Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

LA PATRIA ARMATA di Salvatore Costanza


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TESTIMONIANZE ETNOSTORICHE


Premessa


Si è voluto scegliere per il poemetto inedito che qui si pubblica un titolo che ne potesse richiamare il motivo/guida, l'intrinseco suo signi­ficato o valore di cultura: il termine siquera non appartiene solo alla semantica giudiziaria del secolo x/x (la Giustizia che insegue i ricerca­ti), ma è anche nell'accezione piu chiusa di un certo siciliano degli ambienti di mafia, che vi indicano la caccia rabbiosa degli sbirri. C'è una logica elementare alla base del componimento poetico: gli 'nfami hanno provocato, con le loro ingiurie, la giusta reazione degl'ingiuriati, nei modi consentiti dal codice d'onore. La Giustizia, che ha un compor­tamento indecifrabile agli occhi dei perseguitati, si accanisce contro di loro. Sfuggire alla siquera di carabinieri e militi a cavallo, magari riproducendo a catena le occasioni del delitto, non è solo facoltà di difesa (lu fuiri è virtu ed è sarvamentu; str. 30, v. 7), ma pure rifiuto dell'ingiustizia e terribile sfida contro le infamità.
Nessun titolo, quindi, figura nel manoscritto che, oltre ad essere anepigrafo, non reca nemmeno il nome dell'autore delle ottave siciliane dedicate alla vicenda brigantesca di Pasquale Turriciano e dei suoi compagni. L'esame del testo, nonché gli atti processuali relativi alla banda (1865-71), ci aiutano però a fissare !'identità del poeta popolare. Si tratta del brigante Camillo Cajozzo, di cui era già nota l'attitudine a verseggiare (v. S. SALOMONE MARINO, Leggende popolari siciliane in poesia, Palermo 1880, p. 265). Prove contestuali di tale identità sono, anzitutto, l'ammissione del ruolo eminente assunto da Cajozzo nella vicenda (ottave 6, 10 e 19), e poi i riferimenti espliciti ai fratelli Vito e Salvatore, componenti della banda (ottave 58, 70-73). Del resto, Cajozzo aveva dichiarato al pretore di Castellammare di essere analfabeta, ma incline alla poesia: «Fui sempre di umore ilare e festoso, ed allo spesso la mia lena poetica non venne meno al mio genio» (cfr. AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 4, fasc. 102).
Davanti ai giudici della Corte d'Assise di Trapani, il brigante/poeta si difese recitando una sua «memoria» in ottave siciliane, che fu in seguito stampata su un foglio volante di mm 205 x 275 (Difesa di Camillo Cajozzo da Castellammare di Sicilia composta da lui stesso, Trapani, tipo Modica-Romano, s.d.). La singolare memoria difensiva constava di 18 ottave: cominciava con l'invocazione Domini Patri e mi fazzu la croci / di Figghiu e Santu Spiritu 'ncarnatu; si chiudeva con il distico Sti versi fici cu la menti varia / vutativilli pi la so' mimoria. Secondo il demologo Salomone Marino, che l'ebbe tra le sue carte, ma che non ritenne di ripubblicarla, la stampa era «della fine del 1874 o principio del 1875» (cfr. s. SALOMONE MARINO, Le storie popolari in poesia siciliana, messe a stampa dal secolo XV ai di nostri, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», Palermo, XV; 1896, pp. 188-89).
