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 BUSSOLA: Trapani Nostra - Libri - Salvatore Mugno

Tito Marrone - TEATRO - a cura di Salvatore Mugno





Tito Marrone

TEATRO

a cura di Salvatore MUGNO



Introduzione

Il cursus poetico marroniano fu precoce e bruciante, alla maniera dei maudit francesi: dai sedici ai venticinque anni, il lirico aveva già espresso il meglio di sé.
Sebbene, a distanza di quasi un secolo, sul Marrone iniziatore del "crepuscolarismo" molto è rimasto taciuto e inquinato, pare sia tempo di riscoprire anche un altro Marrone - ancora meno noto del primo -, il commediografo.
E il caso sarebbe stato ostico pure per Pirandello, se non ne fosse stato amico: da un unico "personaggio", la fioritura di più autori.
A ridosso dell'apice della sua parabola lirica (1903-1907), lo scrittore, ancora ventenne, dà ascolto al pressante richiamo del teatro: passione primigenia, dunque, insieme alla poesia.
Il periodico trapanese "La Ragione", nel 1903, certifica i primi passi sul palcoscenico dell'autore siciliano, inizialmente attratto dai classici latini e greci.(1)
Convivevano, in quegli anni, nel giovane scrittore, col grigiore dello studio e il fardello dell'ambizione, sentimenti di goliardia e gaiezza, di fiducia nelle incognite della vita, se, come dicono le cronachette dell'epoca, egli non si esime dall'assumere gli scanzonati panni dell'attore d'occasione e dal partecipare a "conviviali" luculliane.(2)
Se si pensa che tali iniziative incontravano il patrocinio di studiosi come l'orientalista Angelo De Gubernatis, si comprende che si trattasse di qualcosa di più di un gioco da commedianti.
Nel 1905, infatti, prima al "Quirino" di Roma e poi in Cile e in Brasile, del nostro autore è rappresentata La fioraia, un melodramma in due atti. E nel 1906, a Reggio Calabria, è data una sua commedia musicata, Il cappello alato.
Nello stesso anno, Tito Marrone, insieme ad Antonio Cippico, è il traduttore, elogiatissimo, de l'Orestiade di Eschilo, rappresentata il quattordici Aprile al Teatro Argentina di Roma, allora diretto dal rinomato studioso di drammatica Edoardo Boutet.
Il critico teatrale dell'"Avanti!", Tommaso Monicelli, ne tesserà abbondantemente le lodi: "La prima idea d'una tal traduzione venne al Cippico quattro anni fa, udendo la trilogia a Vienna, al Burg-Theater (...). I due nostri traduttori, invece, hanno proceduto con uno spirito più amoroso e geniale (...); essi hanno fatto opera di restituzione assai più rispettosa e completa. Hanno tradotto, più ch'era possibile, alla lettera, hanno mantenuto integralmente il coro come interlocutore, aggiungendovi alcune strofe e antistrofe della lirica più attinenti all'azione. (...). Ma la difficoltà più aspra, la difficoltà formidabile, fu l'adattamento della poesia greca e la sua fedele riproduzione nei nostri ritmi. Pel contesto i nostri traduttori adoperarono il gran verso italico, l'endecasillabo (...), adattando i motivi vari (dei cori - n.d.a.) con ritmi polidattilici (ternarii, senarii, ottonarii, novenarii, decasillabi, endecasillabi) (...). Altra difficoltà da superare fu la conservazione delle sticomitie, dell'esatta rispondenza, vale a dire, verso per verso, degli interlocutori, come nel testo dialogico eschilèo (...). Di così lungo studio dovrà esser tenuto conto ai due giovani che si presentano, con tali auspici, sul teatro".(3)
La conclusione del Monicelli è entusiastica: "Per ciò dicevo, fin da ieri, che un tale avvenimento supera di gran lunga ogni altro spettacolo d'arte. A parte che l'Orestiade non fu più rappresentata in Italia da oltre duemila anni (...)".(4)
Nel 1912, con La Ragna, Marrone vince il "Concorso con il premio di L.100 per un'azione scenica" indetto dalla gazzetta barese "Humanitas": "La Ragna è una commedia in un atto, breve e rapida. Non pretende a soverchia novità né di genere né di soggetto; ma è così bene disegnata e colorita, è scritta con tanto garbo di lingua e signorilità di forma, che la commissione di lettura l'ha premiata con piena soddisfazione. Aperta la busta contrassegnata dal motto si è letto il nome dell'autore: Tito Marrone - Roma".(5)
Non basteranno queste nostre note, necessariamente frammentarie, né la tranche di produzione marroniana qui recuperata in corpus a dare piena cognizione della mole dell'opera drammatica dello scrittore trapanese - altri repêchage e altri studi sono auspicabili -, eppure bisogna fare un passo indietro, alle scaturigini della "missione teatrale" del nostro Wilhelm Meister, laddove si sconfina nell'aneddotica, sia pure consacrata in documenti sottoscritti.
Al sorgere dello scorso secolo, Roma accoglieva, oltre al crepuscolare trapanese, anche due commediografi siciliani che avrebbero acquisito fama internazionale: Pier Maria Rosso di San Secondo e Luigi Pirandello.
Tito Marrone entrò ben presto in contatto e in amicizia con i due (futuri) grandi scrittori, come è, peraltro, certificato dalla corrispondenza custodita nella casa romana del poeta.
Sarebbe interessante, qualora fosse possibile una completa verifica cronologica delle opere per il teatro del Marrone - soprattutto delle inedite commedie "maggiori" - indagare se e quali influenze possano essere intercorse fra i tre artisti agli albori del Novecento.
"Accadde allora - scrive Nicola Porzia - che l'adolescente poeta s'incontrò e si strinse in legame di fraternità artistica con un altro giovane poeta, di grandissimo ingegno, suo conterraneo, Pier Maria Rosso di San Secondo; il quale apparve allora, e fu poi sempre, il rovescio della medaglia di Tito Marrone. (...). I due temperamenti, così diversi ed opposti, in un primo momento - incredibile a dirsi - parvero creati a bella posta per intendersi, tanto che, dopo avere stretto tra loro il vincolo della fraterna amicizia, tentarono una collaborazione d'arte che non mancò di produrre i suoi frutti. Nel cassetto di Tito Marrone giacciono tuttora - ignoti al pubblico e inviolati dalle reclamistiche indiscrezioni - due lavori teatrali scritti in collaborazione con Rosso di San Secondo. Una commedia di farsesca tragicità, che s'intitola Cola Berretta, e i primi due atti di un'altra opera, Poveri fanciulli!, la quale rimase incompiuta a causa del fortuito intervento di un terzo autore".(6)
Sospendiamo, per un attimo, quel resoconto, per prepararci ad assistere a una sorta di sceneggiata in nuce, coi tre classici protagonisti; al portrait, insomma, degli artisti da giovani, prima di divenire immortali.
"La cosa andò così - prosegue Porzia: Tito Marrone e Rosso di San Secondo, composero d'amore e d'accordo due atti, vennero a trovarsi in forte contrasto sulla maniera di condurre e di sciogliere l'azione nel terzo atto. Tira uno, non molla l'altro, i due decisero di appellarsi a un terzo conterraneo: a Luigi Pirandello non ancora grandissimo e neppure commediografo. Ebbe luogo, così, fra i tre siciliani, un convegno che noi adesso diremmo ad alto livello. L'arbitro stette ad ascoltare dapprima compiaciuto: poi andò montandosi e riscaldandosi sempre più finché non dette fuoco alla sua girandola. E lì per lì, Luigi Pirandello creò un mirabile terzo atto scintillante di estrosa genialità. I due giovani autori in dissidio, rimasero interdetti: avevano chiesto soltanto un consiglio e davvero non desideravano tanta grazia da parte di Sant'Antonio o, se volete, di San Luigi".(7)
Prima di passare, per così dire, all'agnizione di quella vicenda, proviamo a fissare talune "didascalie".
