Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

LA PATRIA ARMATA di Salvatore Costanza


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RIBELLI E MAFIOSI NEL TRAMONTO DEL BRIGANTAGGIO SOCIALE


5. Il brigante come mentalità


Il ribelle rappresentava nella società contadina di tipo feudale, secondo le modalità del proprio agire e l'immagine di forza e di generosità che se ne traeva, il simbolo del riscatto, la proiezione meta­politica del desiderio di ordine e di giustizia che animava i poveri e gli sfruttati. Il legame di solidarietà che si stabiliva tra i banditi e i contadini era perciò espressione di comuni sentimenti ed aspirazioni. Non è invece possibile ripetere un simile schema interpretativo rife­rendosi a chi, divenuto ribelle in un contesto dominato da tendenze oggettive verso la promozione sociale e il profitto, è ormai vincolato nei suoi movimenti e nel suo ruolo dai fini speculativi perseguiti dalla mafia locale, i cui rapporti col mondo contadino non sono davvero ispirati a propositi di equità e di giustizia.
Agli occhi del contadino, il mafioso è tutt'altro che un eroe: il villico (bracciante o terraggiere) vi sa riconoscere per esperienza le attitudini di prevaricazione e, spesso, di 'nfamità che ne contraddistinguono il comportamento. Non è perciò riconducibile ai canoni feudali dell'onore e della giustizia lo «stile di vita» del mafioso, solo formalmente atteggiantesi a quei canoni, ma che in realtà si manifesta coi tratti piu spregiudicati durante i processi costitutivi della nuova borghesia agraria.
Si deve tener conto di ciò per comprendere la particolare relazione che intercorre tra la banda di Pasquale Turriciano e il paese contadino. Una relazione che poggia sulle trame omertose del manutengolismo, piuttosto che sulla comunanza «ideologica», e meno ancora sulla difesa istintiva e primordiale di diritti conculcati. La funzione specifica d'intermediazione e legittimazione borghese che la mafia si appresta ad esercitare nella società rurale è ormai tale da infrenare e controllare i tentativi ricorrenti della protesta sociale, sia che essa si presenti nelle forme endemiche dellajacquerie piu o meno eccitata da spinte politiche, sia che si attui nelle prove disperate del brigantaggio. La «pietà» per la sorte del brigante, perseguitato da una Giustizia lontana e indecifrabile, sostituisce l'epica rudimentale delle sue gesta, estranee, in fondo, al mondo delle necessità quotidiane e alle speranze dei ceti popolari. Il sentimento di pietà sorge, anzitutto, con la considerazione delle cause che hanno portato il brigante alla macchia, Chi si sottrae alle imposizioni dello Stato che lo vuole coscritto, allontanandolo per alcuni anni dal suo paese, ha il sostegno morale e materiale della gente. Il suo rifiuto è considerato dal senso comune non solo come una legittima reazione al sopruso legale, ma anche come un doveroso richiamo al bisogno di provvedere al sostentamento della propria famiglia. Cosi, alle cause sociali del fenomeno della renitenza si uniscono motivazioni di ordine sentimentale e familiare. Tra i componenti della banda Turriciano, la maggioranza è costituita da renitenti e disertori (18 e 7 rispettivamente, sul totale dei 30 affiliati, gregari e avventizi, nel solo periodo 1864-66)49. Qualche altro è spinto alla latitanza da presunte o reali ingiustizie consumate nei suoi confronti; o perché accusato di un delitto che non ha commesso; ovvero dalla sproporzione della pena rispetto alla tenuità del reato50. Anche la vendetta privata contro 'nfami e traritura rientra nel paradigma crimi­nale di chi si accinge a percorrere fino in fondo la via della ribellione individuale.

49 Sul totale degli affiliati alla banda, questo era il numero (e la percentuale) dei renitenti e disertori (v. AST, Corte d'Assise, Processi penali, bb. 1-5; Sel1tenze, 1871-72, voll. 9-10; Verbali d'Assise, 1871, voll. 21-22):


50 Per «estorsione di panno del valore di lire 19 mediante ambasciata atta ad incutere timore», un contadino si vide condannare a dieci anni di reclusione (AST, Corte d'Assise, Sentenze, 1869, voI. 7, n. 59).

