Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

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RIBELLI E MAFIOSI NEL TRAMONTO DEL BRIGANTAGGIO SOCIALE


6. Banditismo e reazione politica. Le squadre del '66


Tra le tendenze emergenti nella società contadina, tra le ribellioni individuali e le rivolte sociali contro i nuovi gruppi dirigenti, s'inseri pure, nel settembre 1866, un tentativo d'insurrezione politica collegato coi noti fatti di Palermo. Incerti però ne erano i segni organizzati vi, equivoca la simbologia (bandiere rosse ed evviva alla repubblica). Pur fra contrastanti interpretazioni storiografiche (conato presocialistico, privo tuttavia di capacitàegemoniche, e moto inconsulto di plebi affamate, sapientemente manovrato dalla mafia), non si sa ancora con precisione quale ruolo avessero svolto in tale circostanza le squadre contadine venute in città e quelle che, per breve tempo, operarono nei paesi dell'entro terra palermitano. Le fonti archivistiche non sorreggono molto il nostro specifico interesse; e le testimonianze dei contem­poranei ignorano peculiarità e circostanze dell'evento rurale. Il carattere e le finalità politiche, i nuclei direttivi, la composizione sociale di quelle squadre ci restano perciò ignoti62

62 Si rimanda, per un'approfondita discussione sull'argomento, alle rassegne sto rio­grafiche di S. Massimo Ganci e F. Brancato, pubblicate nei «Nuovi quaderni del meridio­ne», Palermo, a. IV (1966), ottobre-dicembre, n. 16, pp. 381-418, 525-55. Il fenomeno delle squadre e della guerriglia contadina in Sicilia è stato finora studiato soltanto come diretta conseguenza dei movimenti politici succedutisi, dal 1820 al 1866, nella capitale dell'isola, con qualche sporadica concessione, d'intenti ideologici piu che metodo logici, alla natura sociale del fenomeno stesso. Ma che cosa, in fondo, costituisse nella sostanziale continuità degli episodi ribellistici quel legame di capi e di tecniche, oltre che di rivendicazioni economiche e sociali, che è possibile riscontrare perfino attraverso la reiterata presenza nelle squadre degli stessi partecipanti, è argomento tuttora pressoché inesplorato. Che poi non si tratti di mere iniziative brigantesche, ma di una tattica politico-militare che rientra negli schemi teorici del Risorgimento, lo dimostra anzitutto l'interesse manifestato verso la «guerra per bande» dai democratici, prima, e dagli anarchici, dopo (v. F. DELLA PERUTA, La banda del Matese e la teoria anarchica della moderna «Jacquerie» in Italia, in «Movi­mento Operaio», Milano, a. VI (1954), maggio-giugno, n. 3, pp. 337-84; ora in Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma 1965, pp. 247-84). L'esperienza dei fasci , infatti, col ripudio ideologico dell'insurrezione, non consentirà piu la replica della guerriglia contadina, pur nella situazione di aperta ribellione determinatasi tra il '93 e il '94 nelle campagne dell'isola.

Un'indagine di tal genere è possibile solo sulla base dei documenti conservati negli archivi locali, nonché dei processi intentati a quanti in qualche modo ebbero parte in quei fatti. Un contributo esplicativo può pure venire, nei casi piu fortunati, dalla tradizione popolare di canti e poesie che in certe zone è ancora viva. È questo il materiale documentario utilizzato per la ricostruzione che ora qui si tenta di fare.
Pur senza avere caratteri di esemplarità, le risonanze contadine della rivolta palermitana del16 settembre 1866 che si ebbero in loeo gettano un po' di luce sui collegamenti tra città e campagna.
Le prime notizie sulla presenza di bande armate nel territorio ci vengono dalle denunzie presentate, il 25 settembre del '66, da alcuni proprietari di Calatafimi: una ventina d'individui, «con berretta rossa in testa», avevano invaso le loro terre, depredando armi, pane e vino63. Le denunzie, per altro sollecitate dalle autorità del luogo, appaiono piuttosto come un espediente formale onde evitare possibili, future compro missioni. (Alcuni dei giovani congiunti degli stessi proprietari erano stati frattanto «persuasi a forza» a seguire le bande in armi). In realtà, il reclutamento delle squadre era avvenuto qualche giorno prima (almeno dal 20) e, secondo quanto avrebbe dichiarato al giudice Salvatore Cajozzo, «senza soldo»64. Il numero dei picciotti che le componevano non fu mai superiore alle cento unità, sebbene una testimonianza oculare riferisse di averne contati nell'adunanza del 27 settembre almeno trecento65. Del resto, nel poemetto piu volte citato di Camillo Cajozzo, che contiene elementi molto interessanti sulla vicenda, si parla espressamente di 90 e 100 armati (tutti novanta boni di sparari; str. 51, v. 6). Le fonti ufficiali poterono precisare meglio tale numero, attingendo da informazioni riservate, probabilmente da qualcuno dei partecipanti alla sedizione. Alle squadre locali si erano uniti «alcuni fuggitivi da Palermo», che avevano animato alla resistenza: «Con questo mezzo avevano potuto riunire N. 86 uomini, molti dei quali però profittando delle varie occasioni fuggirono»66.

