; T. DA VIES, La colonizzazione feudale della Sicilia nella prima età moderna, in Storia d'Italia, Annali 8, Torino 1986, pp. 419-72; ma anche, dello stesso Davies, Famiglie feudali siciliane. Patrimoni, redditi, investimenti tra '500 e '600, Caltanissetta-Roma 1985. Per le conseguenze del crescente fabbisogno alimentare e dell'incremento demografico sulla espansione della superficie coltivata a grano, v. i contributi, ancora utili, di G. SALVIOLl, Le colonizzazioni in Sicilia nei secoli XVI e XVII. Contributo alla storia della proprietà, in «Vierteljahrschrift flir Sozial-und Wirtschaftsgeschichte», I (1903), pp. 70-78; e L. GENUAR­DI, Terre comuni ed usi civici in Sicilia prima dell'abolizione della feudalità. Studi e documenti, Palermo 1907.

Il risultato economico e sociale della riforma, smentendo l'originaria ispirazione genovesiana, avrebbe soggiaciuto per questo alla logica difensiva della classe nobiliare, sospinta dal confronto col riformismo napoletano e dalla sempre piu agguerrita polemica antifeudale ad assorbire nel proprio dominio ogni segnale di cambiamento strutturale della società.
Il caso della masseria d'lnici è davvero esemplare. Mentre si preparavano gli atti relativi alla censuazione, la Giunta procedette tempo­raneamente agli affitti delle terre gesuitiche. Salvatore La Lumia, un grande gabelloto di Palermo, si aggiudicò lnici per 1560 onze204.

204 ASP, Fondo Giunta Gesuitica. Registro d'atti della Regia Giunta Gesuitica princi­piando dall'anno prima indizione 1767 a 1768 per insino all'anno]a indizione 1769 e 1770, s.n. La Lumia aveva ottenuto in un primo tempo la gabella per 1300 onze; ma poi di fronte a un'offerta in aumento presentata da D. Diego Messina di Trapani aveva dovuto portarla a 1560 onze (AST, Secrezie. Espulsione dei Gesuiti. 1767-1789, b. 187A). La Giunta dell'A­zienda Gesuitica aveva però palesemente favorito La Lumia perché gli aveva permesso di riprendere l'asta dopo che l'ex feudo con le fosse di neve era già stato aggiudicato, con ordine del 9 settembre 1768, a Diego Messina (ivi). La gabella aveva la durata di sei anni, tre di fermo e tre di rispetto, a decorrere dal 1768-69 (v. in AST, Conto di informazioni che si presenta alla Regia Giunta Gesuitica dallo Spett.le Deputato dell'Azienda Gesuitica della Città di Trapani dell'anno 1770 e 1771, ff. 10v-12r, in Corporazioni religiose soppresse. Convento Gesuitico. Anni 1770-1771, b. 104). Sulle fabbriche della masseria, v. una inte­ressante «Relazione delli precisi ed indispensabili acconci e ripari necessitanti farsi nelle case del Feudo d'Inici esistente nel Territorio di Monte di S. Giuliano fatta da m.ro Matteo BoscQ», in AST, Secrezie, Atti vari (1769-1774), b. 62.

Nello stesso periodo Luigi Naselli, feudatario di Castellammare, acquistò una fossa di neve in contrada lnici per onze 432205 Sempre il principe di Aragona Luigi Naselli chiese la concessione enfiteutica (o la vendita) della masseria in deroga al prescritto reale che la destinava alla gente di campagna. L'istanza, appoggiata implicitamente dalla Giunta Gesuitica di Sicilia, fu inviata a Napoli per l'approvazione sovrana, ma essa fu respinta da Tanucci, il quale cosi ne motivava il rigetto: «Fermo il re nella risoluzione già presa e comunicata a sua volta a Vostra Eccellenza che tutti i territori che si teneano dagli espulsi si censuassero a gente di campagna; siccome vede con piena soddisfazione che si è in questo regno già per la maggior parte eseguito e si va di giorno in giorno eseguendo, cosi mi ha imposto di rinnovare a Vostra Eccellenza nel suo real nome gli ordini piu premurosi, perché con effetto si facciano gli editti per le censuazioni alla sola gente di campagna. E per togliersi ogni dubbio ed ogni occasione di nuovi ripari, vuole Sua Maestà che le censuazioni si facciano ai villani del demanio della Maestà Sua, con espressa dichiarazione che si escludano dal potere censuare tutte le persone che non sono gente di campagna». Al principio generale «fisso ed inalterabile di censuarsi a villani» al quale si ispirava la legge contrastava quindi la richiesta di Naselli, per la cui offerta, del resto, si avanzava il sospetto che si preparassero in loco «le solite difficoltà» onde favorirne l'accoglimento. «E coerentemente a questa sua sovrana determinazione - precisava infatti il dispaccio reale -, sebbene in seguito di rappresentanze di code sta giunta di economia si fosse nel mese di ottobre dell'anno scorso re scritto che per la censuazione, che intendea fare il principe di Aragona, D. Luigi Naselli, della masseria detta delli Inici, dovesse convenirsi che, volendo redimere il detto censo, si redimesse in tre tanne, con pagarsi in ogni tanna il terzo, e che il canone si fissasse sopra il coacervo, compresi anche gli anni di affitto, e che riguardo alle fabbriche prevalentemente rurali si com­prendessero nel canone, e le altre si pagassero al giusto prezzo: non vedendo il re eseguito, e sospettando le solite difficoltà, è venuto in risolvere che anche la masseria sudetta degli Inici si ripartisca e si censui a gente di campagna»206.

205 Atto di liberazione del 16 maggio 1768 di una fossa di neve in contrada Inici, in ASP, Fondo Case ex Gesuitiche, Conti della Real Giunta e della Real Tesoreria per l'Azienda Gesuitica, Volume di vendizione dell'abolito collegio del Regno dell'anno 2­indizione 1768 e 1769, b. 14, fase. 3.
206 Cfr. dispaccio reale del 27 gennaio 1770 comunicato al consultore Diodato Targiani dal viceré il 4 marzo s.a. in ASP, Rea! Segreteria. Registri dei dispacci. Azienda Gesuitica, vol. 1484. Altre volte, del resto, la Giunta Gesuitica aveva espresso il parere che i fondi da censire fossero dati piuttosto «a corpo sano a gente facoltosa».

Nel 1774, si poté finalmente quotizzare il fondo ex gesuitico a un centinaio di enfiteuti. Poiché la gabella del 1768 ammontava a 1508 onze (a 358 onze quella relativa alla sola nevaia), si era stabilito a carico dei quotisti un canone enfiteutico di onze 916. Però subito dopo l'azienda gesuitica credette di dover rivedere l'ammontare di tale canone, sostenendo di essersi sbagliata nel calcolo iniziale. Non ostante le proteste degli enfiteuti, i quali si recarono in massa a Palermo per chiedere che si confermassero i canoni fissati in precedenza, la Giunta non volle ascoltare le loro ragioni. Ai poveri bracciali, che già sopportavano il peso di un canone risultato ormai gravoso per la sopravvenu­ta crisi agraria - e che non disponevano nemmeno dei capitali necessari alla conduzione dei fondi - non rimase altra alternativa che abbandonare ciascuno la propria quota207. Era forse quello che voleva­no gli aristocratici ministri della Giunta di Sicilia, i quali si affrettarono a vendere la masseria, liberata dai quotisti, al migliore offerente. Toccò a D. Giuseppe Pappalardo di presentare l'offerta vincente: una media di 50 onze a salma, per un totale di 35 mila onze per l'intera partita208.
Pappalardo era tuttavia un prestanome o un procuratore, dietro cui figurava la persona di Agostino Cardillo, figlio del marchese Domenico, già consultore della Suprema Giunta di Sicilia in Napoli209 Al patrizio palermitano fu facile acquisire l'ex feudo d'lnici giovandosi della sua alta posizione di magistrato del Real Patrimonio, cioè dell'organo finanziario che, nel frattempo, aveva incorporato la Giunta Gesuitica, soppressa con ordine reale del l° agosto 1778 nel clima d'involuzione baronale seguito all'allontanamento di Tanucci dal governo210.

207 ASP, Regia Giunta Gesuitica. Registro degli appuntamenti dal 27 giugno 1776, s.n.
208 ASP, Tribunale del Real Patrimonio. Azienda Gesuitica, il volume 1779, n. 96. Atto di liberazione del feudo di Inici, 25 settembre 1779.
209 Agostino Cardillo era pure giudice della Regia Gran Corte. In seguito egli presiedette il tribunale del Real Patrimonio (1805). Il padre, Domenico, morto nel 1773, era stato, tra l'altro, maestro razionale del Real Patrimonio e consultore della Suprema Giunta di Sicilia in Napoli. Nel 1772 aveva ottenuto il titolo di marchese (v. F.M. EMANUELE EGAETANI, marchese di Villabianca, Appendice alla Sicilia Nobile, to. I, Palermo 1775, pp. 497-98; A. MANGO DI CASALGERARDO, Nobiliario di Sicilia, I, Palermo 1912, p. 186). La masseria d'lnici sarebbe passata, nel 1876, per il matrimonio di Adelaide Cardillo agli Alliata di Palermo.
210 L'ordine reale con cui l'amministrazione dell'azienda gesuitica veniva aggregata al Tribunale del Real Patrimonio si trova tra le Stampe (A/229) della Biblioteca Regionale di Palermo. È ora riportato in F. RENDA, Le leggi di eversione dell'asse gesuitico, pp. 90-96.

Il marchese di Sambuca, che era stato assunto alla fine del '76 al vertice dell'amministrazione napoletana al posto del riformatore toscano, aveva inteso ripristinare l'egemonia del baronaggio,annullando gli atti compiuti dal suo predecessore, o almeno riducendone gli effetti sul piano economico-sociale. Non senza preoccuparsi, però, d'impinguare il proprio patrimonio fondiario attraverso l'acquisizione, per interposta persona, di gran parte delle masserie ex gesuitiche di Sicilia211. Operazione speculativa, questa, che superava il criterio opinabile delle scelte politiche per investire il livello morale, assai corroso, di una classe tenacemente arroccata nei suoi antichi privilegi.

211 Sulle fasi conclusive dell'azione antigesuitica in Sicilia, v. F. RENDA, Bernardo Tanucci e i beni dei Gesuiti, pp. 197-203.

Cosi finiva la prima curée sulle terre rese allodiali dalle leggi eversive. Per la manomorta ecclesiastica, il governo borbonico non avrebbe attuato altri provvedimenti di efficace e diffuso effetto. Quello sui beni appartenenti ai prelati titolari di regio patronato, che ne disponeva la censuazione fin dal 1792, sarebbe rimasto ineseguito anche quando l'euforia riformatrice di Ferdinando II l'avrebbe richiamato in vigore (RD 19 dicembre 1838).
Il principio che spingeva all'intervento dello Stato onde alienare a privati i beni appartenenti al demanio e alle opere pie laicali ebbe invece un riscontro piu concreto con i provvedimenti emanati nel periodo successivo alla rivoluzione del '48. Ai fini della costituzione della proprietà borghese, lo sfruttamento e l'acquisto di questi beni risultarono ben poca cosa. E però nel processo di privatizzazione dell'ingente patrimonio della Chiesa e della pubblica beneficenza, che allora s'iniziava, gli atti esclusivi e speculativi con i quali il ceto civile di recente formazione vi accedeva evidenziavano già le forme piu spregiudicate della espropriazione compiuta a danno dei contadini senza terra.
Un prospetto statistico del 1852 ci indica per le proprietà delle opere pie esistenti nel Comune di Castellammare una rendita annua di 197 ducati e 6 tari, distribuite tra 68 immobili urbani e 8 fondi rustici (pochi tumoli di terra coltivati a vigna e olivo). Tra gli affittuari e censuari dei fondi rustici ci sono il dr. Leonardo Calandra, D. Girolamo Galante, D. Giuseppe Marcantonio Plaja e D. Giuseppe Marcantonio Coniglio, piu o meno legati da rapporti di parentela coi membri della commissione amministrativa di pubblica beneficenza composta, nello stesso periodo, da Gaetano D'Anna, Pietro Galante e Francesco Plaja Coniglio. (Giovan Battista Sangiorgio è il segretario contabile della commissione.)212.
Col real decreto del 16 febbraio 1852 fu ordinata in Sicilia «l'alienazione de' beni di ogni natura del demanio pubblico, de' pubblici stabilimenti, de' luoghi pii laicali e di ogni altro stabilimento dipendente dal Real Governo, esclusi i beni di natura ecclesiastica, o appartenenti al patrimonio regolare, nonché de' Comuni»213. Il decreto borbonico fu confermato, il 20 agosto 1861, dal governo unitario. E in virtu di tali provvedimenti si pervenne alla vendita di quei beni che ancora non erano stati censiti direttamente dai vari corpi morali. In questa successiva fase, al notaio Vito Mattarella toccarono tutti gli immobili urbani ereditati dalla Congrega di Carità214. Altri cinque lotti di edifici provenienti dalla Casa dei Crociferi acquistò il medesimo notaio Mat­tarella alla fine del '67215, a seguito della legge del 15 agosto di quell'anno che scioglieva l'asse ecclesiastico216.

212 AST, Commissione per la vendita dei beni delle Opere Pie e del Demanio, b. 33, Castellammare (1852-66), fase. 5, 7-9. Proprietari degli immobili erano il collegio di Maria, le confraternite del Rosario e del SS.mo Sacramento, la compagnia del Carmine. La rendita dei soli fondi rustici, che derivava da soggiogazioni e censi bullari, assommava a ducati 44 e 6 tari.
213 Real Decreto e Regolamento per la vendita de' beni demaniali, stabilimenti pubblici ed opere pie laicali, in «Giornale dell'Intendenza di Trapani», n. 4 dell'aprile 1852, pp. 109-117. Leggi e disposizioni emanate dal 1741 al 1852 sull'amministrazione delle opere pie furono raccolte da G. FILIPPONE, Istruzioni per l'amministrazione degli stabilimenti di beneficenza (Palermo 1847) e Atti legislativi e governativi dal 1847 al 1852 sugli Stabilimenti di beneficenza e luoghi pii laicali (Palermo 1853).
214 AST, Commissione per la vendita dei beni delle Opere Pie e del Demanio, b. 33, fase. 3 e 6, Legato Mirabella. Gli atti di acquisto recano la data del 5 agosto e del 16 settembre 1864.
215 Prospetto del risultato degl'incanti per la vendita dei Beni ecclesiastici, in AST, Commissione per la vendita dei beni dell'Asse ecclesiastico, b. 23, fase. 5. Il prezzo di aggiudicazione fu di lire 8440,12 (con un aumento di sole 425 lire sulla base d'asta).
216 Legge 15 agosto 1867, n. 3848 perla soppressione degli enti ecclesiastici secolari in tutto il Regno e la liquidazione dell'asse ecclesiastico, in G. D'AMELIO, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, pp. 598-604. Sulla legislazione relativa al riordinamento della proprietà ecclesiastica in Italia, v. anche A.C. JEMOLO, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia (1848-1888), Bologna 1974.

Il proposito di preferire la gente di campagna, e in specie i contadini giornalieri, nell'assegnazione delle quote da censire, seppure vanificato dai concreti atti speculativi del patriziato di provincia e del ceto civile, era stato tenuto sempre presente nei decreti emessi dall'amministrazione borbonica e, con segno democratico, in quelli pubblicati dai governi dittatoriale e prodittatoriale del 1860. Superata questa fase, aveva avuto il sopravvento una piu chiara e netta affermazione del carattere borghese dei provvedimenti di eversione dell'asse eccle­siastico, rispondente alla logica dello sviluppo capitalistico nelle campagne. Simone Corleo, deputato del collegio di Calatafimi, ne fu il consapevole interprete mediante la legge per l'enfiteusi forzosa dei beni rurali ecclesiastici di Sicilia che fece approvare dal Parlamento nazionale il 10 agosto 1862217: dove il principio di non assegnarsi la terra ai poveri diventava de jure il presupposto onde favorire l'accumulo della ricchezza fondiaria, considerando che, alla fin fine, «la proprietà terriera viene sempre a cadere nelle mani che possono meglio coltivarla»218.
Ad accaparrarsi, quindi, la cospicua massa dei beni immessi nel mercato fondiario in forza della legge Corleo furono ancora una volta i civili del luogo, oltre a qualche grosso latifondista della provincia219. In vendita erano i due ex feudi denominati di Balata d'Inici e Pocorobba (proveniente dal monastero del SS.mo Rosario di Trapani sotto titolo di S. Andrea) e di Baida e Valle Xacca (proveniente dal convento di S. Francesco d'Assisi di Monte S. Giuliano). Il primo, diviso dagli agrimensori in 173 lotti, era esteso 609 salme (equivalenti a ettari 1064,31,06). Quarantatré quote ne acquistò il castellammarese Leonardo Cassarà (per un totale di ettari 164,45,56). Le altre quote andarono a proprietari/patrizi del capoluogo e a un massaro di Salemi220.

