Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

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RIBELLI E MAFIOSI NEL TRAMONTO DEL BRIGANTAGGIO SOCIALE


3. La «banda del bosco»: traccia diacronica


La storia del gruppo di banditi organizzati e guidati per quasi otto anni da Pasquale Turriciano costituisce certamente un «modello reale» di ribellismo sociale; ma essa presenta aspetti e comportamenti che possono essere spiegati soltanto nel contesto di una vicenda particolare della vita contadina. L'attività della banda si sviluppò attraverso tre distinte fasi, che corrispondono grosso modo al diverso enuc1earsi delle posizioni assunte dalla mafia di fronte al riassetto della società rurale e al regime statuale nell'isola: l) fenomeno della renitenza di massa e suo progressivo inalvearsi nel brigantaggio sociale; 2) prova di forza della mafia a sostegno della reazione politica (settembre del '66); 3) e, infine, trapasso del brigantaggio sociale nei ranghi della delinquenza comune.
Della partecipazione di Pasquale Turriciano agli scontri a fuoco tra renitenti e forza pubblica, avvenuti nelle campagne del circondario alcamese dal gennaio 1862 alla fine del '63, non resta alcuna traccia nei processi penali di quegli anni e nel fitto ruolo delle imputazioni a suo carico. È però probabile che il bandito sia intervenuto nei conflitti, particolarmente cruenti, dell'estate 186319. Soltanto l'anno dopo si cominciò a riconoscere in lui l'organizzatore di audaci colpi di mano contro carabinieri e soldati. Per uno di essi (7 agosto 1864) fu anzi avviata per la prima volta contro Turriciano una formale procedura per ribellione20.

19 «Il Precursore», Palermo, 5 agosto 1863. Il giornale riporta la notizia di un grave episodio accaduto nelle vicinanze di Alcamo, dove furono uccisi tre carabinieri da una banda di renitenti. Altri scontri erano avvenuti mesi prima nel bosco di Scopello, con l'uccisione di tre soldati del 520 Rg (AST, Verbali d'Assise, 1864, b. 8).
20 «Diritto e Dovere», Trapani, 18 agosto 1864. I riferimenti al processo in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 3, fase. 67.

Ma il giudice che istrui quel processo non raccolse prove sufficienti per coinvolgerlo nelle responsabilità del fatto criminoso. Apparve invece provata la partecipazione di Turriciano al successivo scontro del 15 dicembre 1864, predisposto dalla mafia locale per la liberazione di un renitente di qualche rispetto: il figlio di Gioacchino Ferrantelli, che dal carcere di Castellammare stava per essere trasferito in quello di Alcamo. Turriciano, che guidava il drappello degli assalitori, fu allora efficacemente coadiuvato dai familiari del giovane Ferrantelli, i quali, benché indiziati, riuscirono tutti (tranne uno) a tirarsi fuori dalle accuse di correità21. Fu la pesante condanna ai lavori forzati a vita riportata per tale episodio brigantesco a segnare definitivamente il destino di Pasquale Turriciano: l'illegalità ribelle a cui l'aveva spinto il suo gesto era cosa ben diversa dal semplice rifiuto della legge di coscrizione militare, considerato del resto dai giudici come un errore o una inosservanza, e perciò in ogni momento ricupe­rabile nell'alveo dell'ordine costituito.
Gl'individui che formarono il nucleo originario della banda furo­no, all'inizio, solo tre o quattro renitenti (fra i quali uno era nipote del capobrigante); ma poi vi si aggregarono due latitanti accusati dell'as­sassinio di un massaro di Calatafimi: lo zio di Turriciano, Liborio, e Camillo Cajozzo, un borgese di modeste risorse, che sarebbe stato il rabbioso cantore delle gesta brigantesche di Pasquale22. I fratelli di Cajozzo, Vito e Salvatore, stroncarono nel giugno del '66 le trame 'nfami di Peppi lu mulu, con due schioppettate ai quattro canti di Castellammare, e poco dopo raggiunsero Camillo sulle montagne23.