Dalla ricostruzione di Porzia, si arguisce che l'azione si colloca nei primissimi anni del Novecento, quando l'Agrigentino (1867-1936), il più anziano del trio, non ha ancora pienamente compiuto la virata dalla poesia e dal romanzo al teatro. Egli, infatti, dopo aver pubblicato il suo primo testo teatrale L'epilogo (poi mutato in La morsa), un atto unico, nel 1898 sulla rivista "Ariel", soltanto il nove Dicembre 1910 vedrà, per la prima volta, rappresentato un paio dei suoi lavori, al Teatro Metastasio di Roma: La morsa, appunto, e Lumie di Sicilia, apparso poi in "La nuova antologia", il 16 Marzo 1911. Entrambi i testi saranno portati in scena dalla compagnia del "Teatro Minimo", diretta da Nino Martoglio. Occorre, tuttavia, precisare che dall'epistolario, pubblicato da Sandro D'Amico, risulta che Pirandello già dal 1887 componesse delle commedie.
Il nisseno Rosso di San Secondo (1887-1956) è il più giovane della Trimurti, di cinque anni più piccolo del Marrone, oltre che, probabilmente, il più focoso e intemperante. Il suo esordio in teatro si fa ufficialmente risalire al 1908, con La sirena ricanta, un testo che sarebbe andato smarrito.
Si direbbe che il mite Marrone si sia ritrovato tra i proverbiali due fuochi, di fronte all'irruenza del Nisseno e all'esuberanza dell'Agrigentino, il quale, comunque, doveva già, in qualche modo, intensamente trafficare col teatro, se i due ragazzi gli si rivolgono come a un "paciere". Rileva, ad ogni modo, che l'interesse marroniano per l'arte drammatica, se non precorre quello dei suoi due illustri conterranei, è quanto meno coevo e contestuale al loro e certamente il Trapanese teneva in gran conto la progressione artistica dei due amici.
"Uscirono mogi mogi - conclude Porzia - da casa di Pirandello e lungo la strada, per un buon tratto, camminarono in silenzio. Poi Tito Marrone, facendosi animo, flebilmente rivolse la parola a Pier Maria: "E adesso... che facciamo?" L'altro sbottò che pareva un vulcano: "Il terzo atto l'ha fatto lui: e, se l'ha fatto lui, non capisco perché dobbiamo scriverlo noi!" Così i Poveri fanciulli! - pur generati da tre padri potentissimi e tutt'altro che ignoti - rimasero abbandonati nell'imponente brefotrofio che è la raccolta degli scritti inediti di Tito Marrone. Per quanto io sappia, mentre col passare degli anni la fraternità spirituale fra i due scrittori andò rafforzandosi, la loro collaborazione letteraria non ebbe più seguito".(8)
Alla base di un dissidio "inevitabile", Porzia pone la differente concezione della "tempistica" dell'arte nei due scrittori: la pacatezza marroniana e la frenesia sansecondiana.
Da lì a pochi anni sarebbe cominciata la mitizzazione - nella vasta e qualificatissima cerchia di letterati che gli erano stati accanto, come, oltre a Pirandello e Rosso di San Secondo, Cesare Giulio Viola, Dario Niccodemi, Lucio D'Ambra, Guelfo Civinini, molti dei "crepuscolari" romani e tanti altri - di quella riluttante e misteriosa figura d'autore: "Per quarant'anni, dunque, si favoleggiò di Tito Marrone e si romanzò della sua mano di scrittore, la quale divenne una specie di mano del defunto protesa, come un incubo, sui teatranti e sui poetucoli italiani".(9)
Un suggestivo affresco del desaparecido, già nel 1929, ci proviene dallo scrittore Lucio D'Ambra, che rievoca alcuni episodi legati al poeta trapanese: "C'è in Italia uno scrittore drammatico, completamente inedito, che non vuole essere conosciuto. Mille smaniano, scritto un dramma, per farlo rappresentare. Uno invece, saputo che Dario Niccodemi, letto un suo lavoro, si disponeva a metterlo subito in scena, volò dal commediografo-direttore per farsi restituire il manoscritto e pregarlo di non pensare affatto, mai più, per i suoi spettacoli, alle commedie sue...".(10)
D'Ambra, poi, ricostruisce una lontana serata del 1906 in casa Cippico - presenti, oltre al Marrone, Domenico Oliva, Giustino Ferri, Ettore Romagnoli, Ugo Fleres, Edoardo Boutet ed Enrico Barone -, un incontro di lavoro per mettere a punto la citata traduzione eschilèa. Dell'autore trapanese il ricordo è netto: "(...) piccolo, elegante, schivo, si rincantucciava nella penombra, tutto silenzi e ritrosie, in esemplare modestia. (...) lanciato nel movimento (...) da Pirandello, di cui era conterraneo, Tito Marrone traduceva poeti greci essendo tutt'imbevuto di poeti francesi, simbolisti e decadenti, da Mallarmé a Vielé-Griffin, da Moréas a Francis Jammes. (...) Parlava poco: ma quel poco giusto. Progetti di grandi conquiste letterarie non ne faceva. (...). Era con noi, nel nostro gruppo, sovente, nei caffè, nei teatri, nei giornali. (...). Pareva felice. Poi si allontanò".(11)
Poco tempo dopo, l'amico Cippico si trasferiva a Londra, insegnando all'Università e collaborando al "Times", e Marrone si staccava da quel cenacolo, facendo perdere le sue tracce. Talvolta, da solo, i vecchi amici lo intravedevano a teatro, nelle grandi evenienze, appartato in loggione, lontanissimo da ogni più pallido clamore.
Molti anni dopo, in casa di Pirandello, in un'atmosfera da amarcord, sollecitato da Cesare Giulio Viola, irrompe il memento dell'Agrigentino: "Tito Marrone! L'ho rivisto anche giorni or sono... Sempre lo stesso. Deve avvicinarsi ormai ai cinquanta anni. Ma par sempre un ragazzo. Abita dove allora abitava, al solito mezzanino del viale della Regina. Nulla di mutato. Casa come allora... Per lui non c'è progresso. Niente telefono. Niente tappeti. Niente termosifoni. Niente luce elettrica. Una lampada a petrolio e due candele; una per suo padre, una per lui... E, al lume di quelle candele, le solite letture: innumerevoli libri, quasi tutti francesi, nessun giornale... Lavorare? Sì. Lavora. Tutt'un teatro. Nel cassetto, chiuse a chiave, commedie e commedie. Oltre Le fidanzate, io ne conosco cinque o sei: La signora Rirì, Colombi e sparvieri, Bianco e nero... Ingegno, cari, da vendere ai più bravi. E sempre, s'intende, Becque: il carattere, la verità essenziale, la nudità schematica, la parola incisiva, il rigor classico delle linee di chi poneva e pone I corvi alla testa di tutto il teatro moderno. Ma arte solida, cari, - e uno scrittore!".(12)
Che i Pirandello - Luigi e il figlio Stefano, anch'egli drammaturgo - di tanto in tanto si sentissero ghermiti dall'ombra marroniana è attestato anche da altre testimonianze, che trovano convalida nell'incrocio delle fonti.
Ancora D'Ambra riesuma alcuni dei contatti tra Stefano Pirandello (in arte, ribattezzato Landi) e Tito Marrone: "Ha scritto altre tre commedie" - racconta Stefano Pirandello. "E già ne comincia una quarta. Ma non basta, compone anche brevi scene, rapidi dialoghi, di gran bellezza. (...) chiude anche questi, come le commedie, nei cassetti. (...). Negl'intervalli legge. Conosce tutto. Sa tutto. Ricorda gli amici. Li saluta. Ma non dice nulla. (...). È sempre matto per la musica: Wagner in testa, questo si sa... ma non manca mai all'opera o all'Augusteo".(13)
In un interno disadorno e immoto, l'unica compagnia esotica che il poeta si concedeva pare fosse quella di un gatto.