217 Legge 10 agosto 1862, n. 743, per la concessione ad enjìteusi perpetua redimibile dei beni fondi ecclesiastici di Sicilia, e regolamento relativo, approvato con R. decreto 26 marzo 1863, n. 1203, in s. CORLEO, Storia della enjìteusi dei terrreni ecclesiastici di Sicilia, Palermo 1871, pp. 78-92, Appendice.
218 s. CORLEO, Storia della enjìteusi, p. 445 della ristampa curata da A. Li Vecchi, Caltanissetta-Roma 1977. La fiducia che se ne traeva era quella di «attendere il tempo necessario onde si levino di mezzo tutti gli speculatori e tutti coloro che per qualsiasi illusione fecero una immoderata concorrenza», spiegando il meccanismo dei successivi riassetti fondiari: «Non vi è tornaconto a ritenere un fondo, sul quale si deve spendere e di cui si deve pagare un elevato canone, senza poterne ricavare quando che sia un utile, o anzi colla certezza di doverne sempre sopportare le perdite. Tosto o tardi gl'illusi, ovvero gli speculatori di asta, che ebbero la disgrazia di rimanere enfiteuti con alto canone di fondi che non potrebbero ben coltivare, son costretti a cederli ad altri, i quali sieno in grado di esercitarvi con utilità la coltivazione» (ivi).
219 Quadro generale dei beni fondi rurali ecclesiastici da concedersi ad enjìteusi perpetua redimibile a' termini dell'articolo r della legge 10 agosto 1862, in AST, Commis­sione per l'enjìteusi dei beni rurali ecclesiastici, b. 22, Statistica.
220 [vi, b. 8, fase. 59. Trentatré lotti furono aggiudicati a Cassarà nei primi incanti del luglio 1866, altri dieci in grado di decimo. Cassarà era anche l'antico affittuario del fondo (v. in AST, Corporazioni religiose soppresse, Monistero di S. Andrea, b. 290, Atti diversi; b. 292, Libro di contabilità. 1833-66). Secondo la perizia tecnica per la quotizzazione dell'ex feudo (sul quale gravava una tassa prediale di lire 2272,04), redatta dagli agrimensori Giacomo Renda, Natale Cosentino e Vito de Biasi, di Alcamo, Balata d'lnici misurava salme 606, due bisacce, due tumoli e un mondello dell'abolita misura legale, corrispondente a 1059 ettari. Il computo eseguito dagli agrimensori che calcolarono un totale di ettari 1580 era quindi errato (v. Ba/ata d'lnici. Quaderno di condizioni intero ex Jeudo, 6 febbraio 1866, in AST, Commissione per l'enfiteusi, b. 8, fase. 59). Il canone netto di base risultò per l'intero fondo di lire IO 193,53, aumentato di un terzo nelle successive aste fino all'aggiudicazione definitiva.

Cassarà si accordò con gli altri acquirenti (il barone d'Altavilla Nicola Adragna Vairo e la famiglia Fardella di Torrearsa) per dividersi l'ex feudo. Ciò appare dalle modalità d'acquisto (le quote furono aggiudicate alternativamente a ciascuno di loro) e dall'assenza, in pratica, di altri concorrenti durante le gare d'asta221. A un grosso proprietario di Salemi (antenato d'illustri cattedratici e scienziati) fu permesso d'acquistare 200 ettari di terreno rampante222. L'altro ex feudo di Baida e Xacca, diviso in 21 lotti ed esteso 75 salme (equivalenti a ettari 121,81,38) fu aggiudicato quasi per intero a D. Niccolò D'Anna, allora sindaco del paese223. Infine un fondo rustico con poca estensione di terreno (ettari 1,44,62), ma ad alta redditività perché coltivato prevalentemente a vigna e a frutteto, fu acquistato dal dr. Simone Riggio, nota figura di liberale, già deputato di Castellammare al Parlamento siciliano del 1848224.

221 L'esistenza di una «Società di Trapani» capeggiata dal barone Adragna è comunque registrata negli atti contabili della Commissione per l'enfiteusi (v. Contabilità censuazione. Notamento scadenze, b. 44, ff. 1-9).
222 Gli agronomi che quotizzarono l'ex feudo affermarono nella loro perizia che non vi si trovavano «alberi di sorta», ma solo un casamento con baglio (quota 74, poi aggiudicata alla famiglia Fardella) e alcuni bevai con sorgive d'acqua. Le ultime quattro quote (tra le quali erano le due di Erasmo Scimemi) misuravano complessivamente ettari 398,14,72 ed erano state lasciate in quantità di molto superiore alla media di quattro ettari di tutte le altre «per essere montagna»: «quindi non può servire ad altro se non alla sola pastorizia» (v. Balata d'lnici. Quaderno di condizioni cit.). Balata d'lnici, che era pervenuto al monastero di S. Andrea per un'antica donazione di donna Francesca Sanclemente (testamento del 4 marzo 1590 in notar Antonio Floreno di Monte S. Giuliano), confinava a nord con l'ex feudo Abbatello, a levante con la montagna di Castellammare, a sud coi territori di Pispisa e Barbaro (Calatafimi) e a occidente con l'ex feudo Bruca.
223 lvi, b. 18, fase. 135. Proveniente dal patrimonio feudale del duca della Ferla, il fondo era stato assegnato, nel 1825, dal tribunale al convento dei francescani per una precedente soggiogazione costituita su di esso. Gaetano D'Anna ne era stato l'affittuario nel periodo 1859-63 (noI. 19nazio Salerno di Monte S. Giuliano, atto dell' maggio 1859). Gli acquirenti delle altre quote furono D. Gaspare Fundarò (ettari 7,38,34) e Antonino Ferrantelli di Antonio (ettari 3,02,86). L'aggiudicazione di Baida e Xacca avvenne il IO giugno 1867; ma il12 agosto 1875 il fondo sarebbe ritornato al Demanio per l'abbandono delle quote da parte degli eredi degli antichi censuari (ivi, b. 3, fase. 37 delle Sentenze di rendita del tribunale di Trapani).
224 Il fondo denominato di San Nicola apparteneva al Convento degli Agostiniani Scalzi di Gibellina ed era stato affittato per il periodo da settembre 1861 ad agosto 1867 al sacerdote Antonino Zangara. Fu aggiudicato a Riggio per un canone annuo di lire 429 su una base d'asta assai inferiore (lire 178,38). Vi erano annessi una casa terrana, una cappella e un cortile (ivi, b. 7, fase. 45).

A tre anni dall'inizio della censuazione forzosa (da giugno 1864 a dicembre 1867), la superficie agraria occupata dai fondi prove­nienti dall'ex manomorta ecclesiastica costituiva, quindi, coi suoi 1187,57,06 ettari una percentuale del 9,72 per cento del territorio comunale catastato (ma era del 19,57 per cento se si aggiunge l'ex feudo d'Inici, venduto quasi un secolo prima al marchese Cardillo). Qualche anno dopo l'ex feudo Spàracio e Culmi (esteso ettari 583,86,09), con­finante con le terre di Baida e Xacca, fu aggiudicato per intero a Pietro Alliata Moncada duca di Pietretagliate per un censo annuo di 561 lire225.
La sola considerazione che si può fare su questa operazione riguarda il concentrarsi delle quote nelle mani di pochissimi enfiteuti. Per un giudizio piu articolato ci si dovrebbe però riferire a un ambito territoriale piu vasto e a una piu congrua addizione degli effetti con­seguenti alla censuazione forzosa voluta dalla legge Corleo. Si può prendere in esame quella parte della provincia di Trapani che - a settentrione e a levante - insiste sul golfo di Castellammare, costituendo coi territori dei Comuni di Calatafimi e Monte S. Giuliano, oltre che di quello di Castellammare, un'area geografica omogenea per le sue rilevate caratteristiche morfologiche. Un'area occupata dal sistema montuoso che da Inici si spinge fino a Capo San Vito, incuneando si a sud-est tra i dorsali, elevati dai 300 ai 600 metri d'altezza, che stanno tra l'abitato di Calatafimi e il bosco di Angimbé. Ad essa bisogna aggiungere le contrade settentrionali del Comune capoluogo, con gli ex feudi Agnone, Bordino, Casalmonaco, Chinea, Danimargi, Fastaja, Mendola, Sarbucia e Ummari, tutti posseduti dall'asse ecclesiastico che perciò gestiva in quelle contrade 4000 ettari di masserie. L'Alto Trapanese, come era chiamata questa parte della Sicilia nord-occidentale, occupava, secondo il primo rilevamento catastale del 1842/44, una superficie agraria di salme 42 349,552 (cioè di ettari 73 942), per lo piu seminati vi semplici (64,72/100), meno terreni pascolativi (24,76/100), e ancor meno vigneti (4,23/100), oliveti (1,87/100), orti e giardini (0,50/1 00). Il diboscamento seguito alla scomparsa del de­manio aveva ridotto il terreno boschivo a trascurabili entità (0,46/ 100)226.

225 Ivi, b. 17, fase. 123. L'ex feudo, quasi tutto rampante, apparteneva al monastero dello Scavuzzo di Palermo. L'aggiudicazione definitiva in enfiteusi al duca di Pietretagliate reca la data del 18 giugno 1874.
226 V. MORTILLARO, Notizie economico-statistiche, pp. 82-85,90-93. Dalle cifre fornite da Mortillaro per i quattro Comuni considerati (Calatafimi, Castellammare, Monte S. Giuliano e Trapani) dovrebbe essere tolto un/decimo della superficie, integrantesi piuttosto con l'altro versante del territorio provinciale che si estende dalla città capoluogo, attraverso la pianura costiera di mezzogiorno, fino alla zona collinare interna confinante con la valle del Belice. Ma le proprietà ecclesiastiche che vi si trovavano erano poche e di scarsa estensione. Per la stessa ragione non ho incluso Alcamo nel territorio dell'Alto Trapanese, che in realtà vi appartiene solo per una striscia di terra che scende dal monte Bonifato al mar Tirreno.

Qui la legge di alienazione dei beni ecclesiastici interessò le proprietà di 33 enti religiosi per una consistenza patrimoniale di 9 192 ettari227. Distribuita per la quantità dei lotti e l'estensione dei fondi, tale consistenza patrimoniale può essere suddivisa in tre classi: la prima dei piccoli fondi estesi non piu di trenta ettari (e divisi in meno di 3 lotti), che copriva una superficie di ha 323 (3,5%); la seconda dei fondi di media dimensione, fino a cento ettari, per una estensione di ha 605 (6,6%); l'ultima comprendente le proprietà di oltre cento ettari, che copriva una superficie di ha 8243 (89,9%). Gli aggiudicatari furono in tutto 300, cioè 48 per la prima classe, 51 per la seconda e 201 per la terza. Tuttavia questo numero deve ancora ridursi almeno di un terzo, poiché tra gli enfiteuti ricorrono spesso gli stessi nomi per le varie aggiudicazioni228.

227 Secondo la ricostruzione che ho potuto fare sugli atti trasmessi al Sovrintendente generale in Palermo (v. in ASP, Soprintendenza generale alle commissioni circondariali per l'enfiteusi dei beni rurali ecclesiastici di Sicilia. 1862-1882), i risultati della censuazione nell'Alto Trapanese furono i seguenti: Calatafimi: N' dei fondi 7 per una estensione di ha 1484,80,39; N' dei lotti 206 aggiudicati a 63 enfiteuti (estensione media ha 23,57). Castel­lammare: N' dei fondi 3 per una estensione di ha 1187,57,06; N' dei lotti 195 aggiudicati a IO enfiteuti (estensione media ha 118,76). Monte S. Giuliano: N' dei fondi 28 per una estensione di ha 1786,87,37; N' dei lotti 120 aggiudicati a 84 enfiteuti (estensione media ha 21,27). Trapani: N' dei fondi 35 per una estensione di ha 4732,21,24; N' dei lotti 317 aggiudicati a 143 enfiteuti (estensione media ha 33,09). In totale N' dei fondi 73 per una estensione di ha 9191,46,06; N' dei lotti 838 aggiudicati a 300 enfiteuti (estensione media ha 30,57). I dati complessivi per la provincia di Trapani portano il numero dei lotti a 3402, per una estensione di 31 090 ettari, e a un migliaio gli aggiudicatari. Gli enti ecclesiastici possessori di terreni ubicati nei Comuni della provincia furono 87, distinti in mense vescovili (le tre di Mazara, Monreale e Trapani), monasteri (22) e conventi (33), chiese e benefici annessi (27), orfanotrofi (2). Il piu ricco di questi enti era la mensa vescovile di Mazara, che da sola possedeva piu di un terzo dei terreni dell'asse ecclesiastico. Gli ultimi dati pubblicati dalla Sopraintendenza Generale in Palermo (v. Prospetto riassuntivo delle subastazioni enfiteutiche dei beni rurali ecclesiastici di Sicilia da giugno 1864 a tutto dicembre 1871, in «Giornale di Sicilia», 22 aprile 1872) non erano ancora completi: mancavano, infatti, alla censuazione in provincia di Trapani 307 lotti di una decina di ex feudi, per una estensione di 4000 ettari. V. anche le considerazioni conclusive di Simone Corleo su La distribuzione delle terre per l'enfiteusi dei terreni ecclesiastici e la sicurezza pubblica in Sicilia, in «Giornale di scienze naturali ed economiche», Palermo, p.te II, voI. XII (1876-77), pp. 1-87.
228 Simone Corleo dà il totale degli aggiudicatari dei fondi ex ecclesiastici ricavandolo dagli elenchi numerici delle subastazioni, e quindi non tenendo conto dell'intervento delle stesse persone alle varie aggiudicazioni. La cifra totale degli enfiteuti che egli dà per la Sicilia deve perciò essere corretta e diminuita almeno di un terzo. Piu vicino alla realtà mi sembra il computo fatto da G.c. Bertozzi (Notizie storiche e statistiche sul riordinamento dell'asse ecclesiastico nel Regno d'Italia, in «Annali di Statistica», Roma, s. II, vol. IV (1879), p. 16 sgg.), ripreso da Abele Damiani nella sua nota inchiesta agraria (Atti della Giunta, voI. XIII, to. I, fasc. III, p. 582), che calcola il numero degli enfiteuti in circa dieci mila.


Schizzo del territorio comunale di Salemi disegnato da Domenico Rubino. 1863. Cm 50 x 70 (AST, Piante topografiche, N. 113).


Pianta topografica del territorio comunale di Calatafimi disegnata da Miehele Patti. 1855. Seala 1:720, cm 60 x 80 (AST, Piante topografiche, N. 120).


Mappa dell'ex feudo di Balata d 'Inici e Pocorobba (già dell'abolito Monastero di S. Andrea di Trapani) disegnata da Vito De Blasi, Giacomo Renda e Natale Cosentino. 1866. Scala 1:400, cm 45 x 95 (AST, Piante topografiche, N. 22).

Piuttosto che il numero degli enfiteuti - inferiore al calcolo iniziale elaborato da Simone Corleo, ma in seguito certamente aumentato per il frazionamento delle proprietà censite - dovrebbero valere a qualificare la legge i risultati economici e sociali eventualmente ottenuti, sia nel senso delle trasformazioni fondiarie, sia per quanto riguarda la modifica della contrattazione agraria. Non è argomento che possa essere affrontato in questa sede; ma intanto la considerazione che non vi fu sostanziale differenza tra i fondi di piccola, media e grande estensione per la qualità dei beneficiari indica se non altro che l'intervento della borghesia e del patriziato piu attivo non lasciò, in pratica, spazio alcuno agli antichi affittuari/coltivatori della Chiesa, né tanto meno ai contadini senza terra. Eppure poté egualmente avvenire in alcune zone dell'isola (come, appunto, l'Alto Trapanese) una significativa saldatura del ceto medio/alto dei proprietari patrizi e civili col ceto emergente dei massari. Una dettagliata ricerca compiuta sugli atti della commissione per l'enfiteusi forzosa dei beni ecclesiastici mi ha pemesso di giungere alle seguenti conclusioni:
a) Esclusi quasi del tutto dalle aste, i piccoli borgesi che poterono acquistare qualche lotto di terra si unirono per lo piu in tre o quattro per volta. È invece piuttosto attivo l'intervento dei nuovi massari, alcuni dei quali figureranno presto nella classe dei latifondisti. Sono gli esponenti di quella borghesia agraria che si era formata nelle campagne subericine mediante i traffici armentizi e le gabelle. La consistenza patrimoniale da loro acquisita è comunque piu forte della percentuale del 23,08 per cento che gli assegna il computo delle quotizzazioni dei primi incanti, poiché la ricensuazione dei fondi successivamente abbandonati o rivenduti dagli speculatori d'asta avrebbe ulteriormente favorito il ceto dei massari. Si tratta di un fenomeno di enucleazione borghese che dà, in parte, ragione agl'intendimenti per­seguiti dalla legge Codeo; ma esso è peculiare del contesto rurale che si è voluto qui circoscrivere per le sue caratteristiche geoeconomiche e non si riproduce nel resto del territorio provinciale, dove infatti dominano incontrastati nelle aste i grandi proprietari terrieri e il variegato ceto dei civili di paese229.
Rappresenta, poi, un indubbio fattore di compenetrazione agra­rio/industriale l'apporto di un gruppo di capitalisti che qualche decennio piu tardi saranno protagonisti nel capoluogo provinciale di un marcato processo d'imprenditorialità legato alla trasformazione dei prodotti dell'agricoltura, oltre che della pesca: Giuseppe D'Ali, Giacomo Augugliaro, Domenico e Nunzio Aula, Agostino Burgarella e Giuseppe Virgilio, ai quali debbono aggiungersi almeno due rappresentanti del patriziato locale, Nicola Adragna Vairo, barone d'Altavilla, che fu a capo di una Società immobiliare per l'acquisto, la vendita e la gestione delle quote ottenute nelle subaste enfiteutiche, e Giovan Battista Fardella di Torrearsa, acquirente di 84 lotti di Balata d'lnici (ettari 424) e di un centinaio di ettari del fondo Danimargi230.
229 Furono una trentina i piccoli borgesi che si divisero, coi loro congiunti, un centinaio di ettari (1,59/100 dei terreni censiti). Al ceto medio dei massari andò il restante 23,08 per cento; ma venti di essi acquistarono un quinto dell'intero patrimonio ecclesiasti­co. Tra di essi Giuseppe Fontana e Francesco La Porta (ex feudo Noce), Vito Quartana (Napola, Ummari), Ignazio Daidone (Danimargi), Gaspare e Vincenzo Scuderi (Chinea), Cristoforo Candela (Salinella), Crispino Minaudo (Ummari), Giovan Battista Mangiapane (Scimonazzo), Bartolomeo e Stefano Maranzano, Mario Loria e Vincenzo Poma, acquirenti di quote estese da 50 a 200 ettari.
230 Agostino Burgarella (anche lui socio della immobiliare trapanese del barone Adragna) comprò, insieme coi fratelli Baldassare, Gaspare e Silvestro, 1400 ettari negli ex feudi Airone e Balatelle (Castelvetrano), Bucari e Cudata, Gambini, Gilletto e Recasale (Mazara), Gurghisati (Salemi), Bruca e Ummari (Trapani). D'Ali acquistò gli ex feudi Barbaro e Pispisa (Calatafimi), Falconieri (Marsala) e la fattoria di Belvedere (Trapani). Niccolò Adragna acquisi 129 lotti nei fondi denominati Balata d'Inici, Barbaro, Bucari e Cudata, Buturro, Calamita, Chelbi minore, Gambini e Marausa, cui debbono aggiungersi le terre comprate dal fratello Girolamo. Si può calcolare, quindi, che alla società immobi­liare di Trapani siano pervenute, attraverso le aste, proprietà ubicate nel territorio della provincia per quasi 6000 ettari.