21 [vi, b. l, fase. 1. La sentenza contro Pasquale Turriciano è del 6 agosto 1867 (v. AST, Corte d'Assise, Sentenze, 1867, vol. 5, n. 67).
22 Cajozzo è l'autore di un singolare poemetto anepigrafo, in ottave siciliane, dove si cantano le gesta di Pasquale Turriciano e della sua banda, almeno fino al febbraio 1867. La redazione manoscritta, che ho trovata presso un'anziana erede dei Turriciano, è opera di un certo Rosario Mulè e si compone di 74 strofe. Il titolo che è stato da me scelto per il poemetto (La Siquera, letteralmente sequela, ma qui nel senso di azione della forza pubblica per seguire le tracce dei banditi) richiama, sostanzialmente, il tema su cui si snoda il racconto poetico. Cfr. voce Siquela o sequela («jiri a la sequela, modo proverbiale applicabile alla giustizia che va a rintracciare gli assassini») in v. MORTILLARO, Nuovo dizionario siciliano-italiano, 3' ed. Palermo 1876. p. 1009.
23 Un noto mafioso di Castellammare, Antonino Buffa, che ebbe parte in molti fatti criminosi di quel periodo, ed anche - come si dirà in seguito - nella fine di Pasquale Turriciano, volle esternare al giudice una sua opinione sul delitto, che era piuttosto un atto di accusa: «Conoscendosi notoriamente che il D'Angelo faceva dei servizi all'arma dei Carabinieri, ed uno dei fratelli Cajozzo trovasi profugo, sul timore che il D'Angelo l'avrebbe fatto trarre agli arresti, fo giudizio che costui fu ucciso per tale sospetto». Del resto, lu mulu non aveva smentito nemmeno in punto di morte la sua fama di casciltuni, facendo i nomi dei suoi assassini (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. l, fase. 11).

La banda assunse i suoi connotati specifici tra la fine del '65 e i primi mesi del '66. Già nell'aprile 1866, durante lo scontro a fuoco di Inici, la stessa banda avrebbe rivelato certe sue modalità d'azione e di movimento (anzitutto la presenza di vedette nei luoghi di montagna). Due mesi dopo, il conflitto con la forza pubblica a Baida. Muore qui Nino Chiofalo, un giovane mascàru nipote di quel Vincenzo Chiofal0, pure lui mascàru, che aveva portato la bandiera rossa della rivolta contro i cutrara il 10 gennaio 1862. Insieme con Pasquale Turriciano, Nino si trovava il 22 giugno nel baglio di Giacinto Gervasi, vicino al castello di Baida, luogo di stanza di un distaccamento militare. Gervasi aveva appena ordinato ai suoi braccianti di preparare il pane per gli ospiti. A un tratto, un calpestio nel cortile fa capire ai due briganti di essere curdunati. Nino, uscito fuori, si arrende subito ai carabinieri e ai militi della guardia nazionale; e viene fucilato inerme. Pasquale, invece, con un balzo è fuori del cordone. Dall'alto della montagna, sei briganti proteggono la sua fuga con una fitta fucileria24.
L'episodio acui nel capobrigante il desiderio di vendetta contro le forze dell'ordine. Difatti se ne ricordò qualche mese dopo, durante il vittorioso scontro tra la sua banda e le truppe regie in contrada Fraginesi, allorché fece condannare a morte da un improvvisato tribu­nale di picciotti il carabiniere Mendolia, catturato poco prima25.