63 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 2, fase. 28; dichiarazioni dei borgesi di Calatafimi, 25 settembre 1866.
64 «Sono stato insieme col famosissimo Turrigiano Pasquale nelle campagne Frag­ginesi, disarmando a chiunque incontravamo in quelle contrade, reclutando uomini senza soldo, ed alcun'altri forzosamente per cosi portarci in Palermo a far fronte contro la truppa» (ivi, b. 2, fase. 36; verbale di arresto di Salvatore Cajozzo, IO febbraio 1867).
65 «Ieri sera è rientrato in Castellammare il nominato Cusenza Ignazio, milite della guardia mobile. Egli racconta che rimasto in mano dei briganti nel combattimento di jeri l'altro fu da essi trasportato sotto Baida, e quindi la notte al bosco di Scopello ove pernottarono. Che l'altra sera il capo banda Torrigiano, fatta fare la rassegna dai suoi briganti, ne mancavano tre. Che il numero di tutti i malfattori ascendeva a circa trecento, numero questo però che mi pare non solo esagerato, ma impossibile» (cfr. nota del delegato di p.s. di Castellammare al prefetto di Trapani, 29 settembre 1866, in AST, Pref, Gab., b. I, fase. 5).
66 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 2, fase. 30; rapporto dei carabinieri della compagnia di Trapani al procuratore del re, 30 settembre 1866.

Individuati poi dalle autorità locali i nomi di 35 degli 86 membri delle squadre (oltre ad una ventina di banditi, qualificati come tali), fu anche possibile indicare la loro posizione sociale. Ciò che venne annotato nei rapporti inviati, in date diverse, al tribunale di Trapani. Sorprende, intanto, che la maggioranza sia costituita da rappresentanti di quel medio ceto rurale, formato da proprietari, borgesi e campieri, che non poteva avere interesse a compromettere il proprio stato con un atto di ribellione. I villici, cioè i contadini poveri, erano soltanto 12, e 4 i bovari. Nessuno invece proveniva dagli ambienti paesani dell'artigianato, dei piccoli negozi e della marineria67. La presenza, inoltre, tra le fila dei rivoltosi di una componente sociale assai sospetta come quella degli «adepti alla mafia» era suffragata dagli attestati di moralità, redatti da parroci e sindaci, i quali vi annoveravano ben nove dei componenti le squadre. Eppure quegli attestati non sempre diceva­no tutta la verità sui personaggi grandi e piccoli del sottobosco mafioso castellammarese68.

67 [vi, b. 2, fase. 28,29,30; note del 30 settembre 1866,26 luglio 1869, 15 febbraio 1870. Secondo gli elenchi forniti al tribunale da polizia e carabinieri, i proprietari e i borgesi (questi ultimi, a volte, indicati egualmente come proprietari) assommavano a 13 e i campieri a 6. Molti, in seguito, compariranno nelle file del manutengolismo locale. 68 Gli «attestati di moralità» già distinguono (siamo alla fine del '66) tra mafiosi e camorristi: il possidente Domenico Gennaci, per es., è «adepto alla mafia»; il saccaio Vincenzo di Giorgio è invece «versato nella mafia e nella camorra». La condotta dei Buffa «era oltremodo sospetta per appartenersi alla mafia e avere relazioni coi camorristi e malandrini del paese)) (ivi, b. 4, fasc. 86). Quanto alle reticenze delle autorità locali, l'allora procuratore generale del re presso la Corte d'Appello di Palermo, Diego Tajani, richiamava l'attenzione del suo collega trapanese sulla sospetta imprecisione degli «attestati di mora­lità)) da loro redatti: «Nel rimettere alla S.V. il processo a carico di Gervasi Giacinto pel giudizio di cotesta Corte di Assisie, credo non inutile avvertirla di chiamare il Signor Marcantonio come testimone perché potrebbe spiegare le ragioni che gli dettarono il certificato laconico di moralità da lui rilasciato nel 1866, in qualità di Sindaco di Castel­lammare pel sudetto Gervasi)) (ivi, b. I, fasc. 7; nota del 28 novembre 1870).