La società immobiliare che riuniva i capitalisti di Trapani poté accaparrarsi un patrimonio fondiario di poco meno di 3000 ettari nel solo territorio dell'Alto Trapanese231. Il resto (piu di un terzo) dei fondi ecclesiastici fu acquistato da patrizi e civili, che avrebbero sfruttato quelle proprietà come rendita parassitaria, ricavandola dalla intermediazione di gabelloti e mercanti di campagna. Il possesso della terra, in questo caso, era rivendicato anzitutto come mezzo atto a conferire un maggior prestigio sociale. Un tale fenomeno si presentò in maniera piu accentuata nei territori ricadenti nella diocesi di Mazara, dove i beni ecclesiastici messi all'asta finirono quasi tutti nelle mappe catastali di poche famiglie di galantuomini232.

231 C'è da ricordare un tentativo di valorizzare in termini speculativi l'area interna del latifondo, in cui gli ex feudi dell'Alto Trapanese ricadevano, ad opera degli stessi capitalisti della Società immobiliare che li avevano acquistati. Il barone Adragna Vairo, che dirigeva dal 1861 l'ufficio tecnico della Provincia, e che era stato tra i piti grossi acquirenti di beni rurali ecclesiastici, avrebbe presentato al Consiglio provinciale (che l'avrebbe anche approvato) un progetto per la costruzione di una ferrovia che, toccando, fra l'altro, le località di Mendola, Balata d'lnici e Bruca, doveva collegare Trapani con Palermo, passan­do per Castellammare. Si veda N. ADRAGNA, Progetti di massima comparativi per due linee diferrovia diretta da Trapani a Castellammare. Relazione, Trapani 1884, 16 pp. Documen­tazione ulteriore in AST, Gab., Pref., b. I, fase. 21 («Consorzio per la ferrovia Palermo-Trapani. 1883»). Un progetto simile per la linea diretta Trapani/Castellammare/Palermo era stato approntato vent'anni prima dall'ing. Riga; ma il consorzio interprovinciale l'aveva respinto per la necessità di non tagliar fuori dalla comunicazione col capoluogo siciliano il territorio meridionale costiero (v. Rapporto sull'affare Ferrovia, in Atti del Consiglio Provinciale di Trapani. Sessione straordinaria e ordinaria pel 1871, Trapani 1872, pp. 472-76). 232 Dalla cifra dei 700 aggiudicatari che figurano nei verbali delle subaste enfiteutiche per i fondi ecclesiastici ricadenti nel resto dei comuni della provincia occorre toglierne almeno un terzo, perché gli stessi nomi ricorrono piti volte nelle varie aggiudicazioni. Stefano Saporito Ricca e Giuseppe Saporito Sciacca (Castelvetrano), Giuseppe Calabrò, Giovan Vito Genna, Pasquale Grignani, Nicola Spanò (Marsala), Vito Favara Verdirame e Tommaso Fugallo (Mazara), Niccolò Patera (Partanna), Favara (Partanna/Salemi), Luigi Corleo, fratello dell'autore della legge d'enfiteusi, Pietro e Vito Bonacasa, Giacomazzi, Patti e Salvo (Salemi), i palermitani Di Stefano e Ponte sono quelli che si trovano piti spesso tra gli acquirenti delle 2564 quote di terreno, per oltre i due/terzi del totale della superficie censita. Tra di essi sono, poi, numerosi coloro che figurano anche tra gli acquirenti dei beni ecclesiastici ricadenti nel territorio dell'Alto Trapanese.

b) È di solito ignorato, o sottovalutato, un aspetto che servirebbe invece a chiarire una certa fisiologia delle strutture costituenti la cosiddetta manomorta ecclesiastica. Risalire, infatti, al titolo originario del possesso, che si può ricavare dalle dichiarazioni dei titolari dei vari corpi morali alle commissioni enfiteutiche, consente almeno di comprendere come quelle entità rurali costituissero anch'esse un fattore dinamico del processo di riassetto fondiario in atto nell'economia dell'isola. Dei 73 fondi censiti, meno della metà derivava da legati e donazioni di nobili benefattori, in gran parte prodotti nel periodo di piu intensa attività devozionale (dal 1572 al 1746/47); ma il restante patrimonio fondiario, formato si quasi tutto tra la fine del secolo XVIII e gli anni precedenti l'Unità, era stato comprato dagli enti ecclesiastici, oppure era pervenuto ad essi per atti di assegnazione del tribunale decisi a compenso di pesi soggiogatari. È questo il caso - per il territorio qui considerato - di alcuni fondi rustici espropriati al duca della Ferla (Baida e Xacca), al principe di Pandolfina (gli ex feudi Bruca e Noce, la paricchiata Fortuna) e a Pietro Pepoli, barone di Rabici (Belvedere)233. Sarebbe oltremodo fruttuosa un'indagine storica sulla manomorta ecclesiastica, onde determinare le spinte oggettive che portarono alla permutabilità della ricchezza fondiaria all'interno del sistema feudale e di quello postfeudale, anche mediante l'istituto della enfiteusi praticato da chiese e conventi con risultati assai piti estesi di quanto non voglia far credere Simone Corleo234.

233 L'atto di assegnazione dell'ex feudo Baida e Xacca da parte del duca della Ferla si trova presso il noto Salvatore Cavallaro e Laniaggi di Palermo, 12 settembre 1825 (v. in AST, Commissione per l'enfiteusi, b. 24, fase. 1). Assegnazioni alla chiesa di S. Pietro dell'ex feudo Noce, di salme 115 (nol. Domenico Gaetano Cavarretta di Palermo, atto del6 giugno 1833), al monastero della SS.ma Trinità (Badia Grande) dell'ex feudo Bruca, di salme 79 (sentenze del 22 dicembre 1835 e dell'8 febbraio 1839) e alla chiesa cattedrale di Trapani della paricchiata Fortuna, di salme 45 (sentenza del 17 novembre 1835), da parte del principe di Pandolfina, furono fatte in estinzione di soggiogazioni. Belvedere, esteso 15 salme, fu espropriato agli eredi del barone Rabici (sentenza del 22 novembre 1842 e verbale di chiusura del 30 dicembre 1854) per un credito di lire 12 904,79 vantato dalla parrocchia di San Nicola e dal monastero del Soccorso di Trapani (ivi, b. 25). Furono, invece, comprati, tra gli altri, gli ex feudi Barbaro (1608), Agnone (1622), Marausa (1638), Napola (1732) e le paricchiate Formosa (1751) e Donna Vincenza (1767).
234 S. CORLEO, Storia della enfiteusi (ed. A. Li Vecchi), pp. 17-31. Tra le carte della commissione (buste 24 e 25) sono conservati alcuni contratti d'enfiteusi stipulati tra i titolari dei vari enti ecclesiastici e coltivatori della zona; ma sono solo quelli dei pochi fondi che erano stati erroneamente inclusi nell'elenco dei beni sottoposti all'enfiteusi forzosa.

c) Nelle proprietà ecclesiastiche (masserie, o anche piccoli fondi bonificati), come nelle altre proprietà di privati, la conduzione in uso era generalmente quella dell'affittanza o del terraggio, che assicurava la percezione di una rendita annua senza l'obbligo da parte di chi concedeva il terreno di partecipare direttamente alla sua gestione. Non ho trovato, tra gli atti notarili di quel periodo, alcun altro tipo di contratto che non fosse quello della gabella, se si eccettua un solo caso di società (cioè di metateria) per un fondo di ettari 7,84 coltivato a grano, vigna e olivo in contrada Fontanelle di Trapani235.

235 Mi riferisco, naturalmente, agli atti relativi ai terreni ecclesiastici soggetti alla censuazione, conservati nello stesso fondo della Commissione per l'enfiteusi (b. 28). Però, secondo un Elenco de'fondi rurali ecclesiastici che la Commissione Circondariale di Trapani ha dichiarati censllabili (1864), 18 fondi, per una estensione di 29 salme e 2 bisacce (cioè di 52 ettari), furono esclusi dall'enfiteusi nei soli Comuni del circondario trapanese perché già censiti dagli stessi titolari ecclesiastici (ivi, b. 29).

Affitti che non duravano piti di sei anni, né meno di quattro. Coloro che conducevano i fondi ecclesiastici erano civili e sacerdoti (34,9/100 del numero degli affittuari che ho ricavato dagli atti notarili del periodo 1850/ 63), i quali li affidavano in subgabella a piccoli borgesi; oppure erano massari (14,4/1 00), se si trattava d'ingabellare gli ex feudi lontani dai centri abitati. Però il 50,7/ l 00 degli affittuari della Chiesa era pur sempre costituito da piccoli borgesi, ortolani e villici, i cui nomi non avrebbero fatto parte dei beneficiari della censuazione. Accanto ai civili Augugliaro, Bonacasa, Burgarella, Calvino, D'AH, D'Anna, Di Stefano, Fundarò, Lombardo, Spanò, Virgilio e molti altri, tra i piu forti acquirenti di quote enfiteutiche si sarebbero trovati i gabelloti piu grossi (Adamo, Cassarà, La Commare, La Porta, Mangiapane, Maran­zano, Minaudo e Palmeri); ma non ci sarebbe stato nessuno dei 77 coltivatori che allora formavano il ceto contadino non salariato che lavorava in quei fondi. Gli affitti seguirono in queste terre l'andamento generale dei prezzi e aumentarono, in media, ogni anno dal 2, 7 5 al 7/8 per cento. (Qui si considera il ventennio successivo alla rivoluzione del, 48, fino al 1867 quando, in pratica, si conclusero le operazioni per l'enfiteusi forzosa). I maggiori aumenti si ebbero tra il 1855 e il 1859, mentre i prezzi dei cereali salivano in media del 6% all'anno, nello stesso periodo236. Il reddito che la Chiesa ricavava dai suoi terreni era, quindi, proporzionato al valore della produzione agricola.

236 Le mete annuali dei cereali (frumento, orzo, fave), dal 1855 al 1860, furono comunicate dai sindaci ai sottoprefetti e al prefetto di Trapani nellugiio/agosto 1863 (v. Commissione per l'enfìteusi, b. 29). Il frumento fu pagato, a salma, nel distretto di Alcamo lire 35,35 (1855), 37,31 (1856),41,41 (1857),48,36 (1858), 56,95 (\859) e 46,22 (1860).

d) Rispetto ai risultati ottenuti dalla censuazione nella zona agraria che si è voluta considerare, quelli riscontrabili nel solo territorio di Castellammare ci mostrano un sistema fondiario assai piu rigido. Solo una decina di beneficiari per quasi 1800 ettari, e tutti appartenen­ti al patriziato (i baroni Adragna e Alestra, il duca di Pietretagliate, il marchese di Torrearsa), al ceto dei civili (D'Anna, Fundarò, Riggio) e a quello dei massari (Cassarà, Ferrantelli, Scimemi). Erano stati in pochi anche gli affittuari della Chiesa237. Come si vede, una cerchia esclusiva di speculatori che consideravano il reddito proveniente dal patrimonio terriero come acquisto di rapace privilegio, piuttosto che investimento di capitali e alea di profitto borghese.

237 Gli affittuari furono (per gli anni qui indicati): Balata d'lnici: D. Giuseppe Lombardo, per il periodo l' Settembre 1850/31 agosto 1856 (onze 1064); D. Gaspare Fundarò D'Anna e D. Procopio Carollo (1856/62), per onze 1164 e tari 24; Leonardo Cassarà (1862/66). Baida e Xacca: D. Giuseppe Bonura (1853/59) per lire 3370,59; D. Gaetano D'Anna (1859/63) per lire 5007,71; D. Pietro Barberi, Giuseppe e Baldassare Pellegrino di Monte S. Giuliano (1863/67) per lire 5296, 63. San Nicola: Sac. Antonino Zangara (1861/67).

La prima riflessione che occorre fare in margine al processo di privatizzazione della manomorta ecclesiastica è la vitalità dimostrata dal ceto nobiliare nel mantenere il ruolo di maggiore detentore della ricchezza fondiaria. Sicché l'inserzione molecolare del ceto civile e dei grandi massari nel nuovo «blocco agrario» avviene soltanto in virtu delle posizioni di potere da alcuni raggiunte nel sistema politico-amministrativo dello Stato liberale, oppure dell'intesa, piu o meno organica, con gli acquirenti aristocratici.
Seppure si verifica con l'acquisto delle proprietà ecclesiastiche da parte dei massari ericini una certa mobilità sociale (bloccata altrove dal monopolio esercitato sul mercato fondiario dai galantuomini «assenteisti»), tuttavia gli effetti della censuazione enfiteutica valgono un po' da per tutto a rafforzare il peso economico di quella classe di proprie­tari che mira alla percezione di una rendita assicurata dai contratti a terraggio, o dalle gabelle, e dal basso salario dei braccianti agricoli. (Anche i capitalisti di Trapani che concorrono con successo all'acquisizione di tali proprietà non intendono certo rimuovere l'uso inveterato di sfruttare il lavoro contadino; ma una parte delle loro rendite, aggiunte a quelle che provengono dall'industria salinifera, costituirà il capitale d'impresa necessario all'impianto e all'esercizio delle nuove industrie alimentari.) È difficile pensare che Simone Corleo, buon osservatore delle condizioni dell'isola (e perfino, in tempi non lontani, fautore dell'opportunità d'imporre un limite massimo alla proprietà238), non fosse a conoscenza dei sentimenti che animavano le aspirazioni del ceto proprietario al possesso della roba, di quanta piu roba possibile.

238 «È dunque molto chiara la massima che dee reggere la distribuzione della proprietà: essa consiste nel lasciare alla libertà privata la cura di acquistarsela, con tutti quei mezzi che non possono offendere l'esercizio della libertà altrui. Perciò lo Stato dee solamen­te intervenire per isciogliere vincoli, monopolii, privilegi, che la privata libertà o l'associazione dei privati avrebbe imposto sulla proprietà o sul commercio» (cfr. S. CORLEO, Discorso sui Gracchi. sul Comunismo e sul massimo limite della proprietà, in Tragedie. seguite da discorsi politici e letterari, 2a ed., Palermo 1869, p. 403). L'interessante scritto di Corleo, che apparve la prima volta nel 1861, è esaminato da R. COMPOSTO, in Conservatorismo e fermenti sociali, pp. 51-54.

A convincerlo della necessità di presentare, con sollecitudine, prima un ordine del giorno al consiglio civico di Salemi, e poi, una volta eletto alla Camera, il progetto di legge per l'enfiteusi forzosa dei beni rurali ecclesiastici, fu, probabilmente, il timore che, sotto la spinta popolare (erano vive in quei giorni le apprensioni per la reazione contadina nella Sicilia etnea), i tempi potessero maturare a favore di una scelta democratica nella distribuzione delle terre del demanio e della Chiesa. Il rischio di favorire le camorre nelle aste era, perciò, ben calcolato o, addirittura, scontato; ma era preferibile affrontado onde deprimere il falso concetto di «dar terre a coltivare ai poveri braccian­ti», i quali, invece, dovevano attendersi, come beneficio indiretto, un «proporzionato» aumento del loro salario239.

239 Cfr. circolare della Sopraintendenza generale delle Commissioni per l'enfiteusi dei beni rurali ecclesiastici di Sicilia (15 gennaio 1866), in s. CORLEO, Storia della enfiteusi, pp. 509-12. Vi era spiegato chiaramente che la legge 10 agosto 1862 «non poteva aver lo scopo di dar terre a coltivare ai poveri braccianti, i quali, mancando di ogni capitale e dovendo soltanto affidarsi sul prestito, o non potrebbero mai ben coltivare e quindi dovrebbero tosto o tardi dismettersene, o dovrebbero esseme spropriati dai creditori, appenaché i primi due cattivi raccolti li mettessero in istato di non poter soddisfare. L'effetto benefico, che la detta legge deve pure spargere su questa classe laboriosa e tanto degna del pubblico interesse, è quello di accrescersi proporzionatamente, come già lo veggiamo, il suo salario: e poiché essa si avvezzerà al risparmio mercé la istruzione, sarà in grado a suo tempo di partecipare della bramata proprietà terriera».