Nato a Castellammare del Golfo il 19 aprile 1838 da Vincenzo e Maria Stella Galioto (AST, Registro degli atti di nascita del Comune di Castellammare, 1838, voI. 21, atto n. 97), Cajozzo sposò nel 1862 la diciassettenne Maria Mistretta, sorella del brigante Antonino. Si uni alla banda Turriciano alla fine del '65, perché accusato «ingiustamen­te» dell'assassinio di Pietro Stabile, massaro di Calatafimi. (Prima di quel delitto egli era, come i fratelli Vito e Salvatore, incensurato.) Da allora partecipò a quasi tutti i fatti criminosi della banda. Catturato nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1869, e rinviato a giudizio per gravissime imputazioni (ribellione e associazione a delinquere, omicidi, estorsioni ed abigeati), fu condannato dal tribunale di Trapani, il 14 dicembre 1871, alla pena 'di morte mediante decapitazione (AST, Corte d'Assise, Sentenze, 1871, n. 81). Per vizi formali, sostenuti alla Corte d'Appello di Palermo dal celebre avvocato Simone Cuccia, la sentenza gli fu successivamente annullata; ma la Corte d'Assise di Trapani gliela confermò, con lo stesso aggravio di pena, il 28 gennaio 1879. L'estrema condanna gli fu però risparmiata. Commutatagli la pena nei lavori forzati a vita, poté tornare a Castellammare quarant'anni dopo e morire nella sua casa di via dei Caprai 80 il 5 febbraio 1924.
Caiozzo possedeva qualcosa (un fondo stimato dall'ufficio delle imposte duemila lire), ed era l'unico della banda che per la sua condi­zione di borgese e «possidente» non potesse considerarsi un vero disere­dato. Per la sua identificazione durante la latitanza, i carabinieri forni­rono questi dati somatici: altezza m 1,66; corporatura robusta; capelli castagni, naso grossetto, occhi cerulei, fronte alta, mento rotondo, bocca media, barba nera, colorito naturale (AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 3, fase. 55).
La storia di cui trattasi ne La Siquera è narrata in prima persona dal brigante. Nel quaderno che la contiene, sono inserite altre tre brevi canzuni composte, rispettivamente, di 18, 8 e 16 ottave siciliane. In una di esse è anche il nome dell'autore (A Rusariu Mulé l'at' a scusari / siddu 'un su' cunzunanti sti canzuni). La scrittura appare di segno uguale per tutte le canzuni, compresa la Siquera; ma riguardo a quest'ultima Rosario Mulé dovette limitarsi a trascrivere quanto aveva ascoltato direttamente o mediante la tradizione orale. È una congettura che muove dal confronto tra i vari componimenti, dove è ben manifesto il divario, di estro e di linguaggio, tra le ottave deluse, risentite di Camillo Caiozzo e la mediocre ripresa del motivo dell'onuri nei versi di Mulé.
La Siquera consta di 74 ottave (592 versi in rima alternata). Nel manoscritto, cartaceo, che misura mm 100 x 150, il poemetto occupa le pagine (non numerate) da 1 a 37. Le altre canzuni sono storie catalogiche di 'nfami, contro cui il poeta si scaglia, sfruttando certe risorse verbali del baccagghiu mafioso.
Almeno per le ottave (con ogni probabilità, estemporanee) di Ca­millo Caiozzo, la data di composizione si può stabilire intorno al 186 7. Non prima del febbraio di quell'anno, perché l'ultimo episodio cui si accenna è la cattura dei fratelli Vito e Salvatore. Però il poeta, mentre racconta la sua storia, è ancora in libertà (ottava 74); ché, altrimenti, avrebbe ricordato altri particolari, e anzitutto la morte del capobrigante. Caiozzo, quindi, dettò i versi de La Siquera durante la sua latitanza. Rimasero essi ignorati e nascosti, perché si temeva che potessero costi­tuire materia compromettente di fronte alla Giustizia: cosi pensava ancora l'anziana discendente dei Turriciano presso cui li abbiamo ritrovati in circostanze affatto casuali. E perciò il testo, non sottoposto a quel continuo processo di rielaborazione che è caratteristico del canto popolare, riproduce nella trascrizione, sia pure approssimativa, che ne ha fatto Rosario Mulé, l'originaria intonazione idiomatica.
