Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

la copertina


Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio

Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

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III. CALVINO INEDITO

2. TESTI TEATRALI IN VERSI
Le manicone della monacella


In questo frizzante apologo sulla moda (96 ottave in endecasillabi), il Calvino riesce a combinare - in modo, per lo più, eccellente - la freschezza dei temi trattati e la fruttuosa indagine della natura umana, con una lezione di saggezza e di stile.
Nell’incipit, l’autore pone, con sintesi mirabile, l’argomento e la ratio della novella.
Malgrado una certa diffusa pruderie e il “malumore” falso e pretestuoso dei suoi contemporanei (ma tali osservazioni possono valere per l’oggi) nei confronti del rinnovarsi dei costumi e dell’introduzione di “moderne usanze”, con abile macchinazione logica e narrativa lo scrittore trapanese corre in difesa di talune “mode”, dimostrando che sarebbero tutt’altro che “stravaganze”.
Calvino, in ogni caso, è sempre sollecito a sorreggere lo strascico delle vesti femminili, prendendo le difese del gentil sesso: «il mondo, donne mie, di voi si ride:/ appellando capriccio e vanità/ quant’ebbe a consigliar necessità».
L’astuto escamotage calviniano, invero, ben si presta a fustigare sia la fatuità e l’opportunismo di certi inventori di mode, che la spasmodica (seppure inconfessata e camuffata) ricerca mondana di modelli da imitare e in cui inseguire un’illusoria e patetica distinzione.
La novella del Calvino sembra anticipare il nocciolo dell’arguto studio simmeliano sulla moda, dove i meccanismi della fashion vengono sociologicamente illustrati all’interno della dinamica dei rapporti tra le classi e i gruppi sociali e, soprattutto, come simboli assoluti della modernità.1
Il racconto, in effetti, stupisce per talune affinità e concordanze col nostro tempo.
Il francese Giornale delle Dame amplifica il sorgere della nuova moda delle “manicone”, di cui sarebbe artefice nientemeno che la regina Maria Antonietta. In poche strepitose strofe il Calvino descrive la figura della chiacchierata e spregiudicata sovrana, la sudditanza dell’Europa alla Francia, il costume giornalistico pennivendolo e pettegolo (che tanto ricorda certi odierni rotocalchi pseudo-scandalistici): «Una certa madama Antonietta,/ appellata per vezzo il modellino,/ da Parigi qual idol si rispetta,/ e di Francia da lei pende il destino./ Sul trono assisa della sua toletta,/ non che sul molle popol Parigino,/ sulle galanti umane scimmie impera/ di Francia tutta, e dell’Europa intera» (V ottava).
Non si discostava molto dalla realtà storica, il Calvino, nel dipingere in quel modo la regina Maria Antonietta (Vienna 1755 - Parigi 1793), resa celebre dal suo fascino, dalle sue intemperanze, dalle brighe politiche e dall’eccessiva influenza su Luigi XVI, dai clamori che sollevava intorno a sé (il processo della Collana, ad esempio, nel 1785), prima che dalla reclusione alla Conciergierie e dalla condanna a morte.
L’autore trapanese assesta una terribile “clavata” alla memoria degli sfortunati reali di Francia, ma, soprattutto, sulla flaccida e pedissequa nobiltà d’oltralpe dell’epoca e sull’esercito degli epigoni europei, proni a modellarsi sulle pratiche della sovrana, anche se «andasse con le nude natiche».
Astutamente, l’autore attribuisce il suo sarcasmo all’irriguardoso, insipiente e bacchettone Giornale delle Dame, scagliandosi così contro il «prezzolato redattore» e la schiatta dei gazzettieri preoccupata soltanto dell’audience, della tiratura: «Chi si accinge al dì d’oggi ad un giornale,/ bisogna che si venda intero intero,/ e dir talora, se durarla vuole,/ che l’acqua asciuga, che ci bagna il sole».
Ma il Calvino - simulando di astenersi dall’indossare la tonacaccia del fustigatore, dell’irriducibile “moralista” alla Montaigne – c’informa che, nel caso in questione, l’intrigante sovrana, lanciando l’uso delle manicone, aveva agito a tutela dell’onestà delle donne o, almeno, della loro apparente rispettabilità e onorabilità (secondo il precetto “si non caste caute”, cioè libertinismo ma senza ostentazione!).
La regina - spiega lo scrittore - non era affatto una sconsiderata e dissennata: bruttina - a suo dire - ma ingegnosa nell’abbellirsi, beffarda, malvagia, un po’ puttana (senza giungere ad essere ninfomane): «la gatta pelata avea la coda». E su queste “indiscrezioni”, l’autore si vede costretto a riconoscere che «l’articoletto fu sincero», il vizietto, c’est à dire, non si poteva negare.