Il conservatorismo sociale manifestava cosi le sue ragioni intrinseche, sfruttando un indirizzo liberale di politica economica conforme ai «sani principi della scienza». Tuttavia, pur entro il sistema dell'accumulazione capitalistica possibile attraverso lo sfruttamento dei contadini240, non si può nemmeno negare che ad ostacolare gli effetti propugnati dalla legge Codeo, quanto a miglioramenti fondiari e ad aumento dei salari agricoli, concorse soprattutto l'eccessiva liberalizzazione delle modalità d'acquisto delle quote enfiteutiche, senza che fosse posto alcun limite o vincolo per una diversa conduzione della proprietà rurale. In sostanza, la legge Codeo, che non aveva certo l'intento di attuare una riforma agraria, ma che pure aveva quello, auspicato in virtu delle leggi economiche del libero mercato, di promuovere il progresso dell'agricoltura e di far crescere il salario dei contadini, rafforzò il latifondo e le sue strutture d'intermediazione parassitaria, scoraggiando la tendenza, che si era manifestata da almeno mezzo secolo, a spezzare le grandi proprietà e a beneficarle mediante i contratti di miglioria e la concessione enfiteutica a piccoli lotti.

240 Rosario Romeo, com'è noto, ha sviluppato nel suo Risorgimento e capitalismo (Bari 1959) la tesi della compressione dei redditi contadini come condizione fondamentale dell'accumulazione originaria del capitale in Italia dopo l'Unità. Su tale impostazione ha discusso A. GERSCHENKRON, Rosario Romeo e l'accumulazione primitiva del capitale, in «Rivista storica italiana», Napoli, LXXI (1959), fase. 4, pp. 557-86; ma v. anche la vivace messa a punto di A. MACCHIORO, Risorgimento, capitalismo e metodo storico, in «Rivista storica del socialismo», Milano, II (1959), fase. 7-8, pp. 673-709.

Restava, insomma, insoluto il problema, già affrontato dai decreti borbonici, della colonizzazione del latifondo, la cui soluzione, affidata alla buona volontà dei grandi proprietari e gabelloti, avrebbe cozzato contro il loro tornaconto a percepire una rendita depurata da ogni rischio agrari0241. Senza dire che il prestigio sociale e politico di poche famiglie di galantuomini ne usci enormemente rafforzato a livello del governo locale242.
Dunque, soffermarsi, come hanno fatto generalmente gli studiosi243, sulla quantità dei benefici ari prodotta dalla quotizzazione enfiteutica risulta irrilevante a fronte degli aspetti riguardanti la ristrutturazione capitalistica della proprietà fondiaria che era il vero obiettivo della legge. Sarebbe allora necessario tener conto, nel lungo periodo, dei momenti successivi di enucleazione della manomorta ecclesiastica, dei rapporti sociali al suo interno, dell'eventuale frazionamento avvenuto attraverso vendite e affrancazioni. E, per quanto riguarda le subaste enfiteutiche del 1864/71, considerare gli effetti della censuazione sul piano della produttività agricola, degli apporti di capitale per il miglioramento fondiario, del sistema dei contratti agrari e del livello salariale delle prestazioni lavorative contadine.

241 «Illatifondista ha interesse a mantenere la produzione scarsa, senza alcun inve­stimento di capitale, perché la rendita sia netta del tutto da ogni rischio e da ogni interesse, La rendita della nuda e selvaggia terra è crescente da sé, preleva dal prodotto la principale parte, lasciando in miseria ciascun lavoratore, ed assicura l'ozio signorile: perché preoccuparsi d'altro? il maggiore prodotto dell'agricoltura industrializzata farebbe diminuire la quota percentuale che il prezzo d'uso della nuda terra rappresenta nel prodotto, perchè costringerebbe il latifondista ad impiegare capitali che richiedono interesse e che gli mancano, a dedicarsi alla vita dei campi. Il prodotto dei latifondi è misero, ma la rendita padronale è massima, perché la parte spettante al lavoro è la minore possibile e quella relativa ai capitali d'intrapresa è nulla» (cfr. s. CAMMARERI SCURTI, La rendita fondiaria nel latifondo siciliano, in «Critica Sociale», Milano, XVI (1906), p. 219). Sul «sistema dello sfruttamento contadino» nelle campagne siciliane v. G.C. MARINO, Socialismo nel latifondo, Palermo 1972, pp. 38-45.
242 Sull'influenza della classe dei galantuomini sul governo locale si sono soffermate un po' tutte le indagini dei meridionalisti, dalle sagaci analisi politiche di Leopoldo Franchetti agli scritti di Cammareri Scurti sul fenomeno latifondistico; ma v. anche nello studio antropologico di Leonardo Cuidera (Vivai criminali, pp. 96-99) gli accenni al nesso storico tra la censuazione dei beni ecclesiastici e il nuovo «feudalismo borghese» per la «continua camorra a base di clientela». 243 P. ALATRI, Lotte politiche in Sicilia, pp. 59-68; G. CERRITO, La questione della liquidazione dell'Asse ecclesiastico in Sicilia, in «Rassegna storica del Risorgimento», Roma, XLIII (1956), aprile-giugno, pp. 270-83. Non è stata ancora condotta una ricerca sistematica sugli atti delle commissioni circondariali per l'enfiteusi forzosa e della sovrintendenza generale in Palermo, per comprovare o meno quanto afferma Simone Corleo nella sua Storia della enfiteusi dei terreni ecclesiastici di Sicilia, sulle cui conclusioni, in fondo, si basano in gran parte i rilievi avanzati dagli stessi critici della censuazione.

Il dato complessivo che emerge dai risultati della censuazione non è ancora l'assetto definitivo della proprietà dei fondi ex ecclesiastici. Ogni valutazione sulla consistenza delle quote pervenute ai censualisti in forza della legge Codeo perde significato se non tiene conto anche delle vicende fondiarie che ne seguirono, riscontrabili attraverso le ricensuazioni e vendite operate dagli speculatori d'asta, tali in ogni caso da modificare profondamente il profilo patrimoniale delle prime acquisizioni.
Esaminiamo il caso dell'ex feudo di Balata d'Inici, il piu esteso del territorio, le cui 173 quote erano state assegnate in un primo tempo a soli quattro proprietari nella seguente proporzione: il 48,6% a Fardella di Torrearsa, il 24,9% ciascuno ad Adragna Vairo e a Leonardo Cassarà, il resto ad Erasmo Scimemi. Dopo cinque anni, dal '68 al '72, la primitiva situazione appare mutata a vantaggio di una massa di nuovi proprietari. È importante, tuttavia, sottolineare come si è pervenuti a tale frazionamento, e quali nuovi interessi furono alla base della speculazione fondiaria portata avanti dai primi acquirenti. Si è già detto che tre dei suddetti acquirenti erano legati tra di loro da un solido patto di «associazione» economica: la Società immobiliare presieduta da Nicolò Adragna, con cassiere Giulio Ali, e della quale facevano parte, tra gli altri, Burgarella Ajola, Fardella di Torrearsa, Giuseppe D'Ali e l'avvocato Luigi Codeo, fratello del deputato Simone, promotore della legge del '62 per l'enfiteusi forzosa. Cassarà rivende diretta­mente le quote di terra acquistate nelle aste del '66, mentre Fardella (per l'interposta persona dell'avvocato Mac Donald) e Adragna danno incarico, il primo al sacerdote Ignazio Galante, il secondo ad Antonino Ferrantelli di Antonio, di vendere le quote di loro proprietà al prezzo che essi crederanno piu opportuno «purché però non sia minore di lire sessanta per ciascuno intero lotto e che sia pagato in contanti»; oltre naturalmente a corrispondere il canone dovuto allo Stato e il relativo contributo fondiario (procure del 13 e 30 dicembre 1868 in noto Vito Mattarella). Una parte dell'ex feudo fu rivenduta a due ricche famiglie del capoluogo. Ad Agostino Burgarella Ajola andarono, per lire 1329,50, venticinque lotti244, ed altri 26 ne acquistarono i figli del barone Francesco Adragna, Giuseppe e Pietro, per una cifra di poco superiore245. Avvenne in questo caso una redistribuzione delle proprietà tra gli stessi soci dell'immobiliare. Da Cassarà e dai due procuratori Galante e Ferrantelli furono vendute 94 quote (ma molte di esse furono suddivise in quote piu piccole) a 54 borgesi, civili e massari. Sulla base degli atti di compravendita registrati dal notaio Vito Mattarella si può calcolare che la somma ricavata per i 145 lotti venduti fino al dicembre '72 si aggirasse intorno alle dieci mila lire246.

244 Not. Vito Mattarella, 29 dicembre 1868 (ANT, 4022, ff. 1087r-11 lOv).
245 [vi, ff. 1IIIr-1138v, 1159r-1l65v.
246 [vi, atti registrati negli anni 1868 (29 dicembre), 1869 (lO giugno, 29 luglio e 5 settembre), 1870 (13 e 31 marzo, 3 aprile, 1,6,8 e 26 maggio, 3, 4, 5,12 e 30 giugno, 17 luglio e 29 dicembre) e 1872 (3 novembre, 29 e 30 dicembre). I pochi civili acquirenti in questa fase di ricensuazione, ai quali andarono 14 lotti, diedero in fitto i loro terreni, o li vendettero ancora una volta (v. atti del 18 febbraio 1872, ivi: ANT, 4027, ff. 77r-80v).

Cosi ai contadini coltivatori la terra è finalmente potuta pervenire pagando i costi della intermediazione parassitaria. Ed è facile pen­sare che ad allontanarli dalle aste del '64-'67 siano state, insieme, la coalizione degl'interessi capitalistici formatasi attorno alla Società immobiliare e la prepotenza delle mafie. La scelta caduta su due spregiudicati rappresentanti del mondo affaristico/mafioso di Castel­lammare per sovrintendere alle successive operazioni di compravendita dei lotti di terreno dell'ex patrimonio ecclesiastico ha certamente un significato ben preciso nell'esplicitare il rapporto saldatosi tra alta borghesia agraria e poteri informali della mafia. Quale sia stato il prezzo pagato dagli speculatori d'asta per tale negozio non siamo in grado di precisare, ma solo d'intuire, tenuto conto delle acquisizioni immobiliari pervenute in questo periodo a 19nazio Galante (i lotti 171 e 172 di Balata d'lnici, circa duecento ettari di terreno pascolativo e seminerio)247 e alla famiglia Ferrantelli (i fratelli Antonino, Francesco e Gioacchino, quest'ultimo con i figli Antonio, Leonardo e Nicolò )248.

247 [vi, 29 dicembre 1868 (ANT, 4022, ff. 1149r-1157v) e 8 maggio 1870 (ANT, 4024, ff. 315r-322r).
248 I figli di Gioacchino Ferrantelli acquistarono quattro lotti dell'ex feudo di Balata d'lnici per una estensione di ettari 16,95,48 (ivi, 29 luglio 1869: ANT, 4023, ff. 41Ir-418r; 29 e 30 dicembre 1872: ANT, 4027, ff. 496r-499v, 534r-537v). I fratelli Antonino e Francesco si unirono a D. Simone Riggio per l'acquisto, al prezzo di lire 1736, del lotto 170, esteso ettari 99,59,68, su cui gravava un canone di lire 1052,84 (ivi, 29 dicembre 1868: ANT, 4022, ff. 1139r-1148r). Acquistò pure due quote di Balata d'lnici (ettari 5,97,11) Gioacchino Ferrantelli fu Vincenzo (ivi, 26 maggio 1870: ANT, 4024, ff. 365r-372r).

I Ferrantelli sono ormai entrati a far parte del ceto dei grandi gabelloti249. Sono scomparsi, invece, gli affittuari/civili che avevano dominato per mezzo secolo il mercato delle gabelle. D. Giuseppe Marcantonio Coniglio e D. Procopio Carollo sono morti, lasciando a figli e nipoti beni presto dispersi. L'eredità di D. Giuseppe Lombardo è corrosa da lunga contesa giudiziaria che si esaspera nell'ambito familiare tra il ramo maschile e quello femminile250. In difficoltà le famiglie D'Anna e Fundarò che hanno dovuto abbandonare al fisco l'ex feudo di Baida e Xacca251. Gravate da ipoteche le proprietà di tutti gli altri (D. Michelangelo Lombardo, D. Gaspare Nicotri, lo stesso notaio Andrea Di Blasi, indebitatosi a causa della forzata inattività professionale durante la sua latitanza)252. In tutti i casi nessuno dei civili mostra piu di poter concorrere con successo alle speculazioni agrarie, lasciando perciò ai massari/borgesi le cure dei terreni e la loro gestione intermediaria.

249 Le due quote dell'ex feudo di Balata d'lnici (171 e 172) acquistate dal sac. Galante furono date in fitto, per due anni, per lire 3060 ad Antonino Ferrantelli di Antonio (ivi, 7 ottobre 1869: ANT, 4023, tI 545r-546v). Questi, a sua volta, diede «a solo uso di pascolo» per un anno per lire 1912,50 la sua quota 170 dello stesso ex feudo acquistata insieme col fratello Francesco e col dr. Simone Riggio (ivi, 14 dicembre 1871: ANT, 4026, ff. 295r-296v), nonché le altre quote acquistate in ex feudo Baida e Xacca, «ad uso di semina» per due anni per l'annuo estaglio di lire 433,50 (ivi, 20 settembre 1868: ANT, 4022, ff. 883r-884r). Nel '77 rivendette due quote di Balata d'lnici ai fratelli Domenico e Nicolò Maranzano per lire 3017,50 (ivi, 31 dicembre 1877: ANT, 4032, ff. 403r-408v). 250 Ivi, Il aprile 1865 (ANT, 4015, ff. 283r-376v).
251 Sentenze di rendita del Tribunale Civile di Trapani in AST, Commissione per l'enfiteusi dei beni rurali ecclesiastici, b. 3, fasc. 37.
252 Estinzione di debito di lire 1402,50 contratto verso Gioacchino Ferrantelli fu Vincenzo in not. Salvatore Briguccia, 19 gennaio 1874 (ANT, 3305, ff. 190r-19Iv).

Si rafforza intanto negli anni '70 e '80 quel processo di concentrazione della proprietà borghese che si era delineato prima, quando si era iniziata la liquidazione del patrimonio feudale ed ecclesiastico. Le stesse forme della contrattazione agraria prevalenti negli ex feudi (gabellottaggio, subgabella, metateria e terraggio) consentono nel nuo­vo contesto economico di conservare l'unità fondamentale della «masseria» contro la tendenza, favorita da nobiltà e Chiesa, a spezzare il latifondo baronale attraverso le concessioni enfiteutiche. Se da un lato la fame di terra spinge il contadiname ad assumersi l'onere di un canone spesso gravoso pur di uscire dalla disperata condizione proletaria, dall'altro l'iniziativa del grande affittuario volta a sfruttare al massimo, e al meglio, le possibilità offerte dalla estensione e dalle varietà agronomico/pastorali del latifondo è sostenuta da una struttura «borghese» piu efficiente e remunerativa, che, alla fine, riuscirà vincente. Al declino dell'istituto agrario della enfiteusi corrisponderà, infatti, dopo l'Unità, un assetto fondiario regolato prevalentemente dai sistemi di conduzione e dai modi di produzione piu tipici (e funzionali) dell'economia latifondistica.
Di fatto la maggiore estensione della superficie coltivata a cereali, insieme col sistema delle grandi e medie locazioni di terreni concessi a massari/borgesi, caratterizzeranno, nel periodo successivo al '60, la costituzione del latifondo borghese. Per il periodo precedente, i dati riassuntivi dell'antico catasto ci presentano un quadro non molto articolato delle diverse colture nel territorio comunale. Intanto la metà della superficie agraria è considerata sterile (14,6%) oppure si fa rien­trare tra i terreni rampanti (35,5%). In tutto 6029 ettari, cui debbono aggiungersi 220 ettari di bosco, canneto e fichidindieto (1,79%). I seminativi occupano il 32,89% (ettari 4021) della superficie catastata, il vigneto il 12,57% (ettari 1536) e l'oliveto il 2,03% (ettari 248). Trascurabili le percentuali del sommaccheto (36 ettari pari allo 0,38%), delle colture ortalizie e dei giardini (33 ettari pari allo 0,26%)253. Dopo quarant'anni, le successive stime dell'inchiesta agraria Jacini/Damiani indicheranno una sensibile riduzione dei terreni pascolativi e un au­mento della cereali coltura e del vigneto (1148,9 e il 29,07 per cento della superficie agraria)254. All'incremento di un terzo delle coltivazioni cerealicole e piu del doppio di quelle viticole contribuisce il forte ricupero di terreni all'agricoltura per effetto delle bonifiche (1520 ettari).

253 Quadro di riassunto del catasto provvisorio del Comune di Castellammare fonnato in esecuzione del RD 8 agosto 1833 (istruzioni del 17 dicembre 1838 e reali rescritti 27 novembre 1841 e 29 ottobre 1842), in AST, Catasto provvisorio, cit., vol. 1 («La rettifica è stata principiata a 16 luglio 1842. Il catasto è stato tenninato a 18 maggio 1844»). Nel quadro riassunti vo è compresa la parte del territorio staccata nel 1846 dal Comune di Monte S. Giuliano. L'estensione, calcolata originariamente in salme dell'antica misura legale, è stata poi ridotta in ettari nella copia redatta a cura della prefettura di Trapani (1865).
254 Atti della Giunta, cit., voI. XIII, to. II, fase. IV, p. 324.