Non ci compete in questa sede esaminare il componimento poetico dal punto di vista linguistico, che ci sembra comunque riproduca la parlata «arcaica» del Castella m marese, chiusa e rocciosa per segni referenziali, eccitata e risentita per sentimenti estremi di 'odio e di rancore, non ostante l'uso frequente di metafore e immagini di singolare forza espressiva. (Diversa cioè da quella «enfatica» dell'area palermitana). Né veramente ci è possibile tentare una sua analisi morfologica onde scoprirne alcuni nessi della struttura compositiva. Ci basta solo indicare, per l'approccio col documento storico che esso rappresenta, alcuni riferimenti interni d'indubbio significato «ideologico».
I luoghi dove sono collocati gli episodi cantati nella Siquera hanno il proprio limite geografico nel territorio che guarda, verso settentrione, al golfo di Castellammare e al suo immediato retro terra. Quei luoghi rappresentano lo sfondo naturale della vicenda, il paesaggio carico delle suggestioni memoriali di chi vi ha trascorso gli anni piu infocati e trepidi. E insieme quasi una forma essenziale della furtuna che decide delle occasioni inesplicabili di vita e di morte. Sono pietre e cavità, macchi e puzza, valanchi e vadduna, caie e timpuni, incorporati nel ricordo del poeta come segni inestricabili della paura e del rancore che lo incalzano. E poi quei nomi di paesi ed ex feudi - Arcamu unutu cu Casteddamari, entrambi nemici e vietati, Urica, Scupeddu e Trippurteddi - che sono motivi «soavi» nel linguaggio della pena e del rammarico.
Il personaggio/chiave della storia narrata da Cajozzo è Pasquale Turriciano. Tutti gli altri personaggi che vi compaiono (compreso lo stesso Cajozzo) sono figure in ombra, appena indicate per la loro inci­dentale presenza nella vicenda, o considerate come semplici spettatori delle gesta del capobrigante. Ha forse identità piu netta, per il solo momento della guerriglia organizzata in appoggio ai ribelli palermitani, l'alcamese Giuseppe Pace (chi di Jongu grira), sul cui ruolo autonomo al tempo della medesima guerriglia la documentazione d'archivio getta qualche luce.
L'interesse cosi orientato sul capobrigante ci riporta allaformazione di un epos di cui La Siquera vuole costituire una testimonianza diretta e, probabilmente, un anello di quella produzione di canti e di leggende che dovette diffondersi quasi subito nell'area culturale della Sicilia nord-occidentale. Non ci restano documenti significativi della tradizione popolare relativa a tale epos, ma alcuni frammenti pubblicati da Pitré richiamano da vicino certi versi trascritti da Rosario Mulé nel quaderno che ora si è rinvenuto: Pezzu di 'nfami, a chi t'arriducisti, / A fari 'nfamitati ti jittasti. / La prima 'nfamitati chi facisti, / Du' picciotti d'onuri 'mpusturasti sono versi raccolti da Pitré ad Alimena (v. Canti popolari siciliani, Palermo 1891, I, p. 328) e presenti, se non nella stessa forma, almeno nella ricorrente terminologia mafiosa presso Mulé. (Commenta Pitré: «Pareframmento di qualche leggenda»). Cosi come è la variante di un verso di Cajozzo (la testa a li cutrara ci scippamu) il verso che si ritrova a Borgetto (scippamuci la testa a li 'nfamuna; ivi, p. 327). In quest'ultimo caso, il termine cutrara, che poteva avere significato soltanto nel Castellammarese, fu sostituito da quello piu generico di 'nfamuna.