24 Ivi, b. I, fase. 7. Sulla morte di Chiofalo, a parte il racconto che ne fa La Siquera, un trasparente riscontro alla tesi della fucilazione del brigante si trova nella versione ufficiale dei fatti: «A vendo la pattuglia riconosciuto in essi due dei briganti, gli fece una scarica addosso, ed i projettili delle armi del Fois e del milite Fundarò, investito nel petto uno dei fuggenti, lo stesero al suolo cadavere» (ivi; il delegato di p.s. al pretore di Castel­lammare, 25 giugno 1866).
25 Interrogato dai militi subito dopo il suo arresto, Salvatore Cajozzo rese succinta, ma precisa testimonianza sul fatto. Parlando del conflitto con la forza pubblica del 27 settembre 1866, Cajozzo dichiarò che quel giorno i briganti avevano catturato 7 soldati, «ai quali il capo Turrigiano dietro l'attacco ordinavagli di fucilare il carabiniere da noi arrestato in quella lotta, che fu subito ubbidito, ed in grazia di quella ubbidienza lasciava liberi i sette soldati prigionieri, ma quel miserando carabiniere restò freddo cadavere sul terreno» (ivi, b. 2, fase. 36; verbale di arresto di Salvatore Cajozzo, lO febbraio 1867). Analoga deposizione egli rese al pretore di Castellammare, Simone Riggio (ivi, b. 2, fase. 30; interrogatorio di Salvatore Cajozzo, 13 febbraio 1867). L'assassinio del carabiniere Mendolia è pure esplicitamente ricordato nella sentenza pronunziata dalla Corte d'Assise di Trapani contro Alberto Barbara inteso farfarello (AST, Sentenze, 1871, voI. 9, n. 82).

Significativo il particolare, riferito dalle fonti processuali, della esecuzione della condanna affidata ai sette soldati presi prigionieri dal briganti nel corso dello stesso scontro. Pur accennando nei loro rapporti all'assassinio del carabiniere, le autorità passarono sotto silenzio, per ovvie ragioni, i particolari della spietata procedura attuata da Turriciano e del comportamento oltremodo codardo dei soldati, i quali si piegarono al suo volere senza reagire in cambio della libertà. Salvatore Cajozzo avrebbe poi riferito al giudice le modalità del «processo»; e il fratello Camillo avrebbe cantato in toni di esaltata rivalsa l'atto di «giustizia» compiuto (Fu ficilatu lu carrubbineri / chi n 'ha ammazzatu lu nostru quartigghiu; str. 59, vv. 7-8). Si può forse scorgere nella decisione di opporre al carabiniere il manipolo dei soldati l'intendimento di confi­gurare, e magari di provocare, un conflitto tra chi aveva scelto di esercitare la Giustizia e chi, in fondo, ne appariva sottomesso come coscritto. Nella mentalità del capobrigante un tale conflitto era perciò possibile e perfino legittimo.
Erano i giorni della rivolta di Palermo del settembre 1866. E la banda si aggirava tra le montagne di Castellammare in attesa d'intervenire con le squadre reclutate in quei giorni tra contadini e borgesi per sollevare il paese. Da Trapani, da Alcamo e da Calatafimi partiro­no il 26 settembre tre compagnie di soldati dirette ai luoghi dove da qualche giorno stanziavano i ribelli per circondarli e catturarli. Una manovra tattica di aggiramento di cui però non si vedevano gli effetti concreti, se il delegato di p.s. decise ad un certo punto d'intervenire per proprio conto. Raccolse a Castellammare ottanta uomini tra cara­binieri, soldati, militi e guardie campestri, e mosse in fretta verso lo Spàracio. I briganti, dalle alture inaccessibili della montagna, sfrutta­rono bene la loro posizione, causando gravi perdite alla colonna assa­litrice. Sicché quest'ultima, alla fine, dovette ripiegare.
Dopo l'esito dell'operazione, che fu disastroso per i regi, i giornali accusarono il delegato di «poca previgenza ed accuratezza» per aver sperperato in un attacco isolato e improvvido il potenziale non piccolo che aveva a disposizione26. Pasquale Turriciano, con soli undici uomini della sua banda (i picciotti delle squadre si erano precipitosamente allontanati al primo segnale della battaglia), seppe spavaldamente fronteggiare l'urto dei militari, arrischiando perfino la cattura di sette soldati e di un carabiniere.

26 La banda Turriciano, «forte nella sua posizione, occupando le alture delle mon­tagne, recò, dopo due ore di accanito combattimento, la morte ad un carabiniere, a due militi della Guardia Mobile, e ad un soldato del 10° lasciandone altro ferito. Questo sconsigliato fatto distrusse le operazioni delle truppe in movimento, perché la banda, prima che esse arrivassero ai luoghi stabiliti, erasi già dispersa» (cfr. «La Concordia», Trapani, n. 53 del 30 settembre 1866).