Non si capacita D'Ambra del silenzio del Marrone e intuisce che nessuno osi chiedergliene la ragione, eppure sull'opera marroniana pesa una ratifica inappellabile: "E Luigi Pirandello assicura - e Dario Niccodemi e Viola confermano - che un drammaturgo di prim'ordine crea ed uccide così, da venti anni, nei suoi cassetti, tutt'un mirabile teatro che sarebbe la fama d'uno scrittore e l'onore d'una letteratura...".(14)
Lo stesso Marrone - in una missiva al suo amico trapanese Nino Genovese, con riferimento a Le fidanzate - ma, al solito, senza esplicitare le ragioni del "gran rifiuto", scrive: "(...) la medesima commedia io negai, anni dopo, al Pirandello stesso, che ripetutamente mandò suo figlio a casa mia a richiederla, per il suo teatro "Odescalchi", e più tardi ancora a Lucio D'Ambra per il "Teatro degli Italiani" (oggi "Eliseo") a Roma".(15)
Non sarà inopportuno, dunque, ripetere i quesiti che il narratore e commediografo romano si poneva intorno all'"enigma" Marrone, inclusa la finale alternativa "folle" o "èpica": dei suoi manoscritti "Che ne troveranno, i più giovani, un giorno, lui scomparso? Quale sarà la sua ultima volontà? Un consenso? Un divieto? Nascerà quest'opera dopo la sua morte? O morrà anch'essa con lui? E qual è il segreto di questa rinunzia da vivo? Incontentabilità? Sdegno del successo? Paura? Orgoglio? Modestia? Candore immacolato d'arte davvero disinteressata, d'arte fine a se stessa? (...) Interrogato dagli amici, sorride appena e muta subito discorso. (...). Marrone, nell'ombra, zitto, sempre zitto... Zitto tutta la vita, nella fioca luce d'una candela, sepolto vivo... Perché? Ma c'era negli occhi di quel ragazzo - se lo rivedo bene con la memoria - una gran luce... Una di quelle luci che a vent'anni possono promettere un mondo e che a cinquanta possono anche spiegare una pazzia. Una pazzia - o un eroismo".(16)
In un'altra lettera all'amico trapanese, Marrone si limita ad attribuire ad una sorta di personale idiosincrasia la sua riluttanza: "Del mio "teatro" (...) le dirò che, per... diciamo così... una delle mie solite bizzarrie, non ho voluto io la rappresentazione".(17)
Lo scrittore, in un appunto autografo, poi dirà che aveva rifiutato la mise en scène delle sue commedie perché "prima che gli altri, devono contentare me. Questa è la semplice verità".(18)
Il distacco del Marrone dalla cerchia letteraria si motiverebbe anche con la grettezza e la vigliaccheria che, a suo dire, caratterizzerebbero molti critici di professione. Questo suo amaro giudizio si può, peraltro, pienamente soppesare da una missiva inedita diretta al Genovese, dove sostiene che la sua opera: "(...) è forse più intelligentemente intesa all'estero che in Italia. Ma, naturalmente, fuori dal nostro paese non agiscono quelle meschine forze mosse da piccoli interessi personali che trattengono la valutazione obiettiva e sincera di un'opera d'arte. In Francia, in Belgio, in Ispagna, in Grecia, in Romania, scrittori illustri hanno scritto di me con tal pienezza di consenso e libertà di alto giudizio da farmi considerare con malinconico compatimento la meschinità della critica nostrana che non sa leggere che con occhi bendati. Critici italiani insigni, che si sono affrettati a testimoniarmi privatamente la loro ammirazione, non osano (per paura di una strana consorteria che irretisce il nostro paese) esprimere liberamente e spontaneamente sui periodici il loro pensiero. Miseria! Non tutti certamente (...)".(19)
Le vicissitudini sentimentali e letterarie avevano condotto Marrone, sin dai primi anni del secolo, a un ripiegamento su se stesso, inducendolo a confinare il lavoro artistico nei limiti di un'esperienza quasi privata, esclusiva.
Per decenni aveva scelto di custodire nel silenzio il suo rincrescimento, il suo disgusto per le macchinazioni del milieu culturale che, l'autore siciliano, faceva risalire anche al periodo della citata traduzione de l'Orestiade, come risulta dal carteggio intrattenuto con l'amico scrittore palermitano Federico De Maria, di cui si conserva testimonianza presso la Biblioteca Comunale di Palermo: "In verità, le rappresentazioni furono salutate con sincero entusiasmo dai critici teatrali e dal pubblico, ma il precedente fu presto dimenticato a tutto vantaggio del cattedratico Ettore Romagnoli, che poteva contare su più fondate e vaste aderenze".(20)
Il grecista italiano, in effetti, a partire dal 1911 ideò e curò delle rappresentazioni classiche nei teatri di Siracusa, Taormina, Agrigento e all'Arena di Verona.
Marrone, forse, recava in sé l'ingenuità e la schiettezza del provinciale; ma, soprattutto, ci pare, l'inossidabile lucidità di un Peter Pan che sa discernere e rinunciare, quando occorre, alle lusinghe.
Rosso di San Secondo, che scrisse di Marrone come di "uno dei maggiori lirici del tempo nostro",21 in una tarda rievocazione dell'amico, conversando con Nicola Porzia, dirà: "(...) è un uomo che mi fa paura... (...). Temo perfino di incontrarlo. Tu lo vedi così affabile, così modesto, dolce nelle parole, chiaro nelle idee... un meraviglioso bambino di settant'anni. (...). Ha distrutto il tempo... il nostro tempo... Mi capita di rivederlo alla distanza di venti, di trent'anni. M'incontra e subito mi abborda, come se mi avesse lasciato la sera prima... "Sai? mi pare che la seconda scena del terzo atto di Cola Berretta dovremmo modificarla così e così". Cola Berretta? (...). Capisci, una commedia che scrivemmo insieme cinquant'anni fa (...). Tu lo vedi Tito? Abbraccialo e digli che gli voglio un gran bene. Digli pure che egli ha diritto di orinare sulla base di qualche monumento!".(22)
Rinunciava, dunque, Marrone alle luci della ribalta, almeno in vita, nell'età euforica della giovinezza, del vigore fisico e artistico, ma non al giusto riconoscimento che sommessamente reclamava, mosso anche dal legittimo desiderio di vedere, finalmente, in volume almeno il distillato della propria produzione, compresa quella teatrale, come emerge da altra lettera inedita, del 1963, al Genovese: "Ho, in questi giorni, ottenuto (senza che io abbia mosso un dito!) un premio dal Ministero dell'Istruzione Pubblica, con lusinghiera motivazione (...). Tutte bellissime cose... ma preferirei a queste futilità che chi ne ha il dovere si risolvesse ad aiutarmi nella pubblicazione della mia opera intera (o quasi) di poesie. L'edizione costerebbe un bel po' e con le mie sole forze non potrei. E tanti miei altri libri attendono; tra i quali, quello delle "scene" (anzi, sarebbero due), che riscotevano l'ammirazione di Pirandello".(23)

STORIE DI DONNE, SURTOUT

"Il teatro di Marrone giace in massima parte inedito; ma quello che più dispiace - sottolinea Alfredo Barbina - è la difficoltà di poterne tracciare una cronologia sicura e individuarne tendenze e sviluppi".(24)
Adesso, invero, disponiamo di molte più informazioni sulla "genealogia" drammaturgica marroniana, almeno per quanto concerne i testi brevi.
Nella nostra disamina, ci atterremo alla diacronia d'uscita delle varie composizioni e a quanto risulta dagli autografi del poeta conservati a Roma.
Già da un atto unico tra i più remoti del Marrone, La ragna (1907-1908), una vera e propria commedia in quattordici scene, si può accedere nell'atmosfera dominante buona parte della produzione dello scrittore siciliano.
Sin dalla didascalia introduttiva si apprende che l'autore è interessato alla borghesia del periodo "liberty", coi suoi salottini eleganti, i giardinetti e le rose sul davanzale. Questa cornice scenografica ricorre, con gradazioni differenti, in parecchi testi qui proposti.