Lo scrittore, insomma, qui sfodera alcune delle sue doti migliori: potenza di stile, robustezza di pensiero, lungimiranza.
A noi sembra un testo del Calvino maggiore, tutt’altro che domo après questo aurorale fuoco di fila.
Da cosa, insomma, nasceva quell’apparente vezzo delle “gran maniche”? Con una battuta, si potrebbe dire dagli ammanicamenti proibiti. Non, dunque - nella burlesca ricostruzione para-storica calviniana -, da strategica ragion di Stato, come ci ha insegnato Rossellini nella deliziosa La presa del potere da parte di Luigi XIV - quel Re Sole che aveva preceduto di due “stagioni” il sovrano ghigliottinato -, dove il monarca impone parrucconi e abiti sfarzosi ai propri cortigiani col preciso obiettivo di intrappolarli nei rituali fastosi della reggia di Versailles, vestendoli di lusso e spogliandoli di potere.
L’autore trapanese fornisce una sua versione dei rivolgimenti politici e sociali che segnarono gli ultimi decenni del Settecento. Il dilagante democraticismo (è il termine usato dal Calvino, verosimilmente col preciso intento di sottolineare gli aspetti demagogici e appariscenti di certe “conquiste” popolari) e l’ateismo imperante consigliavano ai frati di non indossare abiti che li facessero subito identificare; tanto che le nuove generazioni ben presto non avevano più alcuna cognizione di paramenti ecclesiali.
Accadeva che un Baccalauro agostiniano di Siviglia rincorresse fino a Parigi il proprio sagrestano fuggito con una giovane (figlia, peraltro, dell’”amica” del prelato), col proposito di ricondurli in Spagna e celebrarne l’autodafé.
Si può in ciò cogliere, en passant, la condanna calviniana del castigo religioso inquisitorio, soprattutto a fronte della scostumatezza e della licenziosità dei moralizzatori in tonaca. In Sicilia provvederà il viceré Domenico Caracciolo, nel 1782, a sopprimere l’Inquisizione.
Non senza malizie, il Calvino, ricordando il sodalizio di preghiera tra il Baccelliere e il suo sagrista, li ragguaglia a una coppia di buoi che muovevano appaiati, sferrando una delle sue tante cerbottane contro il clero.
La ragazza aveva seguito, dunque, la propria natura, l’esempio maledetto della madre.
Giunti in Francia, il fuggiasco e la sua fanciulla, per sostentarsi, sono costretti ad arruolarsi, lui, e ad esercitare l’attività di ricamatrice, lei. La giovane Paoletta, essendo particolarmente abile nell’arte del cucito, viene cooptata nel gran seguito di sarti e modisti di cui si circondava la regina Antonietta, fino a diventarne una pupilla. E la ragazza era così graziosa che la sovrana se ne serviva anche da esca per catturare i damerini che l’avvicinavano.
Pregevole la descrizione calviniana del rincorrersi delle azioni e delle mire umane sul modello di certi volatili: zimbelli, coccoveggie, merlotti, corbacci e rondoni; al confronto, gli Uccellacci e uccellini pasoliniani sembrano una sintesi riduttiva, risentendo eccessivamente della semplificazione ideologica.
Nella fantasia calviniana i traffici e gli intrighi erotici forano il velo delle paratie di classe, ponendo idealmente sullo stesso piano sovrani e sudditi, assunto che, se non regge appieno storicamente, funzionerebbe quanto meno al livello delle pulsioni e dei bisogni ancestrali, del basic instinct.
Nella “rete” incappa, a un certo punto, lo svolazzante rondone del Baccelliere, l’agostiniano (calzato!), Padre Spavento, che andava proprio alla caccia della fanciulla... Calvino, a questo punto, introduce una digressione sull’abbigliamento monacale per illustrare la bizzarria del vestiario del bacalar (termine che, in spagnolo, indica un giovane uomo): i canonici regolari, sulla scia degli insegnamenti del vescovo d’Ippona, avrebbero indossato la sfarzosa e fanatica cocolla, mentre gli eremitani scalzi, assai più umilmente, portavano la tonica.
L’autore trapanese ne approfitta per trarne delle mordaci riflessioni anticlericali. Agli anacoreti, agli asceti, certo non convenivano i paramenti copiosi e lussuosi e a ragione accusavano di pomposità i confratelli agghindati come principi.
Calvino contrappone, dunque, ai vanitosi seguaci del santo di Tagaste i “costumati” Girolamiti 2 – è noto, peraltro, che i due padri della Chiesa evocati furono in corrispondenza epistolare - e non lesina il suo disprezzo per i monaci relegandoli, nell’ipotesi migliore, al ruolo di pecoroni.