Le ripercussioni psicologiche del fatto d'armi sull'opinione pubblica furono grandi, e contribuirono ad accrescere la fama di temerario e di «giustiziere» del capobrigante. Eppure quel successo venne a chiudere la fase eroica della sua azione brigantesca, che sfruttava non solo le stratificazioni culturali di una mentalità di tipo feudale (tuttavia ormai declinante nella fase di transizione al capitalismo agrario), ma anche le condizioni verificatesi con l'insorgere della protesta contro la leva. Elemento nuovo rispetto ad analoghi fenomeni di banditismo sociale fu il contatto con i gruppi di mafia, il cui ruolo non fu indiffe­rente nel contrassegnare le successive fasi di sviluppo del brigantaggio. Alla ri volta antileva dell86l-62 era seguito il lungo periodo di latitanza di renitenti e disertori, durante il quale le suggestioni omertose dell'ambiente avevano permesso un'azione di osmosi degli sbandati con la malvivenza organizzata. Si era conseguentemente rafforzato il potere dei gruppi di mafia, ed accresciuta la funzione mediatrice da essi esercitata nel contesto borghese rurale. La copertura degl'interessi borghesi predisposta dalla mafia aveva impedito di fatto che il brigan­taggio assumesse il carattere del ribellismo antiproprietario riscontra­bile altrove; e perciò le confuse, generiche aspirazioni di giustizia sociale che pur erano latenti nella massa dei diseredati poterono essere accortamente depresse nel disegno reazionario delle rivalse e dei ricatti antiunitari.
Comunque, lo scontro fra governo e opposizioni che si manifestò in quel tempo in Sicilia ebbe esito sostanzialmente positivo per la stabilità e il prestigio del nuovo Stato. Fu proprio la convinzione della irreversibilità dell'evento unitario a determinare i processi di accosta­mento e, via via, di compenetrazione dei gruppi di mafia ai poteri statuali e alle forze dirigenti nazionali e isolane. Quale ruolo, allora, avrebbe potuto assolvere un banditismo ormai assimilato, nelle sue frange piu disperate, alla massa di manovra della mafia, se non quello di dedicarsi nella lotta per la sopravvivenza al delitto come puro esercizio della violenza? Da qui il distacco della banda dalla rete di solidarietà e di connivenze a suo tempo intrecciata con pastori e contadini. Da qui pure quel senso tormentoso del proprio isolamento, rispetto ai compagni e rispetto all'ambiente paesano, che avrebbe accompagnato gli ultimi anni di vita del capobrigante. L'azione repressiva delle autorità per debellare le comitive arma­te che infestavano le campagne dell'Alto Trapanese consegui un risul­tato concreto tra il dicembre '66 e gl'inizi del '67. La banda di Pasquale Turriciano, accresciutasi nei giorni della sedizione mediante l'aggregazione permanente di altri dieci briganti, subi da quest'azione seri contraccolpi per l'uccisione nei conflitti a fuoco di Rocca Rossa (4 dicembre '66) e Terre Nuove (13 giugno '67) di Carrubba e Leonardo di Benedetto, nonché per l'arresto di sei briganti e di molti manutengoli27.

27 AST, Pref, Gab., b. 1, fase. 5; rapporto del delegato di p.s. di Castellammare al procuratore del re di Trapani, 5 dicembre 1866. V. pure AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. l, fase. 13 (ribellione di Rocca Rossa); b. 2, fase. 23-24 (ribellione di Terre Nuove). Vito e Salvatore Cajozzo furono tra i primi ad essere arrestati, nell'abitato di Castellammare (febbraio 1867). Liborio Turriciano fu catturato nell'ex feudo Bruca nel giugno dello stesso anno.