Sappiamo che nel 1912 quest'opera ricevette un premio dalla rivista barese "Humanitas", sebbene uno dei suoi personaggi collochi la vicenda nel Luglio 1927, datazione forse dovuta a un rimaneggiamento apportato dall'autore nel dattiloscritto a noi pervenuto.
Il leitmotiv marroniano si sostanzia e si nutre dell'intricata matassa delle relazioni tra uomo e donna, tra coppie canoniche oppure frantumate, tra aspiranti coniugi o consumati amanti.
Lo scrittore sembra voler riformulare le molteplici varianti operative, per così dire, della "coppia", spesso puntellate dal tema della solitudine individuale.
Due giovani amiche, Clara e Bianca, si cimentano nei resoconti degli "accasamenti" a cui la fortuna ha condotto, o sta indirizzando, se stesse ed alcune ex compagne di collegio e d'infanzia: Clara, ad appena ventott'anni, è rimasta vedova di un generale e già vagheggia una nuova sistemazione; Bianca sta trafficando, mercé un annuncio sui giornali, per incontrare un compagno; mentre Lucilla, avrebbe "fatto un matrimonio magnifico", con un duca da "centomila lire di rendita" e la "povera Lina Monti (...) ha sposato un droghiere".
Un mondo femminile, dunque, in cui l'obiettivo principe parrebbe quello di siglare un matrimonio e di valutarne la riuscita dall'avanzamento sociale che lo accompagna. Bianca, tuttavia, non rinuncia a sporcare il velo di quella sorta di gentile ipocrisia; ella non smania per un "buon partito" e non coltiva banalità sulla genesi dei cosiddetti amori: "Parliamoci chiaro - ella confiderà, all'amica -. Chi sposiamo noi? Un uomo... incontrato per caso a una festa, alla passeggiata o al teatro; che ci segue poi quando andiamo alla messa o far una visita; che si decide un bel giorno a dirci che ci ama; e che i nostri occhi finiscono col trovar bello", affastellando, dunque, calcolo, caso e necessità nel connubio uomo-donna.
Clara, frattanto, appena dopo aver ricevuto una missiva con cui un'amica (chissà quanto affettuosa!) la informa dello sfarfallio del suo cicisbeo su altri fiori, inopinatamente si decide ad adoperarsi per dissuadere il signor Valeri - l'uomo che avrebbe dovuto vedersi per la prima volta con Bianca -, dal legame che potrebbe scaturirne.
Gli dipinge l'amica con tinte malevole, per poi provare quasi a circuirlo, a "saggiarlo" (a pro dell'amica?): lui ci casca.
Il finale, così, raggruma inquietudini e ambiguità.
Clara scaccerà il signor Valeri fattosi audace, ingenerando nel lettore-spettatore il dubbio di aver voluto giocare un brutto tiro a Bianca oppure a quel verosimile exemplum del (debole) genere maschile.
All'amica ignara, che vorrà sapere cosa sia accaduto, Clara dirà: "Vieni qui. Adesso ti racconto". Non sapremo cosa e in che modo. Ma nel titolo dell'atto unico si adombra la velenosa vedova nera e, insieme, un'insidia.
Ne Le vedove, apparso nel 1920, in un alone di libertinaggio e dissoluzione, di lusso ed eleganza, dei ricchi, annoiati e futili, dissipano la vita.
È ancora una storia di donne, le sole, nel mondo marroniano, a possedere la ferocia e la crudezza della realtà. Ma con l'apparente vanità femminile, emerge, anche, certa sventatezza degli uomini, spesso incapaci di stare alla pari delle loro interlocutrici.
Meleagra, la scafata protagonista, ormai dedita a collezionare amori fugaci e a trangugiare esotici capricci, non esita a rimproverare a uno dei suoi numerosi amanti: "La vita è così monotona. Tutti voialtri siete così sciocchi!".
Come ne La ragna (dove, ad esempio, "Clara" è un personaggio nulla affatto "trasparente"), anche qui la nominazione è intonata all'atmosfera d'autrefois, pullulando la commediola di appellativi come Debora, Mirka, Linotte, Riky, Sigismondo, tipici di un'aristocrazia frivola, decaduta, vanesia, vagamente dannunziana: un'accolita di esseri smarriti, votati al nulla, all'autoannientamento.
Sia Meleagra che il principe, suo interlocutore, paventano il reciproco suicidio, ma entrambi sanno di non essere capaci di un gesto che richieda tale determinazione e vitalità, doti che essi, da tempo, hanno smobilitato.
Figura agrodolce, quella di Meleagra, pervasa da un radicale senso di noia e di morte, inchiodata al suo nichilismo, a uno scetticismo panico, privo di "divertimento".
L'altra sua faccia si paleserà nel momento in cui andrà a visitarla la vedova dell'"avvocatino", che era stato suo amante e per il quale anche lei, nella sua intimità, si è listata a lutto.
Si può, a questo punto, notare un dato ricorrente all'interno della tematica marroniana dei rapporti uomo-donna: la figura dell'amante estinto e, tuttavia, presente come non mai nel mondo del partner superstite.
Tale reiterata situation comedy si ricollegherebbe all'esperienza personale dell'autore che, privato, giovanissimo, dell'unica compagna della sua vita, Maria Valle, morta durante un'epidemia di peste, si eclissò definitivamente, nel rimpianto di una perdita probabilmente inaccettata, rinunciando alla sua sfera sentimentale.
Meleagra non indietreggia davanti alle rivendicazioni della moglie dell'avvocatino, la quale reclama la "memoria" del marito, con una requisitoria alta, intensa, pirandelliana: "(...) ora è morto e me lo riprendo", sostiene la donna. Meleagra replica che il proprio belletto non serve che a coprire il "viso che ho sotto", nel chiarelliano dissidio tra maschera e volto.
Magistralmente Marrone evoca gli shock dell'anima e della mente di fronte ai vuoti lasciati dalla morte e colmati da vivissimi Lèmuri.
L'essere privo d'anima, invero, sarebbe stato l'avvocatino, immeritatamente amato da entrambe le donne. Tutt'e due hanno dovuto fingere di non amarlo, per non "perderlo" mentre era vivo, ma adesso che lui non può più "spaventarsi" del loro amore, entrambe possono denudare i propri sentimenti. Ciascuna delle due può, finalmente, spezzare il cliché in cui l'insensibilità dell'uomo le intrappolava: quello di "donna di piacere" per Clara, e quello di moglie sciocca per la consorte.
Ciascun ruolo, insomma, sopporta un suo prezzo e, spesso, oltre l'insegna luminosa allignano profonde oscurità.
Meleagra traccia, dunque, una sorta di borderò degli affetti, con cui dimostra di essere stata lei, in realtà, la perdente e non la coniuge, e individua ciò che lei e l'altra hanno avuto e goduto di quell'uomo, illustrando come la vita induca a "dividersi", a spartirsi, dolorosamente, quel po' di bene in cui accade di imbattersi.
La donna "frivola", al pari di quella assennata e morigerata, nel back-stage del suo cuore, al riparo dai melliflui accecamenti, ben conosce la crudeltà dell'amore.
L'avvocatino, dal suo canto, è portatore "insano" di un altro inesplicabile "paradosso" dell'animo maschile: quello di amare una e preferire un'altra.
Neppure il suicidio, nella high society in cui Meleagra si ritrova a vivere, potrebbe trarla d'impaccio: ella non sopprimerebbe che la propria "maschera" e non Giovanna Forcella, quale essa era prima della messinscena sociale.
Si noterà che la materia è tipicamente pirandelliana: anche in Vestire gli ignudi - sia pure per ragioni differenti da quelle del nostro caso -, che il Nobel agrigentino fece rappresentare nel 1922 e pubblicò nel 1923, la protagonista, Ersilia Drei, si trova nell'impasse dell'inservibilità del suicidio per chiudere "nobilmente" la propria esistenza.
Un indicatore costante, nelle pièce marroniane, è il salottino di scena, elemento non soltanto "ornamentale", se è vero che esso può farsi assurgere a simbolo della "comodità" e dell'immobilità di taluni ambiti sociali, appollaiati nella morbida sicurezza delle convenzioni, del focolare, di un appagamento fatuo, sterilmente attendista, confortevolmente chiuso.