Possono quindi ipotizzarsi aree del circuito popolare entro cui si diffuse nell'Ottocento l'epica rudimentale del bandito di Castellamma­re, che poi, per desuetudine d'interesse, fu soppiantata dalla piu ascol­tata vena mafiosa. Tuttavia le ottave di Cajozzo non possono essere annoverate tra le leggende popolari che fiorirono in Sicilia sulle gesta dei briganti. Non ne hanno né le intenzioni declamatorie, né le sorregge la pietà un po' fredda ed estrinseca dei cantastorie. Cajozzo narra con verità di testimone o di agonista (gli atti giudiziari che tuttora si conser­vano riscontrano obiettivamente gli episodi richiamati nel poemetto): e manifesta sentimenti che appartengono a una sfera morale in antitesi con la concezione della cultura egemone e che si estrinseca in maniera piu immediata e contrastiva di quanto non siano gli accenti e i temi di una poesia popolare ideologicamente spesso irrisolta o addirittura am­bigua.
Una tale concezione trova una propria dilucidazione nelle altre «storie» inserite nel quaderno di Mulé. Anzitutto il motivo dell'onore. Chi tradisce i compagni in difficoltà (specie se hanno qualche conto da regolare con la Giustizia) è socialmente annientato: lu 'nfami di la liggi è garintutu / di lu cuvernu sulu è ca1culatu (Il, 16, vv. 3-4). Le garanzie che gli può offrire l'autorità dello Stato, il credito che gli può venire dal governo, cioè da quel ristretto gruppo di persone che esercitano il potere contro il popolo, sono poca cosa di fronte al vuoto sociale che si crea intorno a lui. L'opposizione tra la società reale, quella della gente comune, e la società legale di sbirri, 'nfamuna e cutrara (gli arricchiti senza scrupoli) contrassegna, perciò, il divario tra due mentalità: l'una che rappresenta la forza esterna della Legge, l'altra che esprime la coesione di un valore fondato su onuri, creditu e parti tu. Sono questi i fondamenti del «patto sociale» stabilito tra gli uomini d'onore, per i quali il credito, o rispetto, deriva dal lungo tirocinio delle omertà e il partito costituisce la necessaria solidarietà che si forma tra gli uomini di rispetto.
Rientrano in questa categoria dell'onore i sentimenti che animano gl'ideali di vita del brigante/poeta, comuni del resto a quelli che alber­gano nell'anima popolare. Assente, com 'è ovvio, il sentimento patrio, è vivo invece quello per il proprio paese, retaggio di antiche faziosità municipali e senso feudale del borgo. Cajozzo recita una devozione religiosa piuttosto calcata; ma esterna sincera pietà per l'infanzia coin­volta nel dramma della repressione antibrigantesca. Nei confronti della donna i suoi pensieri sono dominati dalla logica del sospetto (chi di li donni nasci la 'mpostura; str. 73, v. 4), non ostante le mogli e le amiche dei briganti diano prova di un comportamento tutt'altro che compiacen­te di fronte alle inchieste dei giudici.
Pili interessante è il rilievo che assume nel poemetto la cronaca brigantesca. Si tratta di una ricostruzione interna, ricca di particolari e di sfumature culturali, che deve porsi a confronto con la versione dei fatti risultante dagli atti del processo. Sono circostanze ed episodi esat­tamente coincidenti nella dinamica evenemenziale, ma nettamente divergenti nei nessi di causalità. I metodi energici, pili spesso spietati, della repressione e della caccia ai briganti, il coinvolgimento di borgesi, campieri e pastori nella vita randagia della banda, mediante il diffuso fenomeno del manutengolismo, la resistenza armata durante gli anni di focu e di grira del ribellismo antileva, sono materia infocata del racconto che si ritrova con abbondante supporto di rapporti e note di polizia tra le carte processuali.
Sottesa allo scontro tra briganti e forze dell'ordine risulta essere la motivazione sociale, la protesta che ha dato origine all'azione extra le­gale. Il sentimento di ostilità contro i cutrara che si trova qua e là nelle ottave di Cajozzo manifesta certo uno spirito antiborghese; ma sarebbe fuori luogo attribuire un simile stato d'animo a chiara intuizione del contrasto di classe; ovvero scoprire nella guerriglia organizzata all'epoca dell'insurrezione di Palermo del J 866 un proposito rivoluzionario. L 'in­scienza di obiettivi politico-sociali è chiaramente evidenziata attraverso la posizione assunta dal capobrigante per restringere il campo della sua attività militare al Comune di Castellammare, come azione dimostrativa di rivalsa. Sotto questo profilo le ottave dedicate all'episodio (str. 46-61) costituiscono per la loro verità e immediatezza una testimonian­za storicamente probante.