Assieme a quella di Turriciano, operavano in quelle zone altre bande, in parte annientate sul finire dell'autunno '6628, C'erano probabilmente tra le varie bande rapporti di contiguità; ma ciascuna di esse si muoveva in un ambito delimitato dal prestigio personale del capo­brigante, dalle connivenze acquisite, da certe funzioni delittuose al servizio delle mafie (prima fra tutte la violenza abigeataria), Ma la popolarità di Turriciano veni va a volte sfruttata da altri per consumare in suo nome i colpi piu grossi29, Con la banda dell'alcamese Pace i contatti furono piu frequenti e organici, Implicato, insieme con Turriciano, in vari delitti per ribellione, Pace rappresentò all'epoca della rivolta del settembre '66 un po' la mente politica dell'organizzazione delle squadre30, Tentò anche di unificare i gruppi di picciotti e mante­nere un certo collegamento coi ribelli palermitani, ma dovette scon­trarsi con le diffidenze municipalistiche di Turriciano31.

28 Atti del Consiglio Provinciale di Trapani. Sessioni straordinarie e ordinaria nel 1866, Trapani 1867, p. 41. La relazione del prefetto Cusa, che vi è contenuta, accenna alle misure adottate dal governo contro il banditismo, per difendere i luoghi di pena ed eliminare i residui della banda Turriciano: «In breve periodo si ottenne l'uccisione o l'arresto o la presentazione di circa venticinque componenti la banda Torreggiani, che ormai ridotta al solo numero di cinque o sei malfattori, anch'essi scuorati, dispersi e quasi inclinati a costituirsi, non tarderà quasi, se cause estrinseche e straordinarie non sopravven­gano, ad esser completamente estirpata da quei campi, che per tanto tempo ha funestato colla sua malefica presenza» (ivi, pp. 42-43).
29 Dichiarazioni in questo senso di Camillo Cajozzo e Antonino Mistretta, in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 3, fase. 59 e 71.
30 Le testimonianze processuali riferiscono questi particolari su Giuseppe Pace di Leonardo, nato ad Alcamo il 16 agosto 1844: «Di bello aspetto e di col or bianco, e s'avea agli orecchi dei cerchietti d'oro con bottoncini d'oro ugualmente». Contadino analfabeta e senza beni, Pace era renitente alla leva del '44 (ivi, b. 2, fase. 23, 30). Un rapporto dei carabinieri di Alcamo (24 maggio 1869) ne comunicava la morte, avvenuta durante un conflitto a fuoco con la forza pubblica, senza però precisare anche il luogo dello scontro (ivi, b. 1, fasc.9).
31 Chiari, interessanti riferimenti su ciò nel poemetto La Siquera (str. 49-51).

Dopo la cattura di alcuni briganti, e l'espatrio di altri che ripara­rono a Civitavecchia32, la banda Turriciano si ricostitui con l'apporto delle nuove leve provenienti dalla renitenza degli anni 1867-69, mentre l'azione repressi va delle autorità rifluiva nel regime delle normali operazioni di polizia. Il governo centrale era ormai convinto della necessità di chiudere, nell'isola, il periodo eccezionale degl'interventi per l'ordine pubblico, durato quasi ininterrottamente dalla luogotenenza al commissariato straordinario di Cadorna. Nel luglio 1867, una circolare del ministero degl'interni raccomandava che l'iniziativa per eliminare i residui del brigantaggio, anziché alla truppa, dovesse essere affidata alla guardia nazionale33: un avviso di cui si era già fatto interprete, alla fine del '66, il prefetto di Trapani con l'appello rivolto alla borghesia terriera di provvedere essa stessa alla difesa dell'ordine e della proprietà34.