Se, poi, consideriamo la distribuzione della proprietà terriera rileviamo subito l'estrema frammentazione di una parte di essa tra piccoli possidenti ed enfiteuti. Il prospetto statistico (riprodotto in appendice) elaborato sui dati del catasto provvisorio del 1842/44 ci consente di indicare alcune fondamentali componenti dell'assetto fondiario. Gli ex feudi in mano di una dozzina di famiglie patri zie occu­pano ancora una superficie di ettari 5789 (47,36% del territorio comu­nale a fronte del 66,48% che risultava dal rivelo del 1808), in gran parte semineri e terra rampante e sterile; ma sono già registrate in catasto 1270 partite inferiori ai due ettari (8,35% dello stesso territorio). Agli ex feudi baronali debbono però aggiungersi i due latifondi appartenenti all'asse ecclesiastico, pure essi destinati alle colture cerealicole e al pascolo, per una estensione di ettari 1174 (9,60%), e il demanio regio di Scopello (639 ettari pari al 5,28%). Il ceto dei civili e galantuomini possiede, inoltre, il 13,22% della terra, di cui il 4,54% è costituito da fondi estesi piu di cento ettari. La proprietà latifondistica occupa perciò i due/terzi della superficie agraria, ridotta in seguito, come vedremo, al 53,89%, ma perché nel ventennio successivo altre terre saranno concesse in enfiteusi e, dopo l'Unità, saranno alienati a privati i beni rurali ecclesiastici e il «real sito di Scopello». Emerge frattanto già in questo periodo una borghesia terriera. Accanto ai civili Fundarò, Barone, Costamante, Marcantonio, D'Anna, D. Bartolomeo Asaro, D. Procopio Carollo e D. Giuseppe Lombardo, ci sono gl'imprenditori contadini, come Domenico Gennaci, i Ferrantelli e i Navarra, Giacomo e Francesco Maria Verderame, Pietro Galante, i Buccellato e i Cassarà (ciascuno con proprietà superiori ai 20 ettari), i quali formano il nucleo originario di quella classe di massari e proprietari che saranno i piu motivati a sostenere la tendenza a mantenere, o a ricostituire, l'unità del latifondo.
Se, infatti, nella tormentata vicenda fondiaria degli anni postunitari la piccola proprietà contadina, formatasi attraverso l'enfiteusi, mostra pur sempre una certa resistenza, appare tuttavia piu marcata (e, tutto sommato, piu significativa) la tendenza allo sviluppo della proprietà borghese a sostegno della struttura latifondistica. Ad oltre mezzo secolo dalle prime rilevazioni catastali i possedimenti dei nuovi massari/borgesi, accanto a quelli residuali delle famiglie patrizie, domineranno il contesto economico-sociale del territorio. Secondo l'inchiesta Lorenzoni, nel 1908, esistevano nel Comune di Castellammare 21 latifondi, per una estensione di ettari 6586, cioè per una percentuale del 53,89% della superficie agraria255.

255 v. PASSALACQUA, Notizie economico-agrarie sui latifondi, in Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, vol. V, Sicilia, Roma, 1910, pp. 460-65. Dei 6586 ettari di latifondo, 2510 erano però considerati incolti (cioè destinati al pascolo). Proprietari ne erano gli eredi Cardillo (Abbatello, lnici), il conte Trigona/Naselli (Gagliardetta) e il marchese Gabriele (Valle di Celso e Conza), tra i patrizi; Giuseppe, Stefano e Vincenzo Fontana (Lisciandrini sottani, Balatelle, Sancisuca, Giallombardo e Fiscella), Quartana (Curcia, Guardia, Guardiola, Golfo e Brullo), Francesco Mes­sina (Strafaccello), Bica (Nigra) e Ferrantelli (Portelle di Baida), tra i massari; gli eredi del notaio Maiorana, Nicolò Adragna, Borruso, Costamante, Foderà e Plaja tra i «cavalieri».

Ciò che mi pare valga la pena di sottolineare a questo proposito è il dato che si ricava dal raffronto tra il rivelo del 1808, con cui veniva esattamente indicata l'estensione dei latifondi baronali di Castellammare, e le stime fatte dall'agronomo Vito Passalacqua per l'inchiesta Lorenzoni. Dopo un secolo, se si eccettuano gli ex feudi Fraginesi, Comuni, Sarconi, Grotticelli, Pocorobba, Baida e Xacca (2656 ettari in gran parte censiti, prima dell'Unità, a un migliaio di enfiteuti), il restante territorio non subirà ulteriori frazionamenti, passando pressoché integralmente dal dominio feudale in mano di 12 massari/borgesi e civili, accanto agli eredi di tre famiglie patrizie (Adelaide Cardillo, conte Trigona/Naselli e marchese Gabriele). La masseria, con estensioni di terreno fino a 1200 ettari (Inici, Gagliardetta), sarà sostenuta nella sua conduzione polifunzionale (pascolo, colture estensive, ma anche piantagioni specializzate, come il vigneto e il sommaccheto) dal sistema dei contratti stipulati con terraggieri e coloni, nonché dal sistema delle «gabelle», cioè degli affitti mediante estaglio in denaro256.
Il fitto della terra con canone in denaro persegue il fine di ricavare una rendita netta sfuggendo alle conseguenze negative possibili con annate scarse che, in tal caso, ricadrebbero tutte sul già magro bilancio dell'affittuario/coltivatore. La durata della gabella (da uno a due anni) è tale da convincere quest'ultimo a sfruttare il terreno in maniera poco coordinata, senza preoccuparsi d'incentivi o soccorsi qualitativi che possano migliorarne la resa produttiva. Ancor piu duro e precario il sistema dei subaffitti cui ricorre spesso il civile/proprietario o il gabelloto intermediario. Un tale sistema non cambierà a seguito dell'enfiteusi forzosa dei fondi ecclesiastici, né per la durata dei fitti, né per la qualità delle colture e per le tecniche di lavoro. Non cambierà nemme­no la contrattazione agraria, sia quella (meno frequente) della mezzeria, sia quella piu diffusa della colonia parziaria;

256 Un sistema misto di fitti e subaffitti, colonie e terraggi era praticato negli ex feudi di Balata d'lnici e Pocorobba, Mendola, Pianotta e Gagliardetta, per una estensione di salme 328 e 14 tumoli dell'antica corda (ettari 1099), in parte rampanti (ad uso di pascolo), in parte terre lavoriere. Il monastero del SS.mo Rosario sotto titolo di S. Andrea in Trapani, che ne era il proprietario, li aveva dati in fitto, nel '55, per quattro anni a D. Procopio Carollo, D. Giuseppe Lombardo Polizzi, D. Gaspare e D. Leonardo Fundarò per l'annuo estaglio di D. 7 e grani 50 a salma per la montagna e D. 18 e grani 50 per i terreni seminativi, piu i consueti carnaggi (atto in not. Andrea Di Blasi, 28 marzo 1858: AST, 1024, fI. 727r-736r). Gli affitti della terra avevano già subito un notevole incremento nel periodo precedente l'Unità. Dal '47 al '57, secondo calcoli fatti sulla base dei contratti d'ingabellamento stipulati in quegli anni, l'aumento era stato di almeno il 25/30 per cento come per i prezzi d'acquisto della terra (da 20 a 26 onze a tumolo nella contrada Fraginesi). Una parte dell'estaglio era computata in carnaggi. Quelli che spettavano, per es., ai Cardillo per l'ex feudo d'lnici erano: un q.le di caciocavalli «curati e salamoriati», quattro capretti, 50 rotoli di ricotta e 30 carichi di paglia (atto in noto Vito Mattarella, 30 agosto 1872: ANT, 4027, ff. 271 r-280v).

Un esame degli atti relativi ai contratti di colonia parziaria stipu­lati in almeno un trentennio, dal '36 in poi, ci porta a considerare in un quadro sintetico tipologie e modalità degli stessi, individuando, anzitutto, coloro che affidavano a terra e semenza i loro fondi, per lo piu ubicati negli ex feudi dell'interno (Inici, Lisciandrini, Giallombar­do, Sancisuca, Balata di Baida, Gagliardetta e Sarconi). Sono i Lom­bardo, i D'Anna, i Navarra (D. Antonino e D. Leonardo), i Marcanto­nio, D. Procopio Carollo, D. Gaspare e D. Leonardo Fundarò, i Fer­rantelli e D. Simone Riggio. La durata dei contratti è ancora e sempre di due anni. (A volte lo spazio della colonia si riduce a un solo anno, come ho trovato in alcuni contratti del' 4 7 e degli anni 1859-61). La misura dell'interesse relativo alla semente soccorsa va da tre terraggi e mezzo per ogni salma di terra seminata a quattro, o anche sei, turno li per ogni salma di frumento prodotto. Il raccolto, alla fine, sarà diviso a metà tra le parti257. Altre clausole piu onerose s'incontrano qua e là in questo tipo di contratti: l'impiego dei bovi per gli aratri sarà pagato «con la mercede al locatore» e il trasporto del grano e della paglia sarà fatto dai coloni fino ai magazzini del proprietario o del gabelloto, in paese o nel baglio di campagna. Se i coloni avranno bisogno di denaro, i concedenti s'impegnano a prestarlo in ragione di onze due per ogni salma di terra, da restituire fra un anno con gl'interessi computati in grano a prezzo di mercato.

2S7 Per i vari tipi di contratti a terraggio v. atti in noto Andrea Di Blasi, 15 agosto 1847 (AST, 996,ff. 638r-644r), 12 giugno 1853 (AST, 1009, ff. 1057r-I066r), 29 settembre 1856 (AST, 1020, ff. 655r-662v), 28 marzo 1858 (AST, 1024, ff. 727r-736r). Per una compiuta esemplificazione valga il contratto stipulato, nel giugno 1836, tra Vincenzo Ferrantelli e Antonino Navarra, da una parte, e due contadini, Maranzano e Caleca, dall'altra, i quali s'impegnano a seminare a frumento e ad orzo la tenuta di terra denominata la Guttana. Nel primo anno «semenza morta liscia, o sia salma per salma, e per meglio sentirsi colla restituzione di salme due di frumento, od orzo, per ogni salma di terra, per come Ferrantello e Navarra si obbligano a dargliela per seminare e restituirla di netto mercantibile e recettibile, con patto però che nel primo anno in dette terre dovrà darsi un colpo di aratro a spese comuni, ossia in mettà Ferrantello e Navarra, in mettà Maranzano e Caleca». Nel secondo anno «colla mezza semenza morta liscia» e i lavori di aratura e di acconcio a spese dei coloni «in tempi proprii ed opportuni per come l'arte burgenzatica richiede» (atto in noto Giuseppe Mangiarotti, 29 giugno 1836: AST, 1107, ff. 399r-404r).

Le spese di campierato saranno a carico dei coloni, che «pagheranno la custodia in frumento» col prelevare, nell'aia, dalla loro parte ciò che andrà al campiere258.
Non sappiamo quali siano state in Castellammare le prestazioni extracontrattuali cui si fa riferimento nelle prime inchieste agrarie per la Sicilia; mentre, di solito, nei patti scritti sono elencati i cosiddetti carnaggi, cioè la parte del canone dovuta in natura. I contratti di affitto e quelli di colonia, pur nella sostanziale invariabilità manifestata attraverso gli anni, assumono comunque tante sfumature locali quante sono le condizioni del terreno e le oscillazioni del mercato (quello dei prezzi agricoli e quello del lavoro), fin quasi a far scomparire il rapporto colonico vero e proprio, riducendo il piccolo fittavolo o concessionario in qualcosa di simile a un bracciante senza salario.
Sono qui deboli i contraccolpi della penetrazione capitalistica nelle campagne, che localmente hanno un equivalente nella commercializzazione del sommacco e del mosto per la produzione del marsala; ma nella fase di transizione dal latifondo feudale al latifondo borghese ricade solo sui contadini coltivatori il peso delle migliorie e trasformazioni agrarie, nonché della messa a coltura di terreni nudi e rocciosi (tra il 1860 e l'80, secondo l'inchiesta Jacini/Damiani, il 14,57% del territorio castellammarese è soggetto a bonifica)259. Ciò è ancora piu evidente nei pochi casi di mezzeria, o mezzadria impropria, che si praticano specialmente per la coltura del sommacco260.

258 Dopo l'Unità, i patti per i coloni non subiscono sostanziali modifiche. In qualche contratto si fa menzione delle sementi, della custodia del frumento e dei tempi di aratura del terreno. D. Gaetano D'Anna dà in colonia parziaria una tenuta di terre nell'ex feudo Lisciandrini. Nel primo dei due anni della colonia i contadini dovranno seminare una parte del fondo a frumento e l'altra parte «ararla due volte nei tempi propri ed opportuni onde ben prepararla alla semina per l'anno venturo». La semina dovrà farsi a terra e semenza, «dovendo il locatore apprestare la semente necessaria in ogni anno, cioè la semente timilia in tomoli ventotto per ogni salma abbolita dell'affittate terre, e la semente sambucara in tomoli ventinove per ogni salma ora detta; e tutto il prodotto in frumento che sarà ricavato dalla semina di ciascuno anno, come ancora le paglie, saranno divise in parti uguali nell'aja appartenendone una al locatore e l'altra ai coloni. I coloni suddetti faranno la semina, la coltura tutta, e la raccolta in ciascuno dei suddetti anni a tutte di loro spese, a perfetta regola d'arte e nei tempi propri ed opportuni. Essi coloni inoltre pagheranno le spese di custodia in frumento, che sarà prelevato dalla di loro parte nell'aja come costumano gli altri coloni di detto ex feudo» (atto in not. Andrea Di Blasi, l° dicembre 1861: AST, 1035, tI. 955r-958v).
259 Atti della Giunta, cit., voI. XIII, to. Il, fase. IV, p. 324.
260 Casimiro Piazza metatiere del marchese Cardillo in ex feudo Inici (not. Andrea Di Blasi, 26 febbraio 1860: AST, 1031, fI. 549r-552v). Antonio Ferrantelli di Gioacchino dà a mezzeria per nove anni a Croce Palizzolo e Luigi Norfo, contadini di Cinisi, una tenuta di terre in contrada Castellaccio. Patti: i due mezzadri coltiveranno a loro spese sommacco «con tre acconci di zappone. e la corrispondente pota», piantando nel primo anno le barbatelle di sommacco necessarie a coprire l'intero fondo. Raccolta e trasporto del prodot­to a spese dei mezzadri; a metà tra concedente e coloni il ricavato della vendita (atto in not. Vito Mattarella, 24 maggio 1868: ANT, 4022, fI. 593r-595v). L'apporto del proprietario alla conduzione del fondo in scorte vive o morte (come suoi dirsi) è pressoché nullo; né mi pare sia diversa l'impostazione che presiede alla mezzeria da quella del rapporto colonico nel latifondo cereali colo sotto forma di colonia parziaria, se si eccettua la durata del contratto, che dovrebbe consentire al mezzadro di ricuperare in qualche modo le spese (e le fatiche) impiegate per l'impianto del sommaccheto.

Affittanza, colonia parziaria e mezzeria sono gli unici strumenti attraverso cui il contadino è legato alla produzione del grano, dell'orzo e del sommacco; mentre per il vigneto queste forme di contrattazione non possono garantire il proprietario. Qui vige la conduzione ad eco­nomia, sia nei piccoli fondi dei censuari, sia nelle proprietà piti estese dove s'impiega mano d'opera specializzata261. Il vigneto era di solito consociato all'olivo, ma anche nei fondi coltivati interamente a vigna - dove la sequenza dei ceppi lungo i filari era piti fitta, con distanze che variavano da m 1,30 a m 1,50 -la resa in mosto era sempre assai bassa. Una botte di litri 412,633 poteva contenere la produzione di un migliaio di viti262. Era, invece, alto il grado di alcoolicità dei vini prodotti; il che favoriva la loro commercializzazione nell'area controllata dall'industria del marsala. Un incentivo, questo, all'espansione della viticoltura che proveniva dall'esterno, ma che non favoriva accumulazione capitalistica in quanto il profitto era realizzato nell'ambito di un'economia contadina (quella che si reggeva sulle concessioni enfiteutiche e subenfiteutiche) stretta nella morsa dell'indebitamento progressivo. Era, perciò, duplice la spinta a dissodare e bonificare terreni per l'impianto della vite, sottraendoli al pascolo e alla cereali­coltura, ma anche a sopportare le conseguenze di un innesto capitali­stico che accentuava la subordinazione del ceto contadino piu debole alle nuove scelte economiche.

261 Riscontriamo in un atto notarile i patti che sovraintendono al lavoro del vignaiuolo: «Spalare la canna nuova, ed, infasciata e rifasciata, situarla nelli magazzini delli rispettivi luoghi». Per il trasporto della canna dalle vigne chiamate le Dàgale, il proprietario «si obbliga approntare una o piu vetture, a suo piacere, senza che per tale trasporto consegui mercede, o ricompensa alcuna». Fare nelle stesse vigne scalza giunta, a dovere, e come volgarmente dicesi conzi. Indi verificata la puta, e calate le pulpaggini, detto Milazzo «vignaiuolo» si obbliga raccogliere tutte le viti nel seguente modo: onze quattordici per la spalatina, e scalza, onze otto per impalare le dette vigne, quale impalatina restando pure a carico del Milazzo si obbliga verificarla giusta l'arte, e da dovere, onze duodeci per l'acconcio di marzo, onze sei per l'acconcio d'aprile, onze cinque per l'acconcio di maggio, e onze cinque per la maniata» (atto in noto Giuseppe Mangiarotti, 15 novembre 1837: AST, 1108, ff. 6I3r-618v). Cinquanta onze in tutto per la spesa della mano d'opera, calcolata tale spesa (come appare da un successivo contratto d'obbligo) in un'onza e sei taTi per ogni migliaio di viti (atto del 28 novembre 1839, il'i: AST, 1109, ff. 46Ir-468r).
262 La resa in mosto era comunque diversa, da zona a zona, nelle stesse contrade del Castellammarese e nei vicini Comuni di Alcamo, Balestrate e Calatafimi: da un minimo di 4 hl a un massimo di 8 hl per ogni migliaio di viti, secondo l'altitudine e la distanza dal mare. In una salma di terra dell'antica corda potevano essere collocati da 18 a 20 mila ceppi di viti. Sulla produzione vitivinicola, V. s. MONDINI, Il marsala, Palermo 1900.