In Finestra, un limpidissimo atto unico pubblicato nel 1941, lo stacco, la recisione, tra le palpitazioni approntate dal mondo e il tepore algido della tana familiare, sono incardinati nella sineddoche del "davanzale", appunto. Quell'apertura, metaforica via di fuga, è il trait d'union, per le due giovani sorelle (e la loro condizione ricorda Le tre sorelle cechoviane confinate in una squallida città di provincia), tra le proprie banali e, forse, legittime aspettative di maritarsi e le fugaci promesse dell'esistenza.
L'isolamento e la distanza dei cuori rispetto alle profferte del vivere, qui sono rafforzati, ingigantiti al grandangolo, svolgendosi, emblematicamente, la scena in una stazioncina ferroviaria sperduta, attraversata da rari trenini onirici. Ma le lusinghe e le amarezze della vita non risparmiano angoli della terra: "E chi sa quante altre come noi, dovunque... Stazioni perdute e signorine..." immagina una delle due sorelle, che perfino nei brevi e simili nomi - Leda e Alda - potrebbero già confondersi nell'unica astratta figura della giovane che sogna l'amore, cercando marito.
L'uomo che le fissava con cupidità dal treno delle cinque - senza che peraltro fosse chiaro quale delle due fanciulle fosse la mira delle sue attenzioni, dei suoi sguardi - e che, a un certo punto, svanisce, non è (non era) l'ingegnere rimasto seppellito nello scoppio di una galleria: il misterioso "corteggiatore" ha soltanto cambiato l'ora del suo pendolarismo e ricompare, nel riquadro del finestrino del treno, nell'affettuosa compagnia di una donna: "Un'altra canaglia" commentano le ragazze.
Dall'uscio delle attese, anche stavolta è stato riversato in casa un misero sogno, che lascia scorrere lontano il convoglio dei balocchi.
Sebbene il tema possa suonare démodé, resta difficile negare che - uomini o donne -, non ci si sia, almeno una volta, auspicato un "incontro" fatale, risolutivo, che immettesse nel tortuoso solco della felicità, del benessere del corpo e dell'anima; l'approdo di qualcosa o qualcuno che irrompesse nella propria trepida e fiduciosa esistenza.
Anche in questo testo, inoltre, compare il topos della vedovanza, assunto dalla moglie del disgraziato deceduto nella montagna, ospitata per qualche minuto nella casa delle ragazze, figlie del capostazione.
"Eravamo felici, come due rondini" racconta la giovane vedova, come a ribadire che, comunque, non si sfugge alla quota di infelicità che ci spetta.
Ne Il francobollo, un brevissimo dialogo pubblicato nel 1948, muovendo dal "luogo comune" della nuora invelenita che spinge il coniuge a trascurare i propri anziani genitori, si perviene a una singolare osservazione della vecchiaia, intesa come culmine di un sodalizio matrimoniale segnato da compromessi e meschinità, violenze e bisogni. Neanche la "solidarietà" di un'esistenza in comune, insomma, comproverebbe una stilla d'amore "coniugale".
Il vecchio, con trascorsi da donnaiolo e da beone, è incline a minimizzare il proprio dramma, nonché dimentico della triste ricorrenza dell'anniversario di nozze. La donna, sebbene certa dell'inutilità del tentativo, decide di spendere la questua per acquistare un francobollo con cui provare a corrispondere col figlio lontano, avvilita dal proprio destino di asservimento: "Alle donne, l'elemosina non la fanno. Quando sono giovani, se le portano via, con l'automobile..." lamenta.
Anche in questo lavoro, alla nettezza dello scenario didascalico, si accompagna un fitto e apparentemente arruffato intrecciarsi di battute da strada a cui si consegna un severo scavo nei sentimenti, frantumando ogni tentazione di facile pietas e di consolazione prêt-à-porter, spingendoci a ingurgitare fino in fondo il calice del coniugio.
Si possono cogliere, eccezionalmente nel teatro marroniano, riferimenti scopertamente "autobiografici" in Aggiornamenti, una "scena" data alle stampe nel 1949.
Il manzoniano don Abbondio si reca a visitare uno scrittore nel suo studio per sollecitargli un balzano intervento professionale: "aggiornare" il suo personaggio, prima che altri possa farlo, col rischio di deturpare e offuscare l'icona consolidata nei secoli.
La ragione per cui il personaggio de I promessi sposi si rivolge a lui e non ad un altro narratore, non risiede, tuttavia, nella peculiare bravura di quell'autore, ma nella consapevolezza che egli: "(...) scrive il libro, lo legge a tre o quattro amici, in una stanza con la finestra tappata. E poi va a chiuderlo a chiave dentro a un cassetto. Così nessuno sa niente e io vivo tranquillo. Perciò sono venuto da lei", puntualizza il celebre curato.
Il timore del religioso sembrerebbe ben fondato se "oggi un personaggio muore appena è nato", come disincantatamente gli fa dire il Marrone.
In tale contesto da divertissement autoironico, il commediografo non manca di disseminare boutade sarcastiche sul momento storico, senza tuttavia esaltare o rimpiangere il passato: è il 1946 e "il sistema è ritornato di moda", precisa don Abbondio.
Intorno ai personaggi di romanzo - come non ricordare, a questo proposito, il prezioso Dizionario di Gesualdo Bufalino? -, don Abbondio sosterrà che essi, pur essendo immortali, ormai non potrebbero fare a meno del sindacato e riferisce, addirittura, di un intrigo internazionale che vedrebbe coinvolti Renzo e Lucia: questa sarebbe fuggita con gli Americani, mentre Renzo, ottenuto all'estero l'annullamento del matrimonio, si sarebbe dato al traffico illecito di valuta e riceverebbe sostegno dai Russi, avendo affinato la sua vocazione estremistica dopo il suo rivoltoso discorso di Milano. Frattanto, il Cardinal Federigo sarebbe morto, trattandosi di un personaggio storico; mentre l'Innominato avrebbe vita incerta, per la sua natura ibrida, tra la storia e la fantasia.
La messa in berlina, insomma, è indiscriminata: non risparmia i personaggi né, soprattutto, gli autori, tutti esposti ai contraccolpi del trascorrere del tempo, malgrado le più sofisticate astuzie associative e le trame politico-corporative.
Con Lume di luna (1949) si ritorna all'intricato evolversi delle relazioni uomo-donna.
La vicenda si svolge su un duplice registro temporale, come se si ricercasse una speculare conferma di certe costanti dell'agire umano.
In un'antica residenza aristocratica, stuzzicati dall'imminente insediamento di una giovane coppia di innamorati, le effigi di due dipinti settecenteschi, raffiguranti un uomo e una donna, si ridestano per rievocare e ricomporre i propri trascorsi amorosi, gli antichi inganni, anche il non detto. È un rivangare carico di risentimenti ma anche di sapienza. La donna ammette che: "Gli uomini che ci fanno ridere riconoscono la via del nostro cuore" ed è lei ad apparire la più scaltrita ed avvertita nel ripercorrere i vetusti avvenimenti, arricchendoli anche d'inediti retroscena.
Le loro sepolte passioni sembrano, così, rivivere, sia pure dentro il cristallo dei secoli.
L'uomo, messo a giorno soltanto adesso di certi tradimenti consumati da un'altra sua compagna, sembra rinnegare e pentirsi dell'ingenuità giovanile e alla sua interlocutrice chiede di mentire.
Si apprende, poi, che il cavaliere del dipinto aveva avuto una vita breve, mentre assai longeva era stata la donna che, con agghiacciante crudeltà, confida: "Col cuore non avrei potuto vivere novant'anni", alludendo alla saggezza di non dar troppo peso ai legami sentimentali.
Con ironia, infine, i due raffigurati - pur di alleggerire il gravame degli errori e delle illusioni di un tempo - fingono di attribuire alla sbadata e disaccorta amministrazione di taluni amuleti le sorti delle loro vite.