32 Col porto laziale, Castellammare aveva a quel tempo frequenti e intensi rapporti commerciali. Ma due almeno dei latitanti (Caleca e Barbara) trovarono a Civitavecchia e a Roma appoggi e ricovero tra i legittimisti borbonici (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 1, fase. 5; b. 4, fase. 91).
33 AST, Pref, Gab., b. l, fase. «Provvedimenti contro il brigantaggio», Firenze 12 luglio 1867 (v. «Bollettino della Prefettura di Trapani», n. 7 del luglio 1867, pp. 358-61). Il brigantaggio, è scritto nella circolare, «se può dal di fuori ricevere favoreggiamenti ed aiuti, nell'intrinseca sua natura è però una produzione del tutto locale, un disordine che si compone con gli elementi pericolosi dello stesso paese in cui si rassoda, una mal'erba infine che dal suolo stesso in cui nasce trae vigore ed alimento».
34 Atti del Consiglio Provinciale, p. 43. Analogo invito rivolgerà nel dicembre 1866 il marchese di Rudini, prefetto di Palermo, ai proprietari per arruolare guardie campestri che collaborassero con la forza pubblica «sia nella ricerca sia nella indicazione dei malfat­tori» (ASP, Pref, Gab. , b. 12, cat. 20, fase. «Concorso dei proprietari per consolidare la PS»). Sulle posizioni espresse da Antonio di Rudini sul sostanziale contributo al mantenimento dell'ordine nelle campagne che avrebbero dovuto fornire i proprietari, si veda F. BRANCATO, La Sicilia nel primo ventennio del Regno d'Italia, Bologna 1956, pp. 301-303. Si ricordi, poi, la pubblicistica, estremamente critica, riguardante i corpi di polizia rurale: Romualdo Bonfadini, per es., li giudicava come «le sentinelle morte del malandrinaggio, gli stromenti pili attivi delle prepotenze, delle intimidazioni, delle speculazioni agrarie e commerciali della mafia palermitana) (cfr. Relazione della Giunta per l'inchiesta sulle condizioni della Sicilia, Roma 1876, p. 142).

Sottratto cosi all'esercito il compito piu assiduo della lotta al banditismo, l'incarico che si assumeva in tale azione di polizia la guardia nazionale, composta di elementi locali, non poteva rivelarsi efficace, soprattutto per i legami che i suoi militi manteneva­no con la malvivenza organizzata. E, infatti, la «banda del bosco» di Castellammare, ricostituita da Turriciano con una dozzina di elementi, poté durare indisturbata per altri due anni, fino all'azione combina­ta della mafia e del potere politico per annientarla.
Almeno due fattori influiscono ora sulla persistenza della banda: l'equivoca condotta del comandante dei militi, Gaspare Fundarò, su cui la memoria paesana getta un'ombra di sospetto; e il comportamento dei gruppi briganteschi, «funzionale», per cosi dire, agl'interessi della mafia.
Però l'uniformità degl'indirizzi e degli schemi operati vi della banda non è piu quella del passato: all'interno di essa vivono diversi gruppi che sono in disaccordo con Turriciano. È ciò che si evince dall'esame dei fascicoli delle istruttorie, attraverso le testimonianze degl'imputati e i rapporti degl'inquirenti. Intanto pochi della banda accettano di affrontare in scontri aperti la forza pubblica usando la tattica «guerrigliera» del capobrigante35.

35 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 2, fase. 23 (G. Morsellino, che dichiara al giudice di essersi staccato da Turriciano per dissensi sull'opportunità di attaccare la forza pubblica); b. 4, fase. 77 (F. Plescia); fase. 82 e 84 (F. Pie scia, V. La Rocca, G. Lipari e A. Piazza). Tali dichiarazioni potrebbero essere state fatte a discolpa delle singole posizioni penali; ma resta il fatto della materiale partecipazione ai sette scontri a fuoco, che viene accertata dagli inquirenti soltanto per Turriciano, Cajozzo e Mistretta.

Nei conflitti a fuoco successi tra la primavera del '67 e l'estate del '68 (Mendola, Passo del Lupo, Terre Nuove, Bosco di Arcuraci, Costa dell'Eremita, Croce, Gagliardetta), Turriciano deve sostenere da solo, o in compagnia dei fidi Cajozzo e Mistretta, l'azione dei militi. (Un'eco di ciò è nel verso di Cajozzo: Semu tri chi tiramu sta carrera; str. lO, v. 7.) È quindi riscontrabile un atteggiamento quanto meno di precauzione o di riguardo, assimilabile alle attitudini del mafioso piuttosto che a quelle del ribelle. Muta poi sensibilmente la struttura sociale della banda, che agl'inizi della sua attività era pressoché totalmente costituita da poveri braccianti: nel '69 vi si associano, sia pure temporaneamente, due borgesi e cinque bestiamari (caprai e vaccari), ceti sociali tradizional­mente legati ai traffici mafiosi.
È probabile che a causa dei dissensi interni i gruppi briganteschi che operavano sotto il comando di Turriciano si siano man mano staccati da lui. Per uno di questi gruppi il distacco è documentato dalle resultanze processuali36; per altri esso può presumersi dalle specifiche aggregazioni delittuose dei componenti la banda, sempre però distinte dai movimenti di Turriciano. Cosi il tribunale poté ricostruire la vera identità «criminale» del capobrigante, escludendo la sua partecipazio­ne a molti episodi di delinquenza comune37.