Si può avanzare un'ipotesi, conforme, del resto, a quanto si è potuto vedere a proposito del comportamento dei mafiosi del luogo durante la rivolta del gennaio 1862 contro i cutrara. L'occasione che si presentava d'intervenire nella vicenda era tale da essere sfruttata ­ al di là di un preciso intento politico - con una finalità ambivalente: per acquisire comunque prestigio e rispetto, qualità necessarie all'acquisto di sperate fortune economiche; per la possibilità di offrirsi eventualmente come elemento di mediazione tra interessi sociali contrapposti. Cadute tali possibilità di fronte alla reazione militare, i picciotti delle squadre credettero piu opportuno abbandonare il campo e tornarsene a casa.
Non ostante l'equivoca inserzione mafiosa, le aspirazioni sociali che spingevano i ceti contadini piu poveri alla ribellione erano piuttosto evidenti. Non se ne fa cenno nelle carte processuali, in quanto esse erano pur sempre riconducibili sotto il profilo giuridico in quel gene­rico sentimento di cupidità che, a parere dei giudici, costituiva l'unica molla capace di fare scattare l'insensata furia del povero. Pure il cancelliere che mise a verbale le dichiarazioni di uno dei fratelli Cajozzo non dimenticò di trascrivere una frase di costui dal significato assai trasparente: «Nell'epoca dei tristi fatti di Palermo andavamo tutti quanti percorrendo le campagne Fraginesi, allo scopo di riunire un buon numero di persone per armarle, onde partire per Palermo, ed abbattere l'attuale ordine delle cose. Di fatti il capo-banda Turrigiano, essendo si allontanato poche ore da noi, e portandosi in ex feudo Inici, ritornò con una bandiera rossa, e noi, come dissi, avuta quella bandie­ra, percorrevamo le campagne Fraginesi, forzavamo delle persone a seguirci, l'armavamo, e poi al grido "Viva la Repubblica" andavamo per le case dei proprietari obbligandoli a darci da mangiare, perché ciò che noi andavamo praticando era il bene per tutti »69.
Piu chiari i riferimenti che in questo senso si trovano nella Sique­ra. Alla vicenda legata al tentativo di rivolta del 1866 Camillo Cajozzo dedicò alcune delle sue ottave (str. 46-61). Composto poco prima che il suo autore fosse arrestato, e quindi praticamente in periodo coevo agli eventi narrati, il poemetto costituisce una testimonianza, finora inedita, unica nel suo genere. Le fonti demologiche sul '66, raccolte dai piu noti folc1oristi siciliani, si limitano a qualche breve canto d'intona­zione popolaresca e, financo, d'ispirazione borghese e monarchica70.

69 [vi, b. 2, fasc. 30; interrogatorio di Salvatore Cajozzo, 13 febbraio 1867. Nel testo il corsivo è mio.
70 Due componimenti sulla rivoluzione palermitana del '66, scelti tra altri ritenuti impubblicabili, furono inclusi da Salvatore Salomone Marino nella sua raccolta di Leggende popolari siciliane in poesia, Palermo 1880, pp. 372-83. (Si trovano pure nei Canti sociali italiani, a cura di R. Leydi, Milano 1963, pp. 254-67). Tuttavia i criteri da lui adottati, come da altri studiosi di folclore, per l'edizione dei canti popolari d'ispirazione politica e sociale erano alquanto restrittivi; e sottoposti per di piu al veto di un giudizio moralistico sul loro autentico valore di testimonianza demologica. Sicché quella particolare concezione della storia e della società, espressa dal mondo popolare attraverso le sue manifestazioni di cultura, cui accennava Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950, pp. 220-21), ne risultava gravemente deformata sotto gli aspetti di un vieto regionalismo di colore. Pur ritenendo ormai superati i limiti del concetto di "popolare" con le annesse fenomenologie di tradizioni, usi, costumi, credenze e usi cui ci aveva abituati la letteratura romantico-po­sitivista, accolta del resto dagli orientamenti del gramscianesimo, resta tuttavia a individuare la contrapposizione popolare/dotto l'acquisizione di mentalità (v. c. PRANDI, Popolare, in Enciclopedia, X, Torino 1980, pp. 880-910). Il milieu antropologico delle classi subalterne appare comunque diversificato, con operazioni di scambio e di mutuazioni dialettiche fra cultura egemonica e cultura subaltema che si presentano spesso in forme omologhe e difficilmente circoscrivibili. Ne è testimonianza proprio la tradizione demologica a carat­tere politico-sociale che è pervenuta attraverso i folcloristi siciliani del secolo scorso. Sui due piu noti rappresentanti della scuola "demopsicologica" siciliana, v. gli atti del Conve­gno di studi per il 50° anniversario della morte di Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino pubblicati a cura dell'Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari (Palermo 1968).