Nella struttura poetica del lavoro, accanto all'epica del brigante/ eroe, terribile e giusto, vive la storia personale dell'autore, che tuttavia non è presentata in esclusiva chiave autobiografica. Cajozzo è conscio dell'eccezionalità della sua esperienza, ma non sa considerarla se non infunzione della figura prodigiosa del capobrigante, tanto da trasportar­si lui stesso da testimone, piu che da interprete, nella sua sfera epica. Un risultato, questo, d'indubbio risalto poetico, se si considera anche il tono non da leggenda che caratterizza il racconto, sviluppato sul conte­sto verbale di un realismo amaro, ma non sconfortato.
Rispetto alle leggende popolari che tramandavano il ricordo di celebri briganti del Sette e dell'Ottocento, la lunga canzuna di Cajozzo ha il pregio, davvero raro, di essere il prodotto di un 'esperienza vissuta dal di dentro dell'organizzazione brigantesca; di condividerne, quindi, l'ideologia e di sopportarne gli esiti fatali. Il brigante/poeta non rinnega nulla della sua scelta di odio e di rancore; né ripete il motivo di quella generica compassione per le sventure degli sbannuti che muove i canta­storie. La concezione rigidamente fatalistica che lo possiede gli vieta di considerare i casi della vita in una logica di causalità possibili. È perciò inutile opporsi alla mala furtuna, ma è da uomo saperla assecondare nel suo tragico itinerario di sconfitte, disperazione e lutti. La mentalità isolana dei vinti, cosi lucidamente trasvalutata in chiave letteraria da Giovanni Verga, non appartiene solo a chi accetta passivamente il proprio destino, ma anche a chi sa reagire con furore estremo alle ingiuste imposizioni della mala sorte, convinto tuttavia della inutilità di tale reazione.
Cajozzo non è naturalmente incline a compiacenze folcloriche. La poesia sgorga in lui come assunto di verità efondamento di ragione. Da qui il suo carattere sentenziale, la sua straordinaria concentrazione di miti rovesciati che intervengono aformare lo spirito dell' epos individuale del capobrigante come archetipo dell' epos collettivo dell'onore e della giustizia.
Né bisogna sottovalutare alcuni aspetti formali del poemetto, che sono anch 'essi da considerare organici col valore di cultura che esso esprime. Il tempo della narrazione entro cui sono rievocati gli scontri a fuoco, i procedimenti sommari della giustizia primitiva dei briganti, le fughe affannose per sfuggire alla sequela di sbirri e soldati, non si dissolve in una memoria atemporale, seguendo un po' il modello della non storia contadina che Carlo Levi ha saputo magistralmente rievocare, ma ci appare piuttosto raggrumato in una sorta di «un icron ismo». Pur conservando una fenomenologia sostanzialmente ripetitiva, il confuso incalzare dei fatti non defluisce nell'immota essenza dell'attesa o dell'a­patia. Appartiene anche a questo carattere unicronico della poesia l'uso frequente di metafore e simbologie cariche di effetti analogici: Sempri la nostra tavula è cunzata (J 7, 4); scirnia pi tutti tri ddu granni crivu (J 9, 2); s'avia la scupetta pi furtuna, Isentiri si putia dda gran campana (41, 7-8); battennu sempri supra chidda schina, I di sangu si vistiu la sò pirsuna (45, 2-3); la muntagna ni vittimu addumari (56, 6); fomu comu figghi di la quagghia (62, 2); Mischinu 'nta tri ghiorna fu abbrosciatu, I chi la carni di 'ncoddu ci satava (69, 4-5); chiancinu l'occhi soi comu la viti (71, 2); l'aceddu vi va 'ngagghia 'nta la riti (71, 6).