Perfino il paganesimo - rincara lo scrittore - seppe essere più sobrio dei cristiani nei vestimenti. Ma l’ottusità fratesca - spesso frammista a morbosa astuzia - offrirebbe strambe resistenze e incredibili giustificazioni ai propri capricci e alle proprie libidini, al punto da voler far risalire l’uso delle manicone - ironizza Calvino, giocando con le parole – alla giovanile adesione di Sant’Agostino al manicheismo (dottrina mistica sul sincretismo di cristianesimo, mazdeismo e buddhismo, fondata in Babilonia dal religioso Mani, nel secondo secolo dopo Cristo) e da voler spacciare come atto penitenziale perfino i benefici ricevuti: «Ma tu predichi a’ porri, non l’intendono./ Di quelle manicone, l’eccedenza/ ostentar come simbolo pretendono;/ e come emblema di beneficenza,/ e con mille sofismi ti sostengono/ come il beneficare è penitenza./ V’ha chi alluder pretende - or ve’ babbeo! -/ perché Sant’Agostin fu manicheo» (XXVIII ottava).
Al vetriolo anche la strofa successiva, in cui l’indomito Calvino prova ad esaltare i supposti vantaggi “sociali” e spirituali delle manicone, che ostacolerebbero, quanto meno, certe pratiche lussuriose, frenerebbero l’azione, il peccato e le prevedibili malefatte degli imbacuccati: «Se impediscon di agir liberamente,/ dice talun, ben è: l’uom spinto al male,/ meglio anziché far mal non faccia niente./ Ch’è meglio il faciniente, o il facimale?/ Quell’involucro è poi grande spediente/ a raffrenare il fomite carnale./ E qui convengo dee impedir la foja,/ come a’ ciuchi talor fa la pastoja» (XXIX ottava).
Chiusa la parentesi old fashion, nel nostro immaginario legata alla ironica fastosità di certe felliniane sfilate di porporati, l’autore ritorna sui passi del Baccelliere che si finge alla ricerca di un deprecato testo antiagostiniano. Il sant’uomo suscitava riverenza tra la folla (e per la mole e per l’appariscenza), ma anche una certa apprensione, somigliando a uno strano animale alato...
Al vederlo, il genio di Antonietta s’infiammò, alimentato da infernale malia.
L’accigliato e austero monaco spagnolo non prova neppure a fingere resistenza, subito vinto e avvinto: «Del mondo e del versier so trionfarne,/ ma di me sempre trionfò la carne» (XXXIV ottava).
Raggiunto, tra la calca, da un valletto della regina - dai cui sguardi era già stato catturato -, preso nella rete della lusinga, l’antenato di padre Ralph (Uccelli di rovo) accetta di recarsi dalla “scandalosa” sovrana, simulando di volerla condurre a retta via. Ma, frattanto, non sdegna qualche dolce fantasia erotica sul puttino messaggero reale...
Si prepara, quindi, l’incontro notturno tra Antonietta e il Baccelliere. Paoletta - che se la intende col valletto - messa al corrente del convegno, decide di spiare l’avvenimento.
Calvino coglie, tra le righe, l’occasione per ironizzare sui costumi dei francesi: «Né stupirete già, donne cortesi,/ di questa subitanea accensione./ Chi conosce il caratter de’ Francesi/ creder non la potrà esagerazione» (XXXV ottava) commenta con riferimento alle vampate della regina, quintessenza dell’indole femminile delle connazionali. Ma - aggiunge il nostro autore - i confinanti d’oltralpe si divertirebbero nel divulgare le proprie prodezze non meno che a compierle, tanto che Paoletta, se avesse chiesto direttamente alla sovrana, avrebbe raccolto anche i dettagli più intriganti della vicenda: «(...) è passion da’ Francesi prediletta/ pria di farla, l’averla palesata./ E più di farla il dirlo gli diletta (...)» (XLVI ottava).
L’avventura amorosa piomba verso il lieto fine.
La sovrana, sebbene gracilina, riesce a sfiancare il dotatissimo cavaliere, ma al precipitoso risveglio - il valletto dimentica di destarli all’ora convenuta e poiché nottetempo, Paoletta, presa da invidia e stizza, aveva sottratto i vestiti degli amanti e lasciato la propria tonica sul luogo del misfatto - escogita di far nascondere il frate nel camino e di agghindarsi con le scarpe, le calze e l’abito di Paoletta, stretto da una curiosa cintura.
Uscita dal giaciglio in quello sfarzo di addobbo e adorna delle fatidiche manicone, i cortigiani abbagliati - e dimentichi dell’oscuro fattaccio - finiscono col seguire e diffondere ovunque il nuovo modello, dalla Senna a Londra, e in tutta Europa.