Per la notevole estensione del territorio destinato al pascolo (4340 ettari di terreno rampante nel Comune di Castellammare, secondo il catasto provvisorio del 1842/44), la pastorizia occupava una forte aliquota di bestiamari e caprai, molti dei paesi vicini (Cinisi, Piana, Giardinello)263. Si portavano le capre nella mezza montagna d'lnici, a Lisciandrini e Balata di Baida, allo Spàracio e alla Gagliardetta, dove i pastori potevano utilizzare anche i beveratoi, i màrcati e gli attrezzi di mànnara affittati insieme col fondo pascolativo. Non disponiamo dei dati relativi al numero complessivo dei capi allevati, né al profitto che se ne ricavava. Gli atti notarili ci forniscono solo questi elementi approssimativi di giudizio. Chi concedeva il terreno a pascolo era di solito il gabelloto, civile o massaro, che l'aveva preso in fitto dal proprietario insieme con gli altri fondi seminativi, subaffittati poi a coloni terraggieri o metatieri. Le capre tenute a pascolare brade negli ex feudi erano, in media, 150 per ogni gregge; ma questo numero poteva essere superato quando pastori e massari si univano in società di «compascolo» per allevare fino a 500/600 capre264. Non erano però molti gli animali tenuti a sòccida. Tra coloro che affidavano i propri animali ad altri c'erano D. Leonardo Navarra, D. Francesco Borruso, D. Giuseppe e D. Pietro Lombardo (padre e figlio), i borgesi Vincenzo Ferrantelli e i figli Gioacchino e D. Giacomo, Pietro Galante e Gioacchino Ferrantelli di Antonio. Per lo piu si affidava a sòccida bestiame grosso che i caprai s'impegnavano a custodire durante l'inverno265.

263 Eguale importanza aveva avuto l'allevamento di ovini, caprini e bovini nel territorio di Monte S. Giuliano, al quale i pascoli di Castellammare erano appartenuti fino a metà del sec. XIX. Si veda v. ADRAGNA, Aspetti dell'economia ericina del sec. XVIII: la pastorizia, in «Trapani», a. XV (1970),3 e 4 (aprile/giugno). 264 Ad es. contratti di fida del 21 agosto 1845 e 8 settembre 1846 in noto Giuseppe Mangiarotti(AsT, 1117, ff. 817r-822r; 1118, ff. 808r-817r); noto Vito Pari si, 31 agosto 1852 (AST, 1192, ff. 406r-407v); noto Andrea Di Blasi, 28 agosto 1853 (AST, 1009, ff. 223r-226v).
265 Nell'ottobre del '52 Gioacchino Ferrantelli di Vincenzo fitta per un anno la mezza montagna d'lnici a Francesco Lo Jacono, pastore di Piana dei Greci, per farvi pascolare 120 capre. Il fitto è stabilito in 78 ducati a centinaio di capi; ma d'inverno le capre lattare dovranno pascolare con le vacche di Ferrantelli, sotto la custodia del capraio fittavolo (atto in not. Andrea Di Blasi, 10 ottobre 1852: AST, 1007, fI. 437r-440v). Un esempio di socdo di ferro è nello stesso notaio, 9 settembre 1850 (AST, 1001, fI. 609r-616r).

I contratti stipulati negli anni 1845-65 indicano un graduale, quanto sensibile, aumento degli affitti «ad uso di fida»: si passa dalle 15/16 onze a centinaio di capre nel 1845 e '46 alle 24 del '52, alle 25 del '53, alle 27 del '55, alle 29/30 degli anni 1856-58. Dal '60 in poi, sono piu frequenti i contratti a salma (da 3 a 4 onze), che per una media di una quindicina di salme dell'antica corda (50 ettari), quante ne occorrono per far pascolare un gregge di capre, fanno 45/60 onze annue266.

266 D. Procopio Carollo gabella per un anno a pascolo l'ex feudo di Balata ai caprai Antonino Vitale, Giuseppe Chiofalo di Antonino e Giovanni Cascio. Condizioni pattuite: 40 lire e 85 centesimi a salma per 14 salme e 15 tu moli dell'antica corda (in tutto lire 564 e 47 centesimi equivalenti a 45 onze), 25 rotoli di cacio e diritto a far bere le bestie nel beveratoio di Parchi (atto del 15 settembre 1861, ivi, 1035, fI. 213r-219v).

Si deve considerare che la relativa importanza della pastorizia nel territorio non poteva incidere molto nella formazione dei capitali, a fronte di altri interessi speculativi, agrari e marittimi. Il pascolo era sfruttato da una categoria di persone (tra le quali non poche erano forestiere) che rimanevano sempre piu emarginate dai processi in atto di redistribuzione fondiaria, che, di riflesso, tendevano a ridurre le aree pascolative. (In quarant'anni, secondo l'inchiesta Jacini/Damiani, la superficie occupata dal pascolo era qui scesa dal 35,5 al 18,1 per cento). La «borghesia» locale mostrava piuttosto d'interessarsi a forme d'intermediazione meno aleatorie, motivata anche dalla fase di transizione che si era aperta in Sicilia verso l'economia monetaria. Lo sfondo economico sarà, dunque, caratterizzato dalle speculazioni sulla terra (ripartizione della rendita a spese dei contadini coltivatori) e dall'impiego usurario dei capitali.
Né il ristretto ambito del commercio dei prodotti agricoli potrà mai svincolarsi dal monopolio esercitato dai pochi individui che incettavano la produzione locale di olio, sommacco, frumento e mosto. Il sommacco era coltivato un po' ovunque, ma se ne produceva in forti quantitativi solo ad Inici. Il frumento, però, scarseggiava, sicché il profitto dei mercanti locali risultava alto, sia per un certo monopolio da loro detenuto in paese, sia anche per la levitazione che subirono i prezzi del grano, specie nel decennio precedente l'Unità. Castellammare era il solo Comune della provincia di Trapani a non produrre grano in quantità sufficiente ai bisogni della popolazione (che era stimata in base al saldo naturale nati/morti, nel periodo 1853-55, intorno ad undici mila abitanti). Secondo i calcoli delle autorità, il fabbisogno alimentare si aggirava annualmente sulle cinque/sei mila salme, ritenendo che per ogni abitante occorresse almeno mezza salma di frumento per la panificazione e per la confezione della pasta da minestra. A fronte di una produzione locale annua di poco piu di 1800 salme, il rimanente forte quantitativo di grano proveniva quasi interamente da Gibellina. Una statistica elaborata dagli uffici dell'Intendenza di Trapani forniva i seguenti dati relativi alla consistenza frumentaria presso i vari «speculatori per negozio»:
Sac. Ignazio Galante
D. Giacomo Verderame
Giacomo Buccellato
Gioacchino Ferrantelli di Antonio
Gioacchino Ferrantelli di Vincenzo
Vincenzo Ferrantelli
Paolo Gallo
Diversi rivenduglioli

Totale
s. 600
s. 300
s. 200
s. 200
s. 200
s. 200
s. 200
s. 810

s. 2710
Presso i «particolari per consumo» erano collocate altre 3310 salme di cereali267. Dalle periodiche rilevazioni trasmesse dai sindaci all'Intendente, e da questi al Direttore Centrale di Statistica in Palermo, si può riscontrare l'ascesa dei prezzi medi del frumento forte negli anni '50. Da una media di 9/1 O ducati a salma si era avuto, a Castellammare, nel 1853/54 un aumento sino a ducati 16,87, che era il prezzo piu alto praticato in tutta la provincia, dopo Pantelleria268. L'anno seguente il prezzo subi un sensibile ribasso (D. 9,80), per risalire poi di anno in anno fino ai 13/14 ducati del 1859/60, come stimavano in quegli anni le mercuriali. Il rincaro del prezzo del grano aveva fatto diminuire, di riflesso, il gettito del dazio sul macino269: «Se manca la macina, deve principalmente attribuirsi al caro del prezzo de' frumenti, poicché la classe piu misera de' cittadini per nutrirsi si ciba di fave ed altri legumi, non potendo comprare né frumento né pane270, alla mancanza dell'acqua cagionata dall'attuale stagione e dall'usurpo che ne fanno tutti i proprietarj delle terre limitrofe, e sottostanti alle saje che la portano a' mulini»271.

267 «Stato dei frumenti esistenti nella provincia in rapporto ai bisogni della popolazione, sino al venturo raccolto 1856», in AST, FI, Polizia. Affari diversi (1853-55), fase. Frumenti e civaje; nota dell'intendente di Trapani al direttore del real ministero Giuseppe Castro ne in Palermo, 22 novembre 1855.
268 «Prezzi medi de' frumenti nel mese di giugno 1854» (ivi).
269 In forza del RD 27 luglio 1842 «sulla macinazione de' frumenti, orzi e granoni» i contribuenti dovevano pagare 5 tari per ogni cantajo lordo siciliano di cereali (v. «Giornale d'Intendenza», n. 9 del settembre 1842, p. 217). Il malcontento dei popolani per il disservizio nella percezione del dazio sul macino era abbastanza diffuso: «Dovendo sfarinare i cereali ne' Recinti di campagna, che in tal une contrade sono discosti, per non abbandonare i giornalieri lavori, «i coloni» sono costretti mandarvi le mogli, e talune di queste siasi talvolta trattate con modi indecenti da qualche impiegato, il che produce rancori e lamentanze» (cfr. rapporto dell'intendente di Trapani al luogotenente generale in Palermo, 10 febbraio 1851, in ASP, ML, Segreteria, Polizia (1851), b. 685, filza 30). Tra le «piccole soverchierie», il frequente ritardo nell'apertura dei molini al pubblico, «d'onde un lungo aspettare della misera gente, che sovente percorre non breve, né facile via per far molire quel genere che è tutta risorsa della sua sussistenza» (Reservatissima del luogotenente generale Castelcicala agl'intendenti della Sicilia, Palermo 10 giugno 1857, ivi, b. 1504, filza 46). Ma anche la condotta di ispettori e commessi a cavallo preposti alla sorveglianza del macino suscitava ovunque gravi sospetti (AST, FI, Polizia, Affari generali (1857); relazione del Direttore provinciale dei Dazj Diretti di Trapani, 26 settembre 1857).
270 Le cronache del tempo annotavano con una certa frequenza fenomeni di accat­tonaggio per fame. Si veda, per es., il Diario delle cose piu memorabili avvenute in Monte San Giuliano di Salvatore Miceli, ad annum 1853 (Biblioteca Comunale di Erice, voI. III, c. 6).
271 Cfr. nota del sindaco di Castellammare, 31 maggio 1859, in AST, FI, Polizia, Corrispondenza (1859-60).

Prevedendo per l'inverno del '59-'60 una certa penuria di grano, il governo aveva autorizzato i municipi a contrarre mutui per acquistarne al fine di costituire un fondo di riserva, ma esortandoli al tempo stesso a non accrescere il disavanzo, già grave, dei bilanci comunali. Rivendendo il frumento ai cittadini, si dovevano perciò ricuperare i costi e le spese affrontate per la compra. Nel caso di un improbabile (ma possibile) ribasso del prezzo sul mer­cato agricolo, si dovevano costringere i panificatori a comprare il grano del Comune «a prezzo di costo reale primitivo, con le spese»272.
Anche il mosto procurava un largo margine di profitto agl'incet­tatori locali, che lavoravano per conto di due grosse ditte marsalesi: quelle degli Ingham/Whitaker e di Vincenzo Florio273. Dai Copia lettere conservati nell'archivio Ingham di Marsala conosciamo i nomi dei «commessionari» che operavano sulla piazza di Castellammare, tra i quali Antonino Costamante, Giuseppe Lombardo, Pietro e Vito Buccellato, Mario Zangara e l'abate Ignazio Galante. Quest'ultimo cominciò a comprare grosse partite di mosto fin dal 1841, divenendo ben presto il maggiore acquirente della produzione locale, che incetta va attraverso contratti di «società» e obbligazioni che ricalcavano, nella forma e nei tempi dell'acquisto, le condizioni praticate dagli stessi Ingham, mediante anticipazioni a coltivatori e proprietari sulla meta che sarebbe stata imposta, durante la vendemmia, dalla Decuria per le varie contrade274.

272 Nota dell'intendente di Trapani ai sindaci della Valle (ivi).
273 Per un'altra ditta marsalese, quella dei Woodhouse, «rappresentante e amministratore locale» era Giacomo Donnet Store, il quale si giovava della intermediazione di D. Natale Asaro (atto in noto Vito Mattarella, 30 maggio 1869: ANT, 4023, ff. 181r-186r).
274 Il primo contratto per «obbligazione di mosto» stipulato dal sac. Ignazio Galante è del 7 febbraio 1841 (not. Gaetano Maria Di Blasi: AST, 1055, ff. 83r-91r). Da quest'anno in poi i brevetti per acquisto di mosto registrano, per Galante, anticipazioni di D. 165/180 al 7% su partite che oscillano da 20 a 40 botti, ciascuna di cinque salme dell'abolita misura locale. Il costo per la manifattura di una botte di castagno era di 5 ducati (atto dell'11 settembre 1852 in noto Andrea Di Blasi: AST, 1007, ff. 337r-349v).

L'impronta speculativa è ancora piu marcata nel tipo di «società» che si stabilisce per la vinificazione del mosto, tra chi può dare soltanto la propria «industria» (cioè la propria forza-lavoro) e chi appresta il denaro necessario ad acquistare il mosto. Capitale ampiamente plusvalutato e garantito da un rapporto economico quanto mai iugulatorio. Filippo Calabrò «conferisce» alla società «la di lui industria, le botti ed il magazzino ove dovrà conservarsi il mosto» che acquisterà. Galante gli presta 300 ducati; ma percepirà «la metà dell'aumento tra la misura del mosto e quella in vino, ascendente cotale metà a barile uno e quartucci venti per ogni botte» dell'abolita misura. Eventuali perdite sarebbero state tutte a carico di Calabrò, il quale dovrà restituire dopo un anno i 300 ducati avuti in prestito275.

275 Atto di società del 27 aprile 1860, ivi (AST, 1031, ff. 835r-838r).

La rendita usuraria che si pratica in questo periodo da un ristretto gruppo di speculatori non è estranea nemmeno al settore marinaro (peschereccio e commerciale), il cui contributo alla formazione del reddito globale del paese non è certo marginale. È però abbastanza significativo che sia piuttosto tenue, o non esista affatto, circuito d'interessi comuni tra le attività marinare e quelle agrarie. Sono pochissimi i «villici» impiegati nelle tonnare per i lavori stagionali, ovvero occupati, sia pure occasionalmente, nella piccola pesca. La progressi va «specializzazione» degli addetti al settore marinaro è, probabilmente, il risultato di un lungo processo enuc1eativo delle professionalità, che spiega anche la separazione, di costume e di mentalità, tra il ceto marinaro e quello agrario, su cui le stesse fonti notarili forniscono un'esauriente documentazione (riti nuziali e devozionali, perfino distinte sepolture in un'area cimiteriale destinata alla «marina» di Castellammare)276. La compresenza in tale settore economico, insieme con raisi e padroni di barca, di qualche civile o sacerdote che trae qualità borghese dal suo pieno innesto nell'ambiente agrario deriva da occasionali tangenze a sostegno d'interessi usurari.

276 Mi sembra importante, per es., che nel marzo del '25 venticinque marinai di Castellammare abbiano preso l'iniziativa di costituire una società onde «somministrare al ceto tutto di questa marina i medicamenti necessarj» a curare le malattie, dando incarico per l'acquisto dei farmaci a D. Francesco Barraco, aromatario. «Il prezzo di tali medica­menti resta tra le parti sudette comparenti convenuto che valutar si dovrà giusta la tariffa aromataria cosi detta di Gervasi». Il medico del ceto dei marinai era il sacerdote Dr. Tommaso Bocina (atto del 19 marzo 1825 in not. Giuseppe Mangiarotti: AST, 1096, ff. 63r-69v).

Diamo ora uno sguardo alle attività di pesca e di cabotaggio. Gli addetti alla pesca nelle due tonnare di Castellammare e Scopello, e nelle tonnarelle di Guzzo e del Secco, calate ogni anno da maggio a giugno (e a luglio per la pesca di ritorno), superavano di poco le cento unità. La chiurma era distribuita tra marinai, faratici, palascarmieri e muciari, oltre ai custodi e ai magazzinieri. Un raisi guidava le operazioni della mattanza, e poteva essere coadiuvato da altri raisi. Si trattava di personale di provata esperienza e abilità, che per un certo tempo fu reclutato fuori del paese, in luoghi che avevano piu antiche tradizioni nel settore. Per la pesca del '34 nella tonnara del Guzzo, quasi tutti i 23 faratici necessari alla mattanza erano stati ingaggiati a Palermo277; ma ancora per molti anni almeno un/quarto dei tonna­roti, tra i quali il raisi Lorenzo Spadaro, proveniva da quella città.