Un esame dell'impianto compositivo de La Siquera esula dalle intenzioni di questa premessa. Tuttavia non si può non accennare al fatto che l'autore è in qualche modo al corrente della tradizione popolare dell'ottava, che è la forma pressoché esclusiva della canzuna siciliana, non sempre regolare per alternanza di rima e per scansione metrica. Nel caso del componimento di Cajozzo una tale irregolarità e /'incertezza del rimario che qualche volta si riscontrano sono dovute al carattere di estemporaneità del dettato poetico. Laforma semplificata dell'alternan­za voca/ica (amu, emu; anti, enti; ata, ita; ero, aro; estu, istu; isi, asi; una, ana; ura, ira; utu, atu) è la piu frequente; mentre appare rispettato il modulo compositivo chiamato in gergo della 'ntroccata (il primo verso di ogni ottava riprende l'ultimo verso dell'ottava precedente), che lega le ottave tra di loro.

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Per l'edizione del testo, particolari problemi di trascrizione non se ne sono presentati. Il manoscritto è abbastanza ben conservato, di scrittura chiara e uniforme. Poiché, tuttavia, scopo della presente edizio­ne è quello di offrire un documento di storia vissuta senza alcuna pretesa difedeltàfilologica al testo originario, si è creduto opportuno modificare in qualche parte la redazione manoscritta del poemetto per la necessità di rendere comprensibili al lettore alcuni segni grafici, senza intaccarne minimamente il modulo ritmico e l'essenza di cultura. Cosi non si è mantenuto l'uso delle maiuscole a principio del verso, né quello delle minuscole nei casi di nomi propri di persona o di luogo. Si sono pure corrette le locuzioni dra e drani (là, li), dri, dru, iddri e simili, secondo la comune trascrizione dei vocabolaristi siciliani, mentre si è ripristina­ta la grafia etimologica del verbo avere. Sono stati sciolti i frequenti legamenti fonetici (articoli o preposizioni davanti al verbo, come ciata pinsari, ciaviti, d'unnesti, l'annavutu, lannu, nunn'atavutu, nunnavia, saddunannu e simili). E cosi anche nel dialogo introdotto nelle ottave si èfatto ricorso ai segni interpuntivi d'uso. Gl'interventi piit sistematici sono stati operati nell'accentazione e nella punteggiatura, assenti nel manoscritto. Infine, con la parentesi « » si sono indicate le pochissime inserzioni fatte per integrare possibili lacune testuali.
Alla trascrizione delle 74 ottave fa riscontro, in nota, una traduzio­ne letterale delle stesse, e solo dove il senso rimaneva oscuro si è ricorsi a circonlocuzioni e a perifrasi. Oltre alla Siquera, che costituisce anzi­tutto una testimonianza storica della vicenda brigantesca, pubblico le due canzuni egualmente inserite nel manoscritto (ne tralascio una terza, che è solo una scherzosa invettiva contro un ladruncolo). Esse esprimo­no, piuttosto, sul motivo dell'onore e della trasgressione degl'infami la mentalità di mafia, non certo indifferente alla morale stratificata delle classi subalterne nel loro concreto atteggiarsi di fronte allo Stato e alle sue leggi.

L'inizio del racconto della guerriglia nelle campagne di Alcamo e Castellammare a c. 11r della Siquera, storia popolare in ottave siciliane composta dal brigante Camillo Cajozzo (1838-1924). 11 manoscritto è di proprietà della famiglia Turriciano di Alcamo.



Verbale di interrogatorio di Camillo Cajozzo davanti al pretore di Castellammare (27 gennaio 1869) in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 4, fasc. 101-102.


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