La scheda compilata per ciascun imputato dall'ufficio istruzione del tribunale di Trapani elenca in un minuzioso repertorio di dati anagrafici e giudiziari lo stato civile, i mezzi di sussistenza, la condotta tenuta precedentemente all'arresto, i reati ascritti, le «cause a delin­quere» e la condizione sociale. Da tale prospetto risultano elementi pressoché uniformi sull'età degl'imputati (tutti al di sotto dei trent'an­ni, eccettuato il solo Liborio Turriciano, che era del '27); sui luoghi di nascita (4 erano nativi di Alcamo e 4 di Monte S. Giuliano, 2 di Calatafimi e 2 di Cinisi, uno di Vita; gli altri di Castellammare); sullo stato familiare (soltanto 5 erano coniugati con prole) e su quello patrimoniale (tutti «impossidenti», tranne Camillo Cajozzo, iscritto al catasto per un piccolo fondo valutato 2000 lire). L'appartenenza de­gl'inquisiti ai livelli inferiori della società contadina era testimoniata anche dalla loro condizione: villici (27), caprai e vaccari (7), borgesi (5). Uno solo di essi era marinaio. (Sono però da tener presenti le variazioni intervenute tra il 1864 e il 1870 nella composizione sociale della banda, come appare nel quadro statistico pubblicato fuori pagina.) Tutti poi figuravano come «illetterati», molti addirittura incapaci di «crocesegnare» i verbali d'interrogatorio.
È significativo che nei criteri classificatori usati dagl'inquirenti, con la netta distinzione tra possessori e non di qualità sociali (l'essere proprietario e istruito) che erano esclusivo corredo della borghesia, si adombrasse un'idea quasi ontologica della proprietà. L' «illetterato» e l'«impossidente» erano privi, appunto, di quegli attributi necessari a legittimare socialmente un individuo: l'alfabeto e la roba, l'uno reso intelligibile dalle facoltà dell'altra. Non meraviglia allora che a quanti, tra i proletari, era consentito di esercitare la violenza fisica «per acquistare distinzione e incutere rispetto» il curricolo mafioso apparisse come l'unico mezzo possibile per superare la barriera inesorabile dell'impossidenza51. Se poi esaminiamo quella parte della scheda in cui si annotano le cosiddette «cause a delinquere» si conferma l'ottica proprietaria dei giudici. Onore, libertà, beni si trovano stranamente accomunati nella indicazione del movente piu grave e piu comune: la «cupidità». Seguono: vendetta; conservazione della propria e dell'altrui libertà; superstizioni e pregiudizi; indigenza.

51 Questa convinzione, secondo Sebastiano Cammareri Scurti (La mafia e il risana­mento morale, in «Il Diritto alla Vita», Marsala, 17 e 31 dicembre 1899), costituiva «il sentimento della necessità della mafia per riuscire nella vita». Su tale giudizio di Cammareri Scurti, V.le osservazioni di G.c. MARINO, Socialismo nel latifondo, Palermo 1972, pp. 159-66.




Nota informativa sulla ribellione di Roccarossa (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 1, fase. 12).


Schizzo del Baglio d'lnici disegnato da Giovanni Valfré. Il baglio/castello, già dell'abolito Collegio dei Gesuiti di Trapani e, poi, acquistato (1779) dal marchese Antonio Cardillo, fu costruito agli inizi del secolo XVII. L'immagine è tratta da una deteriorata fOLO del sec. XIX.


Modello di schedatura degl 'imputati (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 4, fase. 101-102).