277 Ivi, 15 agosto 1833 (AST, 1104, ff. 205r-212v). La ciurma dei tonnaroti compren­deva in ciascuna tonnara, per ogni stagione di pesca, da trenta a quaranta unità, oltre agli addetti ai lavori a terra. Un contratto/tipo del 22 aprile 1851 (not. Vito Parisi: AST, 1191, ff. 268r-275r) stabiliva che la ciurma per la pesca di quell'anno nelle tonnare di Castellam­mare e Scopello doveva essere cosi composta: 2 raisi, Il capiguardia, 21 marinai, 9 muciari, 7 palascarmieri e 34 faratici, per un totale di 84 unità. La ciurma aveva diritto alle seguenti «percezioni»: «Ne' primi dieci giorni due pani di once quattordici di cotto, e due quartucci di vino al giorno per ciascuno oltre al companatico nel cosiddetto impiano secondo l'uso. Ne' giorni successivi un pane ed un quartuccio e mezzo di vino al giorno per ogni persona. Sulla pesca delle alalunghe e pesci spade avrà il venti per cento sul venduto di netto, potendo delle alalunghe prendersi il venti per cento in genere. Sulla pesca de' bisi e palamiti il trentatré ed un terzo per cento o in natura o pel venduto in fresco di netto. Sulla pesca degli altri pesci minuti il cinquanta per cento. Sulla pesca de' tonni competerà a ciascun marinajo un barile di netto per ogni quattrocento tonni pescati, barili quattro ne prenderà sullo stesso numero de' tonni il corpo de' faratici compresivi i muciari e palascarmieri, oltre a tutti i varili meno il nove per cento, ed oltre alla terza parte delle teste meno il cinque per cento. I marinaj avranno inoltre venti due paja di lattumi per ogni cento tonni di pesca». Anche le uova di tonno e i cosiddetti inchiumi di bisi e palamiti salati erano divisi tra tonnaroti e proprietari secondo «ragioni e porzioni» piuttosto complesse. Il contratto, poi, stabiliva quanto competeva ai due raisi: «Al Signor Lorenzo Spadaro, che sarà il raisi in capo delle due tonnare, competeranno i seguenti diritti: Per mangia tari tre al giorno dal di in cui finirà l'impiano fino all'ultimo giorno in cui si entrerà la roba, e tari cinque al giorno durante il tempo dell'impiano medesimo. Sulle sorre oncia una e tari dieci per ogni cento tonni. Su' varili il cinque per cento. Sulle reste il cinque per cento. Al raisi delle proprietà di Scopello Vincenzo Oliva competeranno tari due al giorno per diritti di mangia dal di in cui finirà l'impiano fino all'entrata della roba in baglio, e tari quattro al giorno ne' dieci giorni dell'impiano. A' sotto-raisi per mangia tari uno e grana cinque al giorno dopo l'impiano, e tari due e grana dieci al giorno durante lo stesso. Stante la detta percezione di mangia non competerà spesa giornaliera di pane e vino agli anzidetti raisi e sotto-raisi». «A titolo d'ingaggio coll'obbligo di servire in tonnara» erano corrisposti al raisi Spadaro due once, al raisi Oliva un'oncia e sei tari, ai capiguardia due once e 12 tari, ai due maestri due once e 15 tari, a tutti gli altri un'oncia a testa, per una somma complessiva di 84 once e tre tari.

Se fu avviata con successo la formazione di una maestranza locale tra i tonnaroti (non esclusa la specialissima categoria dei raisi, tra i quali si distinsero presto Vincenzo Oliva e Baldassare D'Angelo), si verificò, invece, un processo inverso nella gestione delle tonnare. Ai piccoli affittuari locali che si associavano in quattro o cinque per volta seguirono negli anni '57-'59 D. Antonino Tortorici e, dal 1860 in poi, D. Salvatore Cricchio, entrambi forestieri, i quali presero in fitto tutte e quattro le tonnare di Castellammare278. In seguito subentrò alla loro gestione quella di Ignazio Florio, i cui interessi in questo settore, come in quello dell'incetta del mosto per la produzione del marsala, saranno tutelati da Ignazio Galante279.

278 I contratti per l'ingaggio dei tonnaroti nelle tonnare di Castellammare, Scopello e Secco, e nella tonnarella del Guzzo e Secco, affittate da D. Antonino Tortorici e D. Salvatore Cricchio, si trovano in noto Vito Parisi, I I maggio 1857 (AST, 1197, ff. 17 Ir-I 73r); not. Gaetano Mangiarotti, 7 marzo 1858 (ANT, 2323, ff. 163r-170v), 19 febbraio 1860 (ANT, 2325, ff. 237r-248r), IO febbraio e 22 dicembre 1861 (ANT, 2326, ff. 79r-86v, 629r-636v); e noto Vito Mattarella, 23 marzo 1862 (ANT, 4009, ff. 256r-267v).
279 Ignazio Florio avrebbe acquistato nel 1883 le tonnare di Scopelio e del Guzzo, che erano appartenute fino al 1767 ai Gesuiti (v. dati sull'amministrazione della tonnara di Scopello nel sec. XVIII in o. CANCILA, Aspetti di un mercato siciliano. Trapani nei secoli XVI/-X/X), Caltanissetta-Roma 1972, pp. 152-55). Soppresso l'ordine gesuitico, erano state date in fitto dal monastero del SS. Rosario sotto titolo di S. Andrea, che vi aveva una terza parte, e dal demanio dello Stato ogni quattro anni. L'ammontare del fitto era, dal 1852, di lire 1912,50 per anno. La rendita netta calcolata in catasto era di lire 2125 (v. Catasto provvisorio, cit., voI. 3, art. 729). Con la soppressione del monastero di S. Rosalia in Palermo, l'altra tonnara situata sulla costa tirrenica, quella del Secco, sarebbe stata invece acquistata il 25 febbraio 1872 da Vito Foderà (v. P. PAVESI, Relazione alla Commissione Reale per le tonnare, in MINISTERO DI AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, Atti della Commissione Reale per le tonnare, Roma 1889).

L'intraprendente sacerdote aveva una certa esperienza in materia perché in passato aveva preso in fitto con altri soci la tonnara grande di Castellammare280. Le tonnare di Scopello e del Secco erano state affittate, dal '51 al '55, a D. Francesco Albertini, che, però, non si sa per quali gravi motivi decise improvvisamente di abbandonare ogni attività commerciale «per non voler piu dimorare in questa Comune»281. Insieme con Albertini gestivano quelle tonnare D. Francesco Borruso, mastro Giuseppe Foderà ed altri.

280 Galante si associò per tre anni (dal '54 al '56) con Baldassare Vasile, Leonardo Borruso, Vito Buccellato, Paolo Gallo e D. Giovanni Filippo Gandolfo, barone di S. Giuseppe (not. Gaetano Mangiarotti, IO aprile 1854: ANT, 2319, ff. 477r-483v; e Andrea Di Blasi, 23 marzo 1856: AST, 1018, ff. 440r-444v).
281 Atto di rinunzia di beni ereditarj all'agenzia giudiziaria (brevetto del 20 luglio 1855 in noto Vito Parisi). I contratti d'ingaggio stipulati da D. Francesco Albertini e dai soci, ivi, 22 aprile 1851 (AST, 1191, ff. 268r-275v), not. Andrea Di Blasi, 25 dicembre 1851 (AST, 1005, ff. 1093r-I098v), 2 gennaio 1853 (AST, 1008, ff. 19r-22v), 3 gennaio 1854 (AST, 1011, ff. 29r-34v).

Non ci è possibile calcolare il profitto ricavato annualmente dalla pesca del tonno, che tuttavia doveva essere piuttosto elevato282. Il numero dei tonni pescati non era mai inferiore a 2000 capi, e in certe annate, come si ricorda, fu molto superiore. Ciò che è importante rilevare è che il settore della pesca, e quello del cabotaggio (che portò la marineria di Castellammare a livelli di prestigio e di forte attivismo nel traffico mediterraneo), costituirono già in questo periodo un incentivo alla formazione di cospicui capitali, per lo piu reimpiegati nell'armamento navale e in attività preindustriali, come la trasformazione dei prodotti ittici. Risorse del mare e acquisti della terra formavano, cosi, entro la stessa area d'interessi paesani, due diversi modi di affrontare le fatiche del quotidiano: l'uno spronato dal rischio e dall'avventura a trasferire sulle rotte marittime (verso Gaeta o Trieste, e verso le Americhe) le possibilità del guadagno, attraverso peculiari forme di compartecipazione agli utili della pesca e del cabotaggio, e sulla spinta di forti correnti migratorie; l'altro chiuso in una sorta di ritualità, mistica e spietata insieme, devota alla roba e ai suoi processi di accumulo e di sfruttamento.

282 Conosciamo i prezzi delle varie parti del tonno pagati negli anni '50 dal padrone ai suoi dipendenti: per le teste (ognuna un tari e 17 grani), i varili (un tari e 5 grani), i lattumi (6 tari a paio) e le uova (da 8 a 18 tari a paio). I prezzi sui mercati di Castellammare e di Palermo, dove si collocava il pescato, erano però superiori. Per una valutazione «esemplare» dei conti di una tonnara, v. lo studio di R. LENTINI, Economia e storia delle tonnare di Sicilia, in v. CONSOLO, La pesca del tonno in Sicilia, Palermo 1986, pp. 31-56. Una fonte preziosa per esaminare gli aspetti finanziari del settore è la serie delle Verifiche tonnare che si conserva in AST, Secrezie, bb. 475-476.

Ma la pur volitiva «marina» di Castellammare non poté sfuggire egualmente ai pesi della rendita usuraria che si esercitava sia attraverso i prestiti a cambio marittimo, praticati esclusivamente da civili/pro­prietari e da sacerdoti, sia mediante le quote di compartecipazione (carati) nella proprietà delle imbarcazioni (bovi, sciabecchi e tartane) che per lo piu derivavano agli stessi civili da atti di risarcimento nei confronti di debitori insolventi. Dall'esame dei brevetti consegnati, dal '36 in poi, nei registri notarili si conoscono i nomi dei capitalisti/mutuanti e l'ammontare degl'interessi. I nomi: D. Giuseppe e D. Pietro Lombardo (padre e figlio), il sac. D. Michele e D. Leonardo Palermo, Vincenzo Ferrantelli e i suoi figli, Francesco Maria Verderame, l'arciprete Girolamo Galante, D. Saverio Scandariato, il notaio Andrea Di Blasi, il borgese Antonino Ferrantelli di Antonio e il sac. Ignazio Galante (dopo il '60 anche il sac. Antonino Zangara e D. Nicolò D'Anna). Per un periodo di tre/quattro mesi, che era di solito il tempo concesso per il prestito, l'interesse variava di poco: due onze e 6 tari al mese per ogni cento onze, oppure il 24% all'anno. Per qualche tempo, dopo l'Unità, esso scese al 18%, segno che una certa difficoltà era intervenuta a frenare il commercio. Spesso, però, i debiti non potevano essere saldati. Cosi i creditori entravano in possesso di alcuni carati della barca su cui avevano «tragittato» qualche centinaio di onze. Tra costoro il sacerdote Galante fu certamente il piu sollecito e rapace, tanto da poter costituire a suo nome - cominciando, nel '58, col bovo Napoleone, di 45 tonnellate di stazza283 - una piccola tlottiglia di navi da pesca e da trasporto.

283 Not. Andrea Di Blasi, 5 marzo 1858 (AST, 1024, ff. 587r-588v). Galante, che era proprietario di «parti» e carati in alcuni natanti, acquistò pure uno sciabecco (nel '64, per 1275 lire), il cutter San Giovanni (28 marzo '74) e la tartana Ermelinda, di 16 tonnellate, vendutagli da Francesco Asaro per 1300 lire (16 novembre '74).

Quindi le fonti della rendita possono essere agevolmente individuate. Da una parte quelle che derivavano nei fondi agricoli da gabelle e subgabelle, sotto forma di terraggerie e affittanze semplici; dall'altra le mille strozzature della intermediazione finanziaria, praticata in modo particolare attraverso l'usura, che era l'attività piu lucrosa cui si dedicava un ristretto gruppo di speculatori. A volte germinava dal capitale feneratizio una piu consistente e differenziata attività commerciale che solo con molta approssimazione può collocarsi nel novero dei rendimenti borghesi. Questo tipo di borghesia degli affari ha sempre l'occhio rivolto alla terra, alla possibilità di poter conferire al proprio status un «valore» perenne assicurandosi la rendita fondiaria non per intrapresa capitalistica, ma per transizione di mentalità e regole di rozzo mercantilismo intermediario.
Ignazio Galante (1817-1881) ne impersona il modello esemplificativo con le sue attività commerciali che interessano un po' tutti i settori economici, dal traffico frumentario284 a quello dell'incetta del mosto, dai prestiti a cambio marittimo al carataggio nelle navi. Seguiamo, intanto, l'atto di risarcimento di un mutuo non soddisfatto nei tempi stabiliti: che è uno dei tanti con cui la «borghesia» locale acquisisce patrimonio immobiliare; e ciò avviene, occorre precisare, nell'ambito dello stesso ceto civile, o del patriziato di provincia, in crisi di liquidità, quasi mai, naturalmente, a spese dei contadini poveri che nulla hanno da garantire verso i creditori (ma i Ferrantelli, a quel tempo, prestavano denaro a piccoli borgesi). Nel maggio del '60, nei giorni di avvio dell'impresa garibaldina, Galante presta trecento ducati a D. Michelangelo Lombardo che lo garantisce con ipoteca sul suo fondo rustico delle Petrazze. Il tasso è il solito (7% ad anno). Poiché «nel termine prefisso al pagamento delle cento onze» Lombardo non ha «mezzi pronti di poter adempire» all'impegno assunto, si conviene di procedere alla vendita del fondo ipotecato. Galante pagherà la differenza del suo valore, stimato dall'agronomo D. Andrea Fundarò in 612 onze. Il nuovo acquirente non perde tempo ad affrancare il fondo dall'ipoteca e a trasformare il rustico che vi si trova in una casina di campagna285. L'anno dopo affitta il terreno a tre contadini per quattro anni, con annuo est aglio di 55 onze. L'interesse che cosi ne ricava (stante al valore del fondo) è del 9%; ma tra i patti sottoscritti c'è l'obbligo per gli affittuari di vendere a Galante tutto il sommacco che essi ricaveranno dalle Petrazze286.

284 Galante figura anche tra i pili grossi commercianti di sommacco della zona, come si rileva da numerosi atti in not. Andrea Di Blasi (piu attivo il suo commercio nel periodo compreso fra il 13 aprile 1858 e il 17 novembre 1861).
285 Ivi, 12 maggio 1860 (AST, 1031, fI. 887r-900v), 21 ottobre, 9 novembre e 8 dicembre 1860 (AST, 1032, fI. 113r-119r, 319r-323v, 62Ir-627v).
286 Ivi, 17 novembre 1861 (AST, 1035, fI. 733r-740r).

Pili lucrosa l'attività di compravendita del mosto. Galante l'ha iniziata nel febbraio del' 41, quando ha smesso da poco l'abito chieri­cale per indossare la pianeta. Non abbandonerà mai questo tipo d'affari, trattando grosse partite di mosto con sensali e piccoli borgesi. Dapprima ne incetta per conto di Benjamin Ingham; poi, quando questi muore, nel '61, e gli succedono i Whitaker a Marsala, passa ai Florio, di cui curerà anche gl'interessi nelle tonnare di Castellammare e Scopello che, nel frattempo, essi hanno preso in fitto287.
I contratti per «obbligazione di mosto» da lui stipulati ricalcano, in genere, le preoccupazioni già codificate nelle celebri Istruzioni di Ingham per una resa ottimale del prodotto: modi e tempi per l'insolforazione delle viti, periodi della vendemmia e fermentazione del mosto per almeno otto giorni288. Le anticipazioni, garantite da ipoteche, sono concesse a coltivatori e proprietari dei vigneti con un interesse del 7%; ma il prezzo corrisposto a vendemmia conclusa è calcolato sulla base delle mete ufficiali; non è quindi lasciato all'arbitrio del compratore, come usava Ingham, che lo fissava di solito l'11 del mese di novembre successivo alla vendemmia289. Consentivano all'imprenditore inglese di sfruttare la libera contrattazione di mercato una piu larga disponibilità finanziaria e una mentalità capitalistica che gl'in­cettatori locali non potevano avere.
Il luogo dove il sacerdote Galante raccoglieva il mosto era il baglio di Molinello, nel fondo che egli aveva comprato, nel '52, dal fratello per 658 onze e 8 tari290; ma già nel '43 D. Giuseppe Galante gli aveva venduto la «medietà» delle 6435 vigne che vi erano collocate291.

287 Dai copialettere della ditta Ingham/Whitaker, conservati a Marsala, si evince che il rapporto commerciale che legava Galante agl'imprenditori inglesi ebbe termine nel '63. Da quell'anno in poi egli operò per conto di Vincenzo e Ignazio Aorio, come appare dalle obbligazioni di mosto e dalle «docazioni d'opera» per l'ingaggio dei tonnaroti nelle tonnare locali (l'ultima delle quali registrata in data 13 febbraio 1881 presso il notaio Vito Matta­rella, poco prima della morte di Galante) fatte come «commessionario» dei Aorio.
288 B. INGHAM, Brevi istruzioni per la vendemmia all'oggetto di migliorare la qualità dei vini (Palermo, 15.9.1837) in Benjamin lngham nell'economia siciliana dell'Ottocento, Marsala 1985, pp. 57-59. Sull'attività degl'imprenditori inglesi nell'isola, v. I. D. NEU, An English Businessman en Sicily. 1806-1861, in «The Business History Review», vol. XXXI (1957), n. 4, pp. 351-74; nonché il volume biografico dedicato agli Ingham/Whitaker da R. TREVELYAN, Princes under the Volcano (London 1972; trad. it. Milano 1977). Si veda pure in ASP, Direzione Centrale di Statistica, Manifatture (1854), b. 147.
289 Per es. atto del 7 marzo 1858 in not. Andrea Di Blasi (AST, 1024, ff. 609r-61 Ov).
Il confronto è stato fatto con le obbligazioni di mosto degli anni 1853-55 contratte presso il noto Vincenzo Angileri di Marsala sul modello predisposto a tale scopo dalla ditta Ingham Stephens e compagni (v. S. COSTANZA, Il baglio lngham/Whitaker di Marsala. Un'ipotesi di ricerca, in Benjamin lngham nella Sicilia dell'Ottocento, pp. 87-93).
290 Not. Vito Parisi, 20 maggio 1852 (AST, 1192, ff. 248r-261 v). L'estensione del terreno era di ettari 2,350.
291 Not. Gaetano Maria Di Blasi, 26 aprile 1843 (AST, 1057, ff. 635r-639r).