36 Plescia si uni nell'estate del '69 a Di Marco, La Rocca, G. Lipari, Piazza e Salamone per formare una propria banda (ivi, b. 4, fase. 84). Per proprio conto operavano pure i due Virgadamo e Di Maria, nativi di Alcamo (ivi, b. 2, fase. 38-39). La banda dei Virgadamo, composta di cinque elementi, sarà infatti giudicata con processo a parte (AST, Corte d'Assise, Sentenze, 1872, voI. lO, n. 103 del 28 novembre). 37 Nel curriculum penale di Turriciano restavano a pochi mesi dalla sua morte soltanto 19 imputazioni (per altre 15 il giudice l'aveva già prosciolto in istruttoria) di cui oltre la metà per insurrezione e ribellioni alla forza pubblica; mentre le restanti accuse riguardavano per lo piu abigeati e grassazioni commesse per mantenere ed equipaggiare la banda. Mancavano in tale elenco i sequestri di persona e vi figuravano soltanto gli omicidi dei carabinieri e soldati uccisi in conflitto (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 2, fase. 22).

Per il piu clamoroso dei fatti criminosi a lui attribuiti - l'assalto al santuario di S. Vito lo Capo (10 giugno '69) - i carabinieri che condussero le indagini erano convinti, per es., che la grassazione fosse stata opera di «contadini del Comu­ne coadiuvati da qualcuno dei compagni di Turriciano»38. Del resto, il divario «ideologico» tra Pasquale Turriciano e gli altri banditi era nettamente segnato, da un lato, dalla sopravvivenza culturale di valori e modelli tipicamenti feudali e, dall'altro, dalla violenza criminale fine a se stessa.
Quasi tutti i componenti della banda furono arrestati nell'autun­no del '69, durante le operazioni condotte da carabinieri e soldati del 10° Reggimento per snidare i briganti dalle grotte in cui erano nascosti. Ucciso Giuseppe Pace in un conflitto a fuoco con la forza pubblica (maggio del '69), nessun altro fuorilegge credette di dover resistere con le armi alla propria cattura e alcuni si presentarono spontaneamente (come Nicolò Di Marco, Vincenzo Como, Andrea Piazza, Vincenzo La Rocca e Giovanni Salamone). Soltanto Cajozzo, Mistretta e Turriciano mantennero fede all'immagine che di loro si era formata. Camillo Cajozzo era stato arrestato mesi prima in contrada Grotticelli, nell'abitazione dell'amante, lafigghia di la Piddirina (connotati: statura m 1,42; capelli castagni; occhi cerulei; colorito bruno). Alla forza pubblica che aveva circondato la casa resistette un'intera notte col suo fucile a due canne, fino al sopraggiungere dei rinforzi da Alcamo. Ma aveva preteso che fossero presenti al suo arresto il sindaco di Castellammare e il notaio Mattarella39. Antonino Mistretta, che si era rifugiato ad Alcamo, fu preso il 12 gennaio 1870 insieme con un altro malvivente. Anche lui resistette per ore a una cinquantina di carabinieri e soldati piombati in via Rocche per catturarlo40.

38 Ivi, b. 3, fase. 45; rapporto del capitano della compagnia di Trapani al procuratore del re, 14 giugno 1869.
39 Ivi, b. 4, fase. 101-102.
40 Ivi, b. 4, fase. 93-94.