Le due effigi ripiombano nella loro secolare afasia quando i due giovani sposi fanno ingresso in casa, non prima, tuttavia, che la dama d'antan esprima la sua compassione per i replicanti.
Tutto ciò, con una copiosa messe di nuance, l'autore sintetizza in poche paginette, opponendo fittamente, da presso, la polvere della morte allo spendore della vita, recto e verso, peraltro, della stessa opera artistica, a sua volta ambivalente, al pari di ogni gesto umano.
La scena, che si colloca in uno spazio notturno, pallido, rivela toni deliberatamente estenuati e languidi, decadenti e talvolta vagamente artefatti. Non mancano, infine, certi cenni cólti alla storia di Francia, laddove si richiamano le figure del pittore Nattier, della marchesa di Maintenon, del poeta Scarron.
La cultura francese, come è noto, costituiva il principale referente nella formazione del Marrone, come emerge dai molteplici rimandi alla letteratura e ai costumi d'oltralpe disseminati nella sua produzione poetica e teatrale.
Motore dell'atto unico Lo Spettro (1951) sono ancora i tormentosi intrecci dell'amore.
Il commediografo convaliderebbe la tesi secondo cui la serenità della vita sentimentale è assai più insidiata dallo "spettro" di un compagno defunto che non da quello di un "ex" vivente.
Mentre, infatti, la signora Horn teme il "ritorno" della donna giovane e fiorente che per un certo periodo le aveva sottratto il coniuge; la sua amica Lena è vittima dell'inguaribile afflizione che la perdita della precedente coniuge avrebbe instillato nel suo attuale consorte.
È lei, perciò, a necessitare maggiormente del conforto dell'amica: "Solo i morti non muoiono mai" sancisce.
La pièce è come sospesa in una sfera incantata, dove si annusa la contiguità tra il mondo dei vivi e quello degli estinti, che non smettono di alitarci intorno.
"(...) tornano i morti, dai quali non ci possiamo difendere" spiega Lena, che avverte pressante l'insidia di quella donna che "cantava sempre", come le racconta una bimba del vicinato a cui la defunta era stata molto legata.
Dicevamo che il Marrone, scomparsa la giovane fidanzata, restò da solo per sempre: tali opzioni drammaturgiche sembrerebbero, talvolta, una sorta di razionalizzazione della perdita che, ossimoricamente, lo avrebbe accompagnato in tutti i suoi giorni.
Ma, a questo punto, l'autore introduce un geniale coup de théatre, facendo svelare al "vedovo" che egli aveva cacciato la ex moglie poco prima della malattia che l'avrebbe condotta alla morte, essendo stato da lei tradito.
Nessuna pietà per Tito, insomma, suggerirebbe la parafrasi.
La vicenda prevede, quindi, il pentimento di Lena per avere spinto il suo compagno a quel doloroso rivangare. Ciò permette allo scrittore di sottolineare l'esplosione della radicalità quasi cangerogena, cannibalesca del rapporto amoroso, spesso lanciato fino all'involontario annientamento, alla fagocitazione del soggetto amato.
Il motivo ricorda la vorace Pentesilea kleistiana.
L'energia inventiva postulerebbe, a quel punto, un'ultima impennata, che Marrone non ci fa mancare, chiudendo zuccherosamente la partita.
Dopo il mutuo dilaniamento, i due amanti si ripromettono, l'un l'altro, amore assoluto, col corollario dell'abbandono del luogo del delitto, cioè delle rimembranze. Ma ciascuno sa che quel "sito" si reca dentro di sé. Da ciò lo stridore (apparente) dell'explicit testuale rispetto alla presumibile aspettativa del lettore diffidente del lieto fine.
Si può, anzi, in tutto ciò cogliere la più scoperta "ferinità" del Marrone commediografo rispetto al "lirico", come se egli volesse dimostrare che la letteratura, al più, può "consolare" l'autore, ma non consente redenzioni del lettore, dello spettatore.
Si chiude è un breve ed emblematico testo, apparso nel 1956, che si presenta con un "esercito" di personaggi, ben ventuno, sia pure taluni atipici (la foglia, un tarlo, il libro, la luna e così via). È, questo, il primo avviso dell'ingovernabilità della realtà da parte del "protagonista-scrittore". Questi si è, forse per troppo tempo, baloccato nel miraggio di essere lui il "creatore" delle "cose" nominate e trascinate nelle sue operette, ma, adesso, tale fiction diviene insostenibile.
Il precipizio scoscende da un serrato dialogo dell'uomo con la sua governante. Nulla più sembra contare per il "sessantaquattrenne" signore, perfino le donne imbellettate che si recano a trovarlo non sarebbero che "colori che parlano" ("vestiti che ballano", avrebbe detto il suo amico Rosso di San Secondo), simulacri che, privi del maquillage, "Non avrebbero il coraggio di aprire bocca".
Congedata la fantesca, egli riprende un'animosa conversazione con "La foglia" che lo ammonisce sulla convenzionalità, tutta umana, di imprigionare le cose in una denominazione. Essa sostiene che il "platano": "Non ha un nome. La malattia dei nomi appartiene agli uomini".
Lo scrittore ribatte: "Uomo non avrei voluto essere".
Via via, intervengono nella disputa gli oggetti di casa (Le piccole cose che tremano, gemono, cantano, si direbbe, a voler richiamare una celebre lirica dello stesso Marrone): "Una maschera antica", forse quella un tempo assunta dallo scrittore; "La foglia", che chiede al commediografo, all'uomo se non sia lui il diletto di ciò che egli crede di dominare; "Un libro", che gli ricorda che "anche la seconda edizione finirà mangiata dai tarli"...
Il concerto si estende sempre più, alle voci delle figure dei dipinti, delle statuette, degli agognati fantasmi...
Il busto di marmo de "L'uomo celebre" sminuisce ogni gloria terrena: "Si accapigliavano, per conoscere chi fossi veramente. Ma è anche il destino di Shakespeare".
Un'arte messa a nudo, insomma, come Esperina, "Una donnetta" raffigurata in un piccolo bronzo.
Si tratta di un apologo forse irrappresentabile, ma denso di nettare e vergato in finissimo stile. E concluso da una citazione pirandelliana "con una leggera variante: uno, centomila e nessuno", che alla moltiplicazione preferisce l'azzeramento.
Nel 1958 Marrone pubblica la commedia in un atto intitolata La statua del commendatore, opera che potrebbe leggersi come un ribaltamento in versione umoristica, nell'accezione di Pirandello, e dunque tragicomica, del tema proposto ne Lo Spettro.
Anche qui, infatti, si rileva la presenza fantasmatica e ossessiva del coniuge defunto che rende insonne il nuovo compagno della vedova. Stavolta, però, la chiave di accesso al topos è di genere esilarante, grottesco.
La prosopopea celebrativa richiede che s'innalzi un monumento scultoreo all'estinto; il marmo viene installato nella piazza centrale del paese, proprio dirimpetto alla residenza della vedova e del suo nuovo coniuge, che le rimprovera astiosamente di dover così "vedere ogni mattina il tuo defunto marito, appena spalanco la finestra".
Ma, come spesso accade, lo scacco della dignità e dell'onore non basta ad annientare l'accrocco di convenienze, ipocrisie e convenzioni sociali.
Spetterà, peraltro, proprio all'uomo "offeso" dover pronunciare un melenso ed encomiastico discorso commemorativo del commendatore, tra gli applausi e i dissensi di una folla che sa di partecipare a un rituale tronfio. Egli, comunque, grazie al provvidenziale intervento di un misterioso agente, troverà il modo di liberarsi del terzo incomodo, che, per la sua valenza punitiva, riecheggia il celebre Il beffatore di Siviglia e convitato di pietra dello spagnolo Tirso de Molina.
L'intrigante plot suggerisce anche qualche riflessione intorno al facile vezzo di intestare e disintestare, sempre repentinamente, piazze e vie a de cuius di alcuno spessore storico e morale.
Decisamente notevole è, infine, la tecnica marroniana di condurre i dialoghi, fitti e stringenti.