NOTE

1 Cfr. G. Simmel, La moda, Milano, Mondadori, 1996. Il fondatore della sociologia tedesca aveva licenziato la prima edizione del suo celebre saggio nel 1895, perfezionandolo nel 1905 e nel 1911. Riteniamo possa servire ripercorrere talune riflessioni dello studioso berlinese, anche per meglio cogliere le intuizioni e le acquisizioni calviniane: «La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. (...). Per questo le classi sociali inferiori hanno pochissime mode, vagamente specifiche (...). Proprio mediante le differenziazioni i gruppi interessati a distinguersi si mantengono uniti: l’andatura, il tempo, il ritmo dei gesti è indubbiamente determinato dal vestito in modo essenziale. Chi è vestito nello stesso modo si comporta in maniera relativamente omogenea. Si presenta così un’altra particolare connessione. Chi può e vuole seguire la moda porta abbastanza spesso vestiti nuovi. Ma il vestito nuovo condiziona il nostro comportamento più di quello vecchio che si è completamente adattato ai nostri gesti; cede senza resistenza ad ognuno di essi e spesso rivela le nostre innervazioni nelle minime particolarità. Sentirsi “più comodi” in un vestito vecchio che in uno nuovo, significa che l’abito nuovo ci impone il suo statuto formale (...). Il cambiamento della moda indica la misura dell’ottundimento della sensibilità agli stimoli nervosi; quanto più nervosa è un’epoca, tanto più rapidamente cambieranno le sue mode; perché il bisogno di stimoli diversi, uno dei fattori essenziali di ogni moda, va di pari passo con l’indebolimento delle energie nervose. (...). Gli elementi effimeri e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più ampio. (...). (...) si può forse spiegare perché in generale le donne dipendano particolarmente dalla moda. È dalla debolezza della posizione sociale alla quale le donne sono state quasi sempre condannate nel corso della storia che deriva il loro rapporto vincolante con tutto ciò che appartiene al “costume”, con “ciò che si conviene”, con la formula di esistenza generalmente valida e approvata. Infatti il debole evita l’individualizzazione, il basarsi oggettivamente su se stesso, con le proprie responsabilità e la propria necessità, il difendersi con le proprie forze. (...). Perciò oggi la donna emancipata, cercando di avvicinarsi alla natura maschile, al suo grado di differenziazione, al suo tipo di personalità e alle sue caratteristiche emozionali, accentua anche la propria indifferenza nei confronti della moda. Per le donne la moda costituiva in un certo senso il surrogato di una posizione all’interno di uno status professionale. (...). (...) i ceti più elevati sono notoriamente conservatori, spesso quasi arcaizzanti. Di regola temono ogni movimento e ogni cambiamento, non perché ne trovino odioso o dannoso il contenuto, ma semplicemente perché si tratta di un cambiamento e ogni modificazione dell’insieme, che nella struttura presente concede loro i massimi vantaggi, risulta sospetta e pericolosa. Nessun cambiamento può far crescere il loro potere, hanno sempre qualcosa da temere e nulla da sperare. La variabilità della vita storica dipende dalla classe media e per questo la storia dei movimenti sociali e culturali ha assunto un “tempo” completamente diverso da quando il tiers état ha preso il potere. Da allora la moda, la forma dei cambiamenti e dei contrasti della vita, si è maggiormente estesa ed è soggetta ad una stimolazione più intensa; i frequenti mutamenti della moda sono un’immane schiavitù per l’individuo e, nella stessa misura, uno dei complementi della cresciuta libertà politica e sociale. (...). Ma, per riassumere tutto il discorso, il vero fascino, stimolante e piccante, della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità, nel diritto all’infedeltà nei suoi confronti» (cfr. G. Simmel, La moda cit., pp. 24, 25, 31, 39-40, 43, 55-56 e 64). Bisogna ricordare, en passant, che la quaestio delle “manicone” non era nuova al tempo del nostro Calvino, se già nel Cinquecento: «(...) i predicatori tuonavano scandalizzati dall’esibizione sfacciata, frutto evidente del peccato, un mix di lussuria e vanità. Bernardino da Siena elencava, forse più sorpreso che scandalizzato, lo spettacolo offerto dalle donne di città, vestite di seta, scollate, dipinte, truccate con posticci, con “maniche così larghe da sembrare ali”, donne che d’estate quando toglievano gli strati più esterni e pesanti - dice lui - restavano quasi nude come bestie» (cfr. M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Quando vestivamo la cioppa, «Il Sole 24 ore», 5 settembre 1999).
2 Di tali severissimi principi in materia di castità e di costumatezza, ampie notizie sono in SAN GEROLAMO, Lettere, introduzione di C. Moreschini, traduzione di R. Palla, Milano, Rizzoli, 1989.

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