La cupidità costituiva, dunque, secondo i giudici la causa che aveva spinto molti a farsi briganti. Eppure non mancavano tra gli atti del tribunale prove e dichiarazioni di ben altra natura. Uno dei partecipanti alla grassazione commessa nel santuario di S. Vito confessò, ad esempio, di avere aderito all'invito dei compagni di Turriciano speran­do soltanto di potersi sollevare dal proprio stato di miseria: «Rispon­demmo che se si fosse trattato d'una mangiata di carne, avremmo di certo rifiutato; ma essendo cosa di migliorare la nostra condizione, aderiamo»52. E, finché gli fu possibile, il capobrigante evitò di ricorrere alla forza per mantenere ed equipaggiare la propria banda. Tra le imputazioni a suo carico, non figura un solo sequestro di persona, mentre tale crimine era allora tra i piu praticati dai comuni malfattori53. Le estorsioni di cui fu accusato, e che quasi mai furono denunciate dalla parte lesa (per reticenza o, piu spesso, per la tenuità del danno subito) riguardavano armi,'viveri e capi di vestiario. Gli stessi abigeati, in realtà, si limitavano ad un uso temporaneo delle cavalcature che servivano agli spostamenti della banda.
52 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 3, fase. 46; interrogatorio di Leonardo lncandela, 17 giugno 1869. I briganti pensavano che nel santuario di S. Vito fosse nascosto un tesoro di 6000 onze.
53 Per alcuni sequestri di proprietari (Giuseppe Bonura, Paolo e Stefano Fontana, Vincenzo Rizzo di Monte S. Giuliano, e Giuseppe Foderà di Castellammare del Golfo), avvenuti in quel periodo, gl'iniziali sospetti su Pasquale Turriciano dovevano cadere nel seguito delle indagini. Pur senza averlo potuto interrogare, ai giudici fu facile accertare la sua estraneità a quei fatti (ivi, b. 2, fase. 22).

Del resto, l'inventario degli oggetti sequestrati al capobrigante il 6 gennaio e il l o marzo 1870 dimostra quanto fossero elementari i suoi bisogni vitali, esigua e rudimentale la sua dotazione militare, ma nello stesso tempo quanto vivo fosse in lui il desiderio di cultura e d'istruzione. Non si può pensare alla minuscola biblioteca che, Pasquale si era formata, e che teneva presso di sé nella grotta di Costalarga, senza considerare quei valori culturali che alimentavano il suo concreto atteggiarsi di fronte ai casi della vita: la lealtà cavalleresca, il senso primordiale e istintivo della giustizia, il disprezzo verso coloro che violavano, per viltà o per interesse, le norme del piu antico codice d'onore.
Elementi tutti che si ritrovano nei Reali di Francia, che, insieme col barbanera e l'abbecedario, fornivano la somma delle letture emblematiche del capobrigante. A certi atteggiamenti espressi dai Reali di Francia, ma già"assorbiti dal substrato ideologico dell'opera dei pupi, egli credette in qualche modo di poter conformare la sua azione extralegale, ispirato da quell' «animus mafioso» che Ettore Li Gotti attribuiva, appunto, ai pupi siciliani54. (La mafiosità è qui da intendere nel senso piu propriamente psicologico e di costume.) A suo modo Pasquale educava se stesso e i suoi compagni, ai quali forse leggeva nelle sere di luna piena brani di quel libro. La lettura dei Reali di Francia lo avrà infiammato di entusiasmi cavallereschi, consente n­dogli di riprendere animo dopo le estenuanti fatiche degli scontri a fuoco e le ansie della fuga55. È anche probabile che il brigante abbia assistito nella sua adolescenza a qualcuna delle rappresentazioni dell'0pra dei pupi, che proprio in quegli anni cominciava ad essere portata nei comuni dell'entroterra palermitano, da Carini ad Alcamo56.