Si riconnette al tema dell'opportunismo politico e a quello della "fragilità" delle cosiddette svolte storiche l'atto unico intitolato Re Ferdinando, un testo di esemplare compiutezza artistica, apparso nel 1964, ma risalente all'inizio del secolo (il manoscritto data 12 Settembre 1913), tanto da venire incluso, da Alfredo Barbina, nel 1970, nella sua antologia del teatro verista siciliano.(25)
In una Palermo fin de siècle, assistiamo al "disguido" occorso al cavaliere Ghigoli che, per accattivarsi la simpatia dell'agognato suocero, gli dona un dipinto acquistato dal rigattiere Coroneo e raffigurante l'ex monarca Ferdinando II, re delle Due Sicilie, verso cui il barone Ramaglia, appunto, serba ancora grande considerazione. Ma, evidenziando la tela una scalfittura, i coniugi Ramaglia preferiscono, piuttosto che coltivare l'ammirazione per l'ex sovrano, accertarsi se essa non nasconda, sotto il palinsesto, un Tiziano o altro pregevole autore.
Vi scopriranno il ritratto dell'odiatissimo Garibaldi, circostanza che, soltanto per la solita prevalenza degli interessi e delle "buone maniere", non fa fallire il proposito coniugale del cavaliere Ghigoli, a sua volta attratto dal denaro della casata, più che dalla futura sposa, Orsolina, peraltro afflitta dalla protesi d'un occhio di vetro. La soluzione sarà quella di trasformare il Garibaldi in un innocuo San Giuseppe, oltre tutto "protettore" dei Ramaglia: si direbbe, insomma, che, con una ficelle tipicamente italica, si portino in salvo capre e cavoli, ovvero si preservino l'onorabilità e la "faccia" di tutti, compresa quella del dipinto.
Nella molteplicità delle effigi racchiuse nel dipinto si potrebbero, metaforicamente, riconoscere le stratificazioni delle epoche storiche, le giustapposizioni corticali intorno al tronco dell'umanità e, dunque, la commistione di passato e presente, mentre il "colore", la vernice della tela appaiono come un cosmetico che trascolora al contatto della pioggia della realtà.
Indicatori testuali probanti di una siffatta concezione della storia da parte del Marrone - e si ricordi il coevo "modello delle élite" del sociologo palermitano Gaetano Mosca, uno dei padri della moderna scienza politica -, sono i sarcastici inchini del povero Coroneo ogni volta che viene nominato Ferdinando II e il pendant del suo commento sulla "mutata" situazione: "È vero. Oggi, siamo piemontesi. (...) E moriamo di fame".
Quest'idea marroniana della storia, come si è visto, è confermata anche in Aggiornamenti, con riguardo al passaggio dal fascismo alla Repubblica: ci pare, tuttavia, improbabile poter sostenere che la visione dell'autore soffra di "minimalismo" e, tanto meno, di conservatorismo: sembrerebbe, piuttosto, trattarsi di solido e fondato scetticismo, di motivata diffidenza rispetto a certi giri di boa della storia che sempre portano con sé un carico notevole di illusorietà e di inganno. Il "trasformismo" - che storicamente si fa risalire ad Agostino Depretis e all'ultimo ventennio dell'Ottocento - come pratica dell'accomodamento e dell'adeguamento, in realtà non è che un evergreen.
D'altra parte, pur non manifestando simpatie per il regime mussoliniano, il nostro scrittore in una lettera (datata Roma 18 Gennaio 1943) all'amico Federico De Maria dice: "Sono stato in pena per te, dati i continui bombardamenti che la feroce stoltezza anglosassone scatena sulla tua e, concedimi, mia bella Palermo. Ma tutto dovrà finire, e com'è nella nostra ferma fiducia, con italiana vittoria".
Di Re Ferdinando, Barbina ha scritto che: "(...) rappresenta, a parte la "trovata" finale (tutto il gioco del lavoro tende a questo) un gustoso quadro di costume sulla Sicilia dopo l'annessione al Regno d'Italia e sulla crisi che investì la nobiltà dell'isola in quel momento di trapasso. Un motivo, quest'ultimo, che è ricorrente nella migliore tradizione della letteratura siciliana dai Viceré ai Vecchi e giovani al Gattopardo. (...). Bello, nella prima parte del Re Ferdinando del Marrone, il dialogo finemente levigato, fatto di allusioni e di garbata ironia".(26)
Si tratterebbe, in effetti, di uno dei migliori lavori del Marrone commediografo. Sin dalle prime schermaglie fra Coroneo e Ghigoli si assapora un testo sapiente, via via persino inespugnabile nella sua "classica" perfezione. Le puntuali e pungenti scaramucce delle parti si stemperano magistralmente nei toni di un'amara e insieme scoppiettante ironia. D'altra parte, la breve commedia "ottocentesca" del Marrone, se può, non senza ragioni, ascriversi al verismo siciliano, potrebbe, sotto altro profilo, autonomamente vivere delle proprie, interne, armoniche corrispondenze, che soltanto posticciamente si possono far risalire ad un gusto e ad un modus più o meno codificati.
Lo stesso discorso, proprio per certa peculiare refrattarietà marroniana agli epigonismi, può valere per il suo "crepuscolarismo" poetico, null'affatto svenato e manieristico.
Anche in Re Ferdinando, infine, sia pure in margine al motivo "storico", si può notare il sorriso distaccato, scaltro, del Marrone circa le ragioni e le modalità del matrimonio dei Ramaglia e il prossimo fidanzamento della loro figlia col Ghigoli: "affari" di famiglia, in definitiva.
L'ultimo testo tirato fuori dai cassetti dell'autore trapanese, stavolta dall'erede, nel 1972, è finito in calce ad una tesi di laurea e risultava, fino ad ora, del tutto ignoto al pubblico. Si tratta dell'atto unico Farmacia notturna, un sapido e avvincente "apologo sull'infedeltà coniugale", come lo ha definito Franco Sgroi.(27)
Uno spocchioso e fatuo farmacista si vanta con una intristita guardia giurata delle sue avventure di puttaniere e, d'altro canto, dell'"onestà" della brava e ingenua, a suo modo di vedere, mogliettina. In realtà, proprio durante il suo servizio notturno egli dovrà medicare un giovane avventore feritosi lanciandosi dalla finestra di un mezzanino, dopo aver pasteggiato un amore clandestino. Si scoprirà, accidentalmente, che dell'adulterio consumato dal giovane dongiovanni la "vittima", o il cornuto, comme on dit, era proprio il farmacista, che poco prima, gagliardamente, aveva manifestato comprensione e solidarietà per colui che, a sua insaputa, era l'amante della moglie.
Marrone, in questo caso, sembra spingere il suo intervento fino al sarcasmo, addirittura al cinismo, giocando tiri terribili ai suoi personaggi, facendoli picchiare contro una realtà che essi, forse, vorrebbero deviata ma soltanto per i propri comodi. Un vero burlone si rivela, dunque, l'autore siciliano, in parecchi dei suoi lavori teatrali. Eppure, al di qua dello scherno, serpeggiano il disincanto, la disillusione, il rifiuto di una pacificata visione del rapporto uomo-donna.
Nel "ritratto" del marito tradito che il giovane fornisce al farmacista, questi non riuscirebbe mai a cogliere se stesso, si rifiuterebbe, in qualche modo, di riconoscersi: un cocu che, al pari dell'ottuso Boubouroche di Courteline, rigetta l'evidenza e la verità.
Lo sfondo nel quale si svolgono queste esistenze è quello di un mondo minuto e oscuro, formicolante e omologato, segnato dall'infiltrazione della mediocrità e del fallimento.
Tanto la guardia che il farmacista confessano di avere, un tempo, immaginato per sé un avvenire migliore dell'attuale. Ma al ripiegamento nella lucida sconfitta della guardia (la cui pregressa "disgrazia di famiglia" sarà chiara soltanto nel finale della scena) si contrappone il corrivo e sconsiderato gallismo del farmacista, il vero "ingenuo". Nelle parole della guardia vi è anche il riconoscimento del superiore principio dell'autoconservazione della vita, della pavidità insita nell'accettarla e subirla comunque essa sia: "Sì: la paura di morire. Non si è coraggiosi abbastanza per scomparire dal mondo col proprio cervello".