Nel '65 aveva speso 7650 lire per costruire il baglio, i cui lavori furono appaltati da mastro Camillo Buffa292.
Non sappiamo quali coperture mafiose abbiano consentito a Ignazio Galante di sviluppare i suoi negozi. Dopo l'Unità, egli era entrato a far parte della ristretta cerchia degli amministratori comunali e, come si è visto, era stato tra gli speculatori d'asta e i piu grossi mediatori nell'acquisto dei terreni ecclesiastici ed ex demaniali. In pochi anni aveva acquisito al suo patrimonio fondiario 370 ettari di terra, in parte seminatoria e rampante, ma in parte lussureggiante per giardini e vigneti di prima classe. Però qualcosa era nel frattempo mutata nel mondo sommerso delle spinte mafiose e delle alleanze dei «guardaspalle» col potere dei cutrara. Nel febbraio del '69 il baglio di Molinello fu distrutto da un incendio doloso, che lo stesso Galante sospettò potesse farsi risalire al clan dei Buffa, la cui condotta «era oltremodo sospetta per appartenersi alla mafia e avere relazioni coi camorristi e malandrini del paese»293. «Per effetto delle mie operazioni commerciali - dichiarò pure - nell'epoca della vendemmia onde fare affluire in me concorrenza dei venditori di vino mosto, stante il bisogno di fame estesi acquisti, fui obligato a far rialzare il prezzo di detto articolo nel mercato di questa Comune, e nelle contrade limitrofe di Alcamo, e poi quando fu il momento di vendere il vino, per effetto dello accordo delle case commerciali Ingham, Cloos e Coddaos (sic), i quali assegnarono un prezzo basso, fui obligato qual commissionario della casa Florio a far compra dei vini al prezzo ordinatomi»294. È quindi probabile che nel clima creato dalla piu forte concorrenza commerciale e dal nuovo mercato fondiario non fosse piu possibile regolare gli affari coi sistemi patemalistici e clientelari di una volta. Giudicato trent'anni prima da un funzionario borbonico come un vero «genio malefico» del calcolo politico e dell'affarismo («la virtu, la religione, la legge, il buon costume sono per l'abate Galante oggetti tutti di umana convenzione, e quindi variabili a seconda i luoghi, i tempi ed i bisogni dell'uomo» )295, il sacerdote, morendo, lasciava i suoi beni a due nipoti296, figli del fratello Giuseppe, emigrato negli Stati Uniti, dopo aver superato prove difficili d'«interdizione penale» e dissesti finanziari.

292 Not. Gaetano Mangiarotti, lO aprile 1865 (ANT, 2330, ff. 147r-152r).
293 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 4, fase. 86; interrogatorio Galante del 24 febbraio 1869.
294 Cfr. G. MAURICI, Ragioni pei signori Salvatore Mancuso Comandante de' militi a cavallo di Alcamo, Giuseppe Fundarò e consorti contro l'Abate Ignazio Galante di Castellam­mare, Trapani 1869, p. 9.
295 AST, FI, Polizia, Corrispondenza (1849-53), fase. Castellammare, doc. 7.
296 Testamento di Ignazio Galante in noto Mariano Lombardo, 26 aprile 1879 (ANT, 3418, fI. 303r-320r), con cui si istituivano eredi universali, in parti eguali, i nipoti Ignazio e Antonina. Fu preceduto da altri atti testamentari, poi revocati.

Ignazio Galante aveva fatto da padre alla figlia di costui, Desiderata, sposandola bene297. I nipoti, invece, uno per volta, avevano raggiunto il loro padre in America, stanziandovi, probabilmente, uno dei primi nuclei di Castellammaresi298. Il nome imposto ad uno di essi, Washington, richiamava, del resto, al forte legame che la famiglia Galante aveva stabilito, fin dagli anni '50, con la terra e il mito dell' America. Pochi altri avventurosi li seguiranno, in gran parte provenienti dall'ambiente dei traffici marittimi; ben distinti, perciò, da quanti accorreranno nel nuovo mondo spinti dall'onda piu lunga e tumultuosa dell'emigrazione contadina del primo '900.

297 Desiderata Galante sposò il figlio di D. Giuseppe Marcantonio Occhipinti (not. Andrea Di Blasi, 22 novembre 1855: AST, 1017, fI. 957r-966v).
298 Atti di notorietà per Antonino e Nicolò Galante che vanno a raggiungere il loro padre D. Giuseppe negli Stati Uniti d'America (brevetti del 20 maggio 1853 e del 27 ottobre 1854, ivi).

Però la morte dell'abate Galante avrebbe innescato rancori e odio inestinguibile tra gli eredi del suo pingue patrimonio. Dal primo testamento, consegnato agli atti del notaio Andrea Di Blasi (4 maggio 1859), e revocato due anni dopo299, a quello olografo, vergato con l'affanno della prossima fine, e pubblicato il 27 agosto 1881300, le sue «ultime volontà» (mentre cresceva la roba) erano state sottoposte all'altalenare di lusinghe e passioni, sentimenti e risentimenti dei numerosi parenti. Una scommessa con la fortuna, quella che costoro avevano lungamente tentata, che, alla fine, avrebbe vinto la sola Antonina contro i suoi fratelli. L'anima a Dio Galante l'aveva voluta offrire, nel modo piu tangibile, col mezzo di un lascito in denaro a beneficio delle strutture della chiesetta di Scopello, senza il ricorso al solito refrigerio delle messe perpetue. Nel segno di quelle pietre - nel baglio che domina la solare suggestione del golfo - egli pensava, forse, di poter durare piu a lungo dei riti a suffragio e degl'incensi odorosi.

299 [vi, 26 febbraio 1861 (AST, 1033, fI. 523r-524r).
300 Il testamento olografo del sacerdote Galante, che revocava le precedenti dispo­sizioni per dotare di tutti i beni immobili la sola Antonina, in not. Mariano Lombardo, 27 agosto 1881 (ANT, 3419, fI. 369r-376v).

La spinta speculativa, ma grossolana e rapace, cioè l'avidità di guadagno, e il disprezzo per l'etica comune degli atti di giustizia che potessero pregiudicare il proprio interesse, agivano sulla mentalità del «civile» come un'imperiosa esigenza di vita, resa necessaria dall'altrui trasgressione, reale o supposta che fosse. Il perenne conflitto tra doveri verso la collettività, misconosciuti da una secolare e atavica indifferenza etico-sociale, e il calcolo di private ambizioni e fortune era ciò che caratterizzava il senso delle relazioni interpersonali, determinate dagli atti d'imperio, o dal compromesso piu spregiudicato, a danno del pubblico interesse. Ciascuno, nella sua sfera d'azione, credeva di poter­si comportare come un piccolo barone. Il prestigio e la forza raggiunti nella scala sociale giustificavano, per sé e contro gli altri, l'usurpazione del potere, surrogando con la prepotenza e l'arbitrio la carenza di legittimo consenso e autorità, che in ogni caso il nuovo diritto statuale affidava a regole di convivenza civile ritenute remote e accidentali.
Una quasi secolare contesa per l'attivazione dell'acquedotto co­munale può rivelarci il senso conflittualistico della vita paesana, e farci comprendere anche quali radici avesse il rancore della gente contro il ceto civile. Riassumiamone le alterne fasi, che i documenti d'archivio ci consentono solo in parte di ricostruire. «Ero assordato dal pubblico clamore, tutti mi gridavano innanzi acqua. Diecimila abitanti che dovevano abbeverarsi, cuocere il cibo, e nettezza con cinque penne d'acqua. Imprecazioni, brighe a causa de' disordini familiari: una lurida fonte ove occorreva tenervi una guardia, giacché una libbra d'acqua era una quistione. La popolazione mi rinfacciava che V.E. aveva mandato per giustizia, ma ch'io non ne faceva, che l'acqua vi era ed io non ne prendevo contezza. Vero il fatto, il torto era mio. L'acqua esisteva, la Comune aveva spesa 9000 ducati per portarla al paese, una mano rapace e la inerzia amministrativa faceva commettere la piu turpe delle frodi a carico di una popolazione, dell'ordine pubblico, della giustizia e decorosità del Governo e suo rappresentante. A due miglia circa dal paese al luogo detto Pozzillo sin dal i 790 erasi costruito un condotto reale che riunendo in una cinta varie sorgive, e che per condotti diversi si portavano in Castellammare circa 30 penne d'acqua potabile, e per tanto effettuirsi la Comune avea speso D.ti 9000». È l'esordio di uno dei rapporti che il comandante della colonna mobile, capitano Almeida, aveva inviato nel settembre del '49 al principe di Satriano in Palermo. La notizia relativa alla manifestazione popolare di protesta era accompagnata da alcuni cenni retrospettivi sulla usurpazione compiuta dalla famiglia Marcantonio a danno dell'acquedotto comunale: «Il condotto reale passava per mezzo al fondo della famiglia Marcantonio che con impudenza senza pari ostruisce il condotto al di là della di lui casa di campagna, eseguisce un taglio nella parte superio­re del condotto, e si serve delle acque per inaffiamento de' di lui giardini, formando vi in una delle bocche di luce un pozzo, e del quale vendeva per un grano a coppi della quartara, e se ne aveva formata ancora un oggetto di specolazione, in modo che gli abitanti dovevano pagare l'animale da basto e l'acqua se non volevano perire. Nel 1826 un Sindaco pietoso pensava per un momento far rimettere la cosa nel punto in cui conveniva ed appena apriva bocca che una sentenza fulminava di distruggersi subito la piu menoma ombra di usurpazione, e rendersi libere nel corso le acque a questo Comune tutte sue, tutte proprie, e che per abbeverarsi la popolazione erasi speso D.ti 9000». Almeida nominava una commissione incaricata di esaminare la que­stione e ripristinare i diritti del Comune. Dopo il sopralluogo dei commissari, che avevano accertato l'esistenza delle manomissioni e l'usurpo, le autorità municipali fecero «abbattere tutti gli ostacoli che impedivano il libero corso delle acque» predisponendo i lavori neces­sari al rifacimento dell'acquedotto301.

301 Cfr. il rapporto del comandante della colonna mobile in Castellammare al principe di Satriano, N. 430 del 23 settembre 1849, in AST, FI, Polizia, Corrispondenza (1849-53), fase. Castellammare, doc. 6. In un altro rapporto inviato allo stesso Satriano il 13 settembre s.a., il capitano Almeida lo aveva informato delle condizioni igieniche del paese, dove non vi erano «condotte per acque sporche», né «fogne per le immondizie nelle case, e tutto si butta in mezzo la pubblica via, ove si tenevano de' gran depositi d'immon­dizie d'ogni genere». Aveva perciò ordinato agii abitanti di nettare il paese, e «buttare tutto a mare» (ivi, N. 373). Ancora mezzo secolo dopo le condizioni igieniche del Comune non sarebbero gran che mutate (v. in AST, Pref, Gab., Inchieste amministrative (1902-1904), b. 9, fasc. 2).

Sei anni dopo una «transazione» tra D. Giuseppe Marcantonio Occhipinti e il sindaco di Castellammare, D. Giovanni Plaja, riapriva la vertenza, rimettendo in giuoco il proprietario del fondo perché gli si riconosceva il danno già sofferto dalle sue coltivazioni a causa della costruzione del doccionato. L'atto notarile che registra la transazione contiene anche la cronistoria della lunga controversia. Per collocare i catusi del doccionato si dovettero «sbarbicare» vigne e alberi nel terreno di Marcantonio, il quale pretese, e ottenne, dal Comune un indennizzo. «Però siccome questi danni ascendevano alla somma di onze cinquecento302, somma che la Università era impossibilitata a sborsare, cosi i Giurati di questa Comune dietro di avere indotto il Marcantonio ad una bonaria conciliazione», s'impegnarono a pagare, entro l'anno, allo stesso Marcantonio onze 67 e grana 4 a compenso «delle vigne e degli alberi svelti e della loro fruttificazione perduta» e a corrispondergli «in ogni anno fino in infinito ed in perpetuo l'annuo canone di tari diciotto, grana nove e piccoli due per l'equivalente delle terre sulle quali era stato costruito l'acquidotto». Inoltre si concedeva al proprietario del fondo una certa quantità di acqua («quantità che non potea eccedere le due penne») per innaffiare i suoi giardini (atto del lO agosto 1790 in noto Gaspare Michele Calcara).

302 Il calcolo dei danni presunti che si denunziavano era manifestamente esagerato. Del resto, nella minuta dell'atto notarile onze risulta soprascritto su un precedente ducati.

Non ostante le gravose condizioni imposte al Comune, la famiglia Marcantonio non mancava di usurpare «l'acqua pubblica del corso del beveratojo, abbassando un doccionato che da un trapezzo di acquidotto esistente dentro il luogo degli Eredi del fu Don Giuseppe Marcan­tonio e Morana portava parte dell'acqua di detto acquidotto nel giardino di esso luogo, ed apponendo dentro il medesimo acquidotto un argine che impedisce all'acqua di fare il suo corso al basso per avviarsi interamente nel detto giardino». Con «sentenza» del 28 maggio 1828, il sindaco dichiarava D. Giuseppe Marcantonio Occhipinti «reo di usurpazione dell'acqua pubblica», ordinando la reintegrazione del doccionato a spese del proprietario del fondo. La deliberazione, però, poté avere effettivo riscontro soltanto venti anni dopo, per l'intervento del capitano Almeida, approvato dal luogotenente generale con mini­steriale del 29 settembre 1849. Ma ancora una volta Marcantonio oppose dinanzi al Consiglio d'Intendenza le sue ragioni: durante i lavori di rifacimento dell'acquedotto «erano stati abbattuti due alberi di celso» e «si erano dagli esecutori appropriati sette salme di calce, e canne venticinque e palmi cinque di condotti di creta» di sua proprietà. E, inoltre, «siccome si volle ricostruire e dare una diversa direzione all'antico acquidotto del 1790 si era fatto passare questo per un altro fondo del Marcantonio limitrofo a quello sopraindicato, svellendosi all'oggetto altre vigne ed altri alberi, ed occupandosi il terreno corrispondente». Negava però il Comune tali ragioni, come false e pretestuose, chiedendo anzi di essere indennizzato per l'usurpo commesso, che aveva sottratto per decenni l'acqua al pubblico approvvigionamento. Interveniva in seguito il luogotenente generale con ministeriale del 13 ottobre 1855 che approvava gl'intendimenti del Comune di Castellammare per una transazione fra le parti che, annullando le precedenti convenzioni, stabiliva «cedersi l'intero volume dell'acqua al Comune, e pagarsi al proprietario il valore capitale del canone di tari diciotto all'anno, in onze dodici, tari nove, grana sei, e piccoli quattro, nonché quello del depreziamento del fondo e degli alberi, che vennero danneg­giati, secondo una perizia che sarà fatta» 303.
Giuseppe Calandra, che accenna alla vicenda in una sua memo­ria, sospettò con gravi indizi che, in realtà, la transazione potesse essere stata manovrata dal notaio Andrea Di Blasi, il quale avrebbe preteso per sé la metà della somma concordata dalle parti per l'indennizzo304. La conclusione dell'annosa vertenza ha comunque un'appendice grottesca: «L'Intendente di Trapani aveva già approvato la transazione a carico della Comune, e l'ordine stava per partire, quando gli si presenta il Priore del Convento dell'Itria di Gibellina, dicendogli: "Signore, venne a mia conoscenza quant'ella ha già approvato in favore del Sig. Marcantonio che si vanta proprietario del fondo dove passa l'acqua che va in quella Comune. Legga quest'atto". Era l'assegnazione di quel fondo, fatta dal Barone Battifora al succennato Convento. E se Marcantonio fu un tempo padrone di quel fondo, lo aveva cesso per debiti al barone Battifora»305.

303 Transazione tra Don Giuseppe Marcantonio ed il Dr. D. Giovanni Plaja Sindaco di Castellammare, in noto Andrea Di Blasi, l° novembre 1855 (AST, 1017, ff 783r-805v).
304 G. CALANDRA, L'avvocato ed i parricida, p. 65.
305 Ivi. Non sono in grado di provare la veridicità di quanto afferma Calandra; ma il Convento degli Agostiniani Scalzi di Gibellina (detto dell'Itria) possedeva nel territorio di Castellammare alcuni fondi, in seguito sottoposti in forza della legge Corieo all'enfiteusi forzosa (v. Commissione per l'enfiteusi dei beni rurali ecclesiastici, b. 7, fase. 45).

Questo episodio illustra una delle forme prevalenti della conflittualizzazione all'interno del sistema di potere instaurato dai civili: l'usurpazione di un bene pubblico a danno della collettività; e quindi il prevalere di una mentalità che, radicandosi sull'antico retaggio del feudo, tendeva a riprodurre segmenti dell'autorità baronale o, almeno, ad occupare spazi esclusivi di autorità nel governo ufficiale del paese. Accanto alle usurpazioni, il controllo della rendita fondiaria e la legalizzazione dei privilegi borghesi emergenti. La resistenza delle masse contro i cutrara, se rivelava ancora la spinta allo scatenarsi di odii familiari e le aspirazioni indefinite al senso di giustizia, mostrava altresi di voler reagire, se pur in modo confuso, contro i «limiti istitu­zionalizzati» del nuovo contesto sociale. Le cause del malcontento e della protesta sono perciò da ricercare nelle tensioni di fondo della società postfeudale, su cui s'innestavano le «provocazioni» piu o meno dolorose del processo d'integrazione politica statuale.


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