Il componimento del brigante/poeta Cajozzo, invece, dà voce imme­diata alle passioni di una stagione difocu e di grira che ebbe in Pasquale Turriciano il suo eroe. Cajozzo recita la sua chanson de geste con toni estremamente schietti e perfino arroganti, ricuperando al ricordo i simboli e i non astratti furori di una ribellione armata di cui intuisce, e confusamente condivide, le inesorabili potenzialità antiborghesi. Perciò il suo comportamento riflette bene quel «modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale», che Gramsci pensava costituisse il tratto veramente distintivo del canto popolare.
La notizia che le squadre rurali erano entrate a Palermo per appoggiare l'insurrezione popolare giunse presto a Castellammare. La vuci forti, il grido levato dai rivoltosi in tale circostanza era stato di evviva alla repubblica, ovvero Reppfucchica, come trascrive dal detta­to del poeta colui che raccolse le sue ottave: deformazione lessicale di un'idea ancor pili incerta e deformata di mutamento politico e sociale che troverà riscontro nei successivi versi (A nui n'hannu arrivatu li m ascia ti, / chi fu munnu vutau, nun è chiu com'era; str. 52, vv. 5-6).
Molteplici, e d'inequivocabile significato, gli episodi cui si accen­na, tutti riferentisi ai modi in cui si attua la ribellione. Anzitutto, la spinta all'organizzazione delle squadre nelle campagne viene dal comi­tato rivoluzionario di Palermo, o da qualcuno dei suoi membri, che tenta in questo modo di collegarsi con lo scontento esistente tra i contadini. Ci si preoccupa perciò d'inviare un curreri di suspiru presso il capobrigante, di cui certamente si conoscono, oltre all'eccezionale audacia, gl'impulsi etico-sociali che lo hanno spinto alla ribellione. C'è però la richiesta di un concreto beneficio sociale, oltre che giudiziario (amnistia o grazia), che viene dagli sbannuti, preoccupati di assicurare alle proprie famiglie un'esistenza meno incerta e disagiata. Le parole che il messo palermitano indirizza ai picciotti, accettando la sostanza delle loro rivendicazioni, offrono qualcosa di piu di una vaga promessa di giustizia: ci sono la libertà, l'utile economico, l'affermazione di un diritto alla vita, sia pure rozzo e primordiale: Soccu diciti vui su' cosi veri, / viniti ddani e truvati dinari; / nun pinza ti né matri né muggheri, / si chi spranza c'è d'allibbirtari (str. 48, vv. 2-5).
Non ostante questi contatti col centro politico della rivolta, l'or­ganizzazione dei nuclei di guerriglia rimane differenziata in gruppi isolati d'intervento, come riflesso atipico di situazioni locali. E in effetti il tentativo di affidare alle squadre omogeneità di fini tattici, con ogni probabilità perseguito dall'alcamese Giuseppe Pace (che le fonti ufficiali ci indicano come figura non marginale del banditismo alimen­tato dalla renitenza alla leva), appare frustrato dalle resistenze municipalistiche di Turriciano. Come riferisce Cajozzo in quest'altra sua ottava: Mentri chi pi li manu guerra avemu / a li palermitani aiutu damu. / Arrispunniu un picciottu: - Ad Arcamu emu, / la testa a li cutrara ci scippamu. - / A rrispun niu Pasquali: - Nun ci vinemu, / pi lu nostru paisi nui pinsamu. - (str. 50, vv. 3-8).
L'incitamento rivolto dal picciotto alcamese ai compagni per sollevare il suo paese e compiere li la strage dei cutrara esprime sentimenti comuni di rancore e di protesta. Tuttavia il rifiuto del capo brigante ~d accogliere una simile proposta appare come indizio del persistente «modello» a cui egli si richiama per sostenere il mito feudale della fedeltà al proprio borgo: seppure lo stesso mito viene poi risolto nella chiave, tutta siciliana, del particulare e pratico interesse municipale (ognuno pensa pi lu sò appaltatu; str. 51, v. 1).
Ed ecco ci all'episodio della bandiera. Qualcuno si preoccupò di dare ai ribelli un'insegna che in quel momento - si deve pensare - non ha valore propriamente politico, ma di sfida. È un segnale di raccolta che, insieme col grido inneggiante alla repubblica, compare sempre nelle rivolte popolari di quegli anni (c'era pure tra gl'insorti contro i cutrara nel '62). I giudici cercarono d'individuare, nella ricerca delle responsabilità originarie, la mano che affidò a Pasquale Turriciano la bandiera rossa. Riuscirono infatti a conoscere la persona, il luogo, le circostanze riguardanti tale episodio; ma non poterono risalire ai capi, alla «mente direttiva» della sedizione armata, come avrebbero voluto.
In realtà non pare che esistesse un piano «reazionario», di segno repubblicano o borbonico-clericale, che in qualche modo l'abbia preparata. Però il nome della persona che consegnò materialmente al capobrigante il vessillo della rivolta ci induce a pensare che, anche qui, la mafia non abbia voluto estraniarsi dalla vicenda: Agostino Randaz­zo, ritenuto dalle autorità locali come mafioso e manutengolo, era curatolo nella fattoria d'Inici di proprietà del marchese Cardillo, un esponente dell'aristocrazia palermitana che comunque non figura tra i personaggi implicati nei fatti avvenuti nel capoluogo siciliano71. Randazzo (51 anni, nativo di Borgetto) subito dopo lascerà il suo posto ad Inici, trasferendosi altrove72.
Camillo Cajozzo conferma sostanzialmente l'apporto esterno del vessillo alle squadre: A lnici arrivau la nostra schiera, / eramu centu tutti centu armati, / e ddà ni la purtaru la bannera (str. 52, vv. 2-4). Un po' tutti gli altri episodi della ribellione di quello scorcio di settem­bre trovano nel poemetto piu o meno precisi richiami. (Il tono forte­mente allusivo e metaforico di alcuni versi è però a volte difficilmente decifrabile in termini di obiettivo riscontro storico). Dallo sbarco dei soldati alle raccomandazioni tattiche del capobrigante (Picciotti, chianu nun n 'a t'a pigghiari; str. 53, v. 4); dallo scontro a fuoco di Castellaccio, dove soltanto dodici sbannuti dovettero affrontare l'urto straripante dei militari (trimmila di surdati aviamu allatu; str. 60, v. 8), al memorabile «processo» in cui fu decisa ed eseguita, secondo il giudizio dell'occhio per occhio, la condanna a morte del carabiniere; dallo sbandamento tra gli assalitori (fu juiutu ci ficimu pigghiari; str. 56, n. 4) all'approccio tentato da Turriciano col comando del 10° Reggimento per trattare il ritiro delle truppe dai luoghi dove stanziava la sua banda 73.