54 E. LI GOTII, 1/ teatro dei pupi, Firenze 1959 (n. ed. Palermo 1978), p. 31. Allo stesso fenomeno presta la sua attenzione Cammareri Scurti nei citati articoli su La mafia e il risanamento morale: «Che lo spirito cavalleresco è il fratello germano della mafia si prova con il culto dei mafiosi per le prodezze dei Paladini nel teatro dei burattini e nel romanzo dei Reali di Francia < ... > La mafia siciliana trovò, nei paladini uccisori di pagani e di saraceni, i nobili rappresentanti e la santità della causa della violenza personale. Il culto per la forza brutale che si svolge in forma artistica, ecco la ragione del favore popolare delle scene cavalleresche nel teatro dei burattini» (cfr. «Il Diritto alla Vita», n. 7 del 17 dicembre 1899). Però contro l'opinione, diffusa dai giornali, che l'opra costituisse un incitamento alla delinquenza si levò in quegli anni il Pitrè, che dovette difendere i pupari (v. G. PITRÈ, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, I, Bologna 1889, pp. 275-80). Sulle tradizioni cavalleresche in Sicilia, oltre al citato lavoro di Pitrè (pp. 121-341), v. anche A. PASQUALINO, Per una analisi morfologica della letteratura cavalleresca: i Reali di Francia, in «Uomo e cultura», Palermo, III (1970), nn. 5-6, pp. 76-194; A. BUTIITIA, Strutture morfologiche e strutture ideologiche nelle storie dei cantastorie siciliani, ivi, V (1972), n. IO, pp. 159-78.
55 Con ogni probabilità l'edizione dei Reali di Francia posseduta dal brigante era quella di Giusto Lodico, pubblicata a Palermo presso G.B. Gaudiano tra il 1858 e il 1862. (Ristampa a cura di F. Cammarata, Storia dei Paladini di Francia, Trapani 1971-72). Alle stampe ottocentesche dei Reali di Francia accenna il Pitrè: «Il solo tipografo Giovanni Anello ne fece quattro, che i caminanti, cioè i venditori ambulanti di stampe e libretti popolari, vendevano pe' vari paesi, e delle quali nessuna traccia rimane nelle nostre biblioteche pubbliche. Una edizione palermitana illustrata con vignette ne diede dopo il 1860 il tipografo-editore G.B. Gaudiano; e può dirsi bravo chi ne trova un esemplare» (cfr. G. PITRÈ, Usi e costumi, p. 183, nota I). Non mancavano nel repertorio dei pupari le storie di briganti celebri come Sataliviti e Testalonga (v. A. UCCELLO, Copioni di briganti nel repertorio dell'opera, in «Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani», Palermo, IX (1965), pp. 354-70).
56 «La data vera della "nascita" dell'opra è inutile cercarla, perché < ... > non vi fu "nascita" e si trattò piu che altro di una innovazione, che possiamo anche indirettamente, per esempio attraverso alle indicazioni che ci offrono le pitture dei carretti e l'apparizione delle dispense della Storia del Lodico, fissare all'incirca attorno al 1850» (cfr. E. LI GOTII, 1/ teatro dei pupi, p. 42). Sul teatro delle marionette, e sulla sua diffusione nell'isola, v. anche G. PITRÈ, Usi e costumi, pp. 121-76. Una recente monografia ha dedicato all'argomento A. PASQUALINO, L'opera dei pupi, Palermo (Sellerio) 1977.

Oppure è possibile che i racconti dell'epos carolingio Pasquale li abbia ascoltati da uno dei tanti contastorie che giravano per i paesi57. Dall'ipòstasi cavalleresca alle prefigurazioni dettate dall'astrologo di Foligno. Nel Barbanera per l'anno 1870, oltre ai consigli pratici di agricoltura (stagioni e fasi lunari, semina e raccolto, proverbi agrari), Pasquale probabilmente cercava un segno delle proprie inesplicabili fortune. Libertà, onore, morte? Mito e sortilegio (passato e avvenire) cosi si fondevano in una concezione del vivere eternamente sospesa tra speranze irrisolte e fatalistiche attese. Il desiderio d'istruirsi, la conquista sia pur minima dell'alfabeto sono infine comprovati dal possesso di un abbecedario. Quale uso ne abbia potuto fare il capobrigante, che ufficialmente risultava essere «illetterato», ci è possibile conoscere attraverso le due uniche testimo­nianze grafiche rimasteci, qualificate come «lettere di scrocco» nell'in­ventario fornito dai militi, ma in realtà semplici richieste d'indumenti e denaro indirizzate a proprietari del luogo. Appartengono pure alla cultura del brigante gli oggetti rinvenutigli addosso dopo l'ultimo conflitto con la forza pubblica: «una quantità d'immagini di Santi, un Crocifisso di rame»58. Si tratta di quella devozione per l'iconografia sacra che prospera su un terreno sostan­zialmente feticistico quale è quello della religiosità contadina. Il con­tadino devoto delle immagini di santi vi sa scorgere assolute potenzialità d'intervento, per il bene e per il male (proprio e altrui): il suo sentimento dell'arcano non ha perduto con la fede cristiana i vecchi attributi magici.