La fine della banda fu contrassegnata da lunghi e complicati meccanismi processuali, in cui dovette esercitarsi l'acume giuridico dei difensori, attenti a raccogliere le difficili prove della separazione, o attenuazione, di colpevolezza degl'imputati. Nisi et consi/ium malignum habuerit, nec consi/ium habuisse noceat, nisi et factum secutum fuerit. Quest'antica sentenza del codice romano risonava spesso nelle difese onde poter stabilire de jure il grado di cooperazione al delitto; ma agli occhi dei briganti (gregari o avventizi) il sottile discrimine che impegnava gli avvocati appariva come un'altra oscura macchinazione della Giustizia, poiché non teneva conto delle ragioni inesplicabili della malafurtuna che li aveva spinti alla macchia, e poi in tribunale41.
Perciò Camillo Cajozzo aveva preferito decodificare il proprio comportamento alla luce di tali ragioni, recitando dinanzi ai giudici un'au­todifesa in ottave siciliane estemporanee, dove aveva mescolato con­fusi sentimenti di rivalsa a superstiziose in vocazioni, lanciando accuse agl'infami che lo avevano voluto perdere42.

41 Dei quaranta briganti che in vari periodi fecero parte, come gregari o come avventizi, della banda Turriciano, sette, oltre al capobrigante, furono uccisi in conflitto (Nino Chiofalo, Gaetano Di Giorgio inteso carrubba, Vito Fontana, Antonio Mercadante, Leonardo di Benedetto inteso Martino, Giuseppe Pace e Gioacchino Gervasi); due (Niccolò di Marco e Giuseppe Morsellino) morirono in carcere durante l'istruttoria del processo; uno si rese irreperibile, emigrando in America; gli altri furono tutti processati. Davanti alla Corte d'Assise di Trapani, presieduta da Ignazio Abrignani, comparvero il 22 novembre 1871 sedici briganti e cinque manutengoli. La sentenza fu emessa il14 dicembre dello stesso anno. Tre briganti furono condannati alla pena di morte mediante decapitazione (Camillo Cajozzo, Liborio Turriciano e Giovanni Sa1amone); sei ai lavori forzati a vita (Vito Cajozzo, Antonino Mistretta, Vincenzo Como inteso navarredda, Andrea Piazza, Gaetano Vallone e Alberto Barbara, quest'ultimo latitante); tre a vent'anni di lavori forzati (Salvatore Cajozzo, Vincenzo La Rocca e Francesco Plescia inteso lo greco); gli altri a pene minori (AST, Corte d'Assise, Sentenze, 1871, voI. 9, nn. 81-82). Successivamente alcune pene furono diminuite per effetto di varie amnistie, mentre le condanne a morte furono com­mutate nei lavori forzati a vita (RD 6 novembre 1872). Salamone finirà di scontare la sua pena dopo quarant'anni, nel 1911. Tra i difensori degli imputati furono gli avvocati piu noti dei fori di Palermo e di Trapani (Simone Cuccia, Giulio d'Ali, Alberto Giacalone, Giuseppe Maurici, Giuseppe Mondini, Nunzio Nocito, Giovan Maria Patrico, Giuseppe Simone).
42 Difesa di Camillo Cajozzo da Castellammare di Sicilia composta da lui stesso, Trapani s.d. È citata da s. SALOMONE MARINO, Le storie popolari in poesia siciliana messe a stampa dal secolo XV ai di nostri, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», Palermo XV (1896), pp. 188-89. L'autodifesa di Cajozzo recitata dinanzi alla Corte d'Assise di Trapani fu pubblicata, probabilmente, nello stesso anno del processo (1871 o '72). Composta di 18 strofe, in forma di canzuna, costituiva una specie di compia in te che i condannati a morte componevano (o, meglio, si immaginava che componessero) prima di salire sul patibolo (v. su ciò la rassegna di H.J. LOSEBRINK, La letteratura del patibolo. Continuità e trasformazioni tra '600 e '800, in «Quaderni storici», Ancona/Roma, a. XVII (1982), n. 49 (aprile), pp. 285-301). A differenza, però, delle complaintes prodotte dai cantastorie, la Difesa di Camillo Cajozzo fu dettata dallo stesso protagonista della tranche de vie, con propositi di legittimazione e discolpa al di fuori della logica "popolare" del rimpianto e della commiserazione.


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