71 I Cardillo o Cardile, originari di Messina, furono marchesi dal 1772 per conces­sione di Carlo III (v. F.M. EMANUELE E GAETANI, marchese di Villabianca, Appendice alla Sicilia Nobile, to. I, Palermo 1775, pp. 497-98). Acquistarono il feudo d'Inici, proveniente dal patrimonio ex gesuitico, nel 1779.
72 AST , Corte d'Assise, Processi penali, b. 2, fase. 29-30. Il baglio d'lnici, che ora si trova in condizioni di grave decadimento strutturale, costitul il centro operativo delle squadre del '66, e in seguito sarebbe stato per la sua posizione isolata tra le montagne uno dei rifugi piu sicuri della banda Turriciano.
73 Per quest'ultimo episodio, oltre alla str. 60 della Siquera, si veda il rapporto del commissario di p.s. al pretore di Castellammare, 28 settembre 1866 (ivi, b. 2, fase. 30), che vi accenna esplicitamente: «I briganti gli mandarono uno dei soldati loro prigioniero ad intimargli di lasciare le armi ed andarsene. Ciò ch'egli non fece ritenendo invece il soldato».

Dopo l'operazione, tutt'altro che efficace, condotta in quei giorni dalla forza pubblica, parve piu opportuno per la lotta contro i fuorilegge tener conto dell'ambito sociale in cui gli stessi agivano, onde recidere i legami che si erano frattanto stabiliti tra banditismo e manutengolismo locale. In pratica la coesistenza del brigantaggio con le attività della mafia permise di accrescere il ruolo degli «uomini di rispetto», mediante l'uso della violenza come fattore funzionale al sistema di intermediazione e di profitto instaurato dai gruppi economici parassitari.


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