57 Sui contastorie, che narravano il cuntu, recitando a memoria (mentre i cantastorie «cantavano al popolo storie e leggende scritte in poesia»), v. ancora G. PITRÈ nella citata raccolta di Usi e costumi (pp. 177-216).
58 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 5, fase. 105; verbale di arresto di Maria Mistretta, 2 marzo 1870. Analogo inventario nel caso degli altri briganti: «un sacchetti no di mussolo a colore con immagini di Santi» (verbale di arresto di Giuseppe Lipari, Vincenzo La Rocca, Francesco Plescia e Andrea Piazza, 2 novembre 1869; ivi, b. 3, fase. 51 e b. 4, fase. 82-83); un sacchetto di panno sgarlato «pieno di effigi di diversi santi, ed un altro col libretto delle orazioni di S. Francesco di Paolo» (verbale di arresto di Antonino Mistretta, 12 gennaio 1870; ivi, b. 4, fase. 93-94).

La filiale preoccupazione per la sorte toccata al padre, carcerato per causa sua, domina anche i momenti dell'azione extralegale; ed è presente nelle sollecitazioni che egli rivolge a un sacerdote del luogo affinché interceda presso il re onde farlo liberare: «Come aprii pel primo mi chiamò fuori Pasquale Turrigiano, il quale «...» mi disse imprecando contro Dio che ad ogni costo dovea far di tutto per io fargli escarcerare il padre, recandomi ove occorrea in Firenze a supplicare il Re «...». Il Turrigiano proseguiva colle minacce, e finalmente dandomi un morso nella gota destra mi disse: "Si rammenti di questo morso onde eseguire assolutamente l'incarico che gli dò"»59. Ad ogni modo, i sentimenti di affetto e fedeltà verso i propri congiunti rientrano in quei valori rappresentati dal culto della famiglia, della sua unità e tradizione, che sono ben saldi tra i contadini siciliani. D'altro canto, non mancavano nella banda le affinità familiari: almeno sette briganti erano legati tra loro da vincoli di parentela60.

59 [vi, b. 3, fasc. 47; verbale di querela del sacerdote crocifero Pietro Coppola, 5 novembre 1869.
60 Lo zio e il nipote del capobrigante; i tre fratelli Cajozzo; Antonino Mistretta, cognato di Camillo Cajozzo. Numerosi erano poi tra i manutengoli i parenti dei briganti.

Lo sfondo psicologico della cultura contadina è perciò visibile nel comportamento del capo brigante. Lo è meno caratterizzato in quello degli altri componenti la banda, ai quali evidentemente non era consentito, per un minor grado di prestigio e valentia, di uniformarsi a quel modello ideale di vita che Pasquale si era voluto foggiare.
È probabile, infine, che Turriciano pensasse ad una possibile reintegrazione nella vita civile. Non è altrimenti spiegabile la strana richiesta che egli avanzò a un proprietario dello Spàracio per ottenere «un pezzo di terreno»61.

61 [vi, b. 4, fasc. 92; nota informativa del pretore di Castellammare al procuratore del re, 23 ottobre 1869. Piuttosto che la mentalità o il comportamento dei banditi (temi dominanti dell'epica pseudopopolare dei cantastorie) hanno risalto storico nella vicenda brigantesca i rapporti con l'economia locale e il ruolo politico eventualmente assunto in certi contesti sociali. Su tali aspetti e, in genere, sulla storia della «marginalità sociale» non esiste ancora una congrua bibliografia, che sia frutto di ricerche sui documenti seriali degli archivi penali (v. 1.C. SCHMITT per i metodi d'indagine sulla Storia dei marginali, in Nouvelle histoire, a cura di J. Le Goff (Paris 1979; trad. it. Milano 1980, pp. 257-87) e gli atti del convegno di Mondovi (19-20 giugno 1982) su «Rivolte, banditismo e conflittualità rurale»).

Se tale richiesta poteva apparire assurda per lo stato di illegalità in cui il capo brigante si trovava, essa è però comprensibile se riportata negli schemi della particolare mentalità del contadino povero, le cui costanti preoccupazioni erano, appunto, quelle di accedere al possesso individuale della terra. E forse a Pasquale sarebbe bastato, piu che il possesso legale, almeno la parvenza del bene posseduto.


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