In coda a questa rassegna intorno ad una quota degli scritti teatrali brevi del Marrone, ci pare opportuno ricordare che delle sue commedie in più atti, nel 1977, grazie all'interessamento dello scrittore castellammarese Vincenzo Santangelo, è apparsa in volume Le fidanzate, composta da un preludio e quattro atti.
Si tratta di uno dei primi saggi drammatici del Marrone, ancora assai influenzato dalla sua esperienza crepuscolare e, forse, dalle incertezze del novizio, eppure si è visto il rilievo che autorevoli commediografi vi riconnettevano: "Si nota una lentezza non giustificata - scrive il Santangelo -, ma, superato questo primo momento, la commedia si avvia con convincente misura e senza indugi nella essenzialità dei fatti e degli intrecci in ogni atto chiaramente ordinati e concorrenti all'esito globale".(28)
È un'opera che sembra risentire di certi toni dimessi di una stagione storica, prima che letteraria - databile nello snodo culturale che si registra a cavallo tra i due secoli in cui visse l'autore - e conservare tutto il carico delle inquietudini e degli sbandamenti del momento.
Sebbene impacciata, emerge anche l'attenzione dell'autore al cambiamento dei costumi sociali e dei gusti estetici.
Santangelo ravvisa, ne Le fidanzate, "Lo stesso disincanto di fondo che si nota in Carnascialate e Poemi provinciali (...), la rappresentazione di un mondo senza larghi ideali in quella "belle époque" che vive tra la noia e la retorica, tra il perbenismo di facciata e la mancanza effettiva di sostegni morali (...). Una commedia dunque (...) antiretorica e antisublime e di approfondimento sociologico e psicologico nella puntualizzazione degli atteggiamenti condizionati dall'ambiente... Sin dal preludio (...) si scorge chiaramente quel disincanto dei crepuscolari per le donne di lusso, le aristocratiche, le sofisticate che facevano epoca per opera del D'Annunzio".(29)
Ma in tale raffigurazione dell'Italia primo-novecentesca è anche possibile cogliere la denuncia di un appiattimento mediocre e vacuo delle classi agiate, alle prese col "mito" della famiglia-ricettacolo di ogni slancio vitale e, perciò, di ogni bancarotta umana.
"Le fidanzate - aggiunge Santangelo - accusano un'ascendenza, anche se larvata, con i moduli scapigliati, tra lo psicologismo e la descrizione d'ambiente, con soluzioni né tragicamente sconsolate né estremamente consolatorie, attraverso la mediazione di un disincanto personale, la cui genesi è dovuta più all'impatto esistenziale con il comportamento della piccola borghesia che ad una motivazione socio-culturale o politica".(30)
Cesare Giulio Viola, l'unico fino a pochi anni fa ad essersi occupato della produzione teatrale dello scrittore trapanese, in un suo breve saggio - dove, peraltro, precisa di prediligere le "scene" marroniane alle commedie a lui note -, sostiene che "Il teatro di Tito Marrone è, anzitutto, un teatro tipicamente e rigorosamente italiano (...)" e illustra Le fidanzate come "un vasto e movimentato affresco provinciale trasferito sul fondo della vita di Roma. Qui vecchi e giovani, i vecchi con i loro induriti compromessi, i giovani con le loro innocenti speranze, giocano una dolorosa e ironica farsa sulle vicende di cinque fidanzati".(31)
Santangelo, d'altro canto, segnala, di questo lavoro marroniano, possibili suggestioni derivanti dal teatro borghese francese, ravvisabili in venature di tipo elegiaco, e impronte di tipo lirico, come in Marionette, che passione! di Rosso di San Secondo.
Certo, una valutazione complessiva e approfondita del teatro marroniano richiederà uno studio dell'intera opera, ma del suo radicamento anche nella letteratura francese di fine Ottocento si ha comprova nella devozione dell'autore per le opere di Henry Becque, spietato guastatore della falsa serenità sociale e innovatore rispetto al naturalismo dei vari Zola, Daudet, Maupassant.
Si veda, ad esempio, come certi intrighi muliebri presenti ne La parigina di Becque, si intonino ai devastati quadretti familiari proposti dal Marrone che, peraltro, dovette rispecchiarsi nel grande commediografo parigino anche per quel che riguardava la sua supposta misantropia, cosa che, spesso, altro non sarebbe stato che spirito di indipendenza e di libertà.
Delle altre commedie del Marrone, a parte i titoli, si sa che "ne La danza di Rirì è rappresentata la vicenda di una donna che dopo tante delusioni e molto peccare ritrova la sua pace nelle braccia del primo amore",(32) mentre circa Cola Berretta risulta "una lettera inedita in cui Rosso avverte l'amico che egli rifiuta la paternità morale, non quella artistica, della commedia".(33)
Dal carteggio tra Tito Marrone e Federico De Maria (custodito nella Biblioteca comunale di Palermo) è possibile racimolare qualche notizia anche su alcune commedie marroniane ancora inedite.
Da una lettera dell'8 Dicembre 1939 si deduce che, qualche settimana prima, il sodale palermitano si era occupato di far radiotrasmettere Sotto gli occhi dell'avo.
Di questo atto unico, Marrone scriverà ancora, in una missiva del 18 Maggio 1951, interessante anche per l'"autocritica" su altri suoi lavori: "Ti mando - scegliendole come più opportune, per il fine che ti proponi, fra molte altre - quattro commedie in un atto: La ragna, Lo spettro, La statua del commendatore e Sotto gli occhi dell'avo. La prima è una vecchissima cosa e amerei che la lasciassi da parte: è debole artisticamente, benché, cinquanta anni fa, sia stata premiata da un centinaio (di lire - n.d.r.). La seconda è un fine studio psicologico, pubblicata recentemente dalla rivista "Il ridotto" di Venezia. Non la credo troppo adatta a uno spettacolo gaio, ed ha bisogno di una forte prima attrice, esperta delle più lievi sfumature. Alla terza tengo moltissimo: è una delle mie prove di teatro più riuscite e più originali. Ma va curato molto l'ambiente delle prime scene. E la parte dell'agente è difficilissima (...). Tuttavia, la credo di sicurissimo effetto. Pirandello ne era entusiasta. Rimane la quarta, che tu già conosci, per averne curata affettuosamente la concertazione alla radio di Palermo, nel 1939, credo. Tuttavia, come spettacolo, mi pare si presti più delle altre: a quanti la conoscono, è sembrata divertentissima. Il mio parere è che tu metta questa in scena, specialmente se puoi disporre di due attrici indiavolate. Se, qua e là, soprattutto nella prima parte, riscontri qualche lungaggine, taglia pure. La commedia deve filare rapidissimamente".
La preferenza del De Maria cadrà proprio su quest'ultimo testo, come si apprende da una successiva epistola del "crepuscolare": "Approvo la scelta di Sotto gli occhi dell'avo. Taglia pure, come già ti scrissi, tutto quello che, specie nella prima parte della commediola, può sembrarti superfluo; e cura molto (con continui, improvvisi cambiamenti di turno a rapidità massima) il finale della telefonata: tutto l'effetto è lì".
Del 21 Agosto 1944 è il lapidario "evangelio": "Ho finito un'altra commedia in tre atti: Liana, Masino e la banda".
Mentre un dato del tutto nuovo nella bibliografia marroniana è l'esistenza di un testo scritto in collaborazione con R. Manzini: "Ti mando - scrive al De Maria -, per l'Eiar di Palermo-Catania, la commedia che affettuosamente mi hai domandato. Essa è già stata, per la rappresentazione, approvata dalla competente autorità. Se credi, e se puoi, nel comunicarla al Radiogiornale, si potrebbe scrivere così: La mano che ha rapito... Commedia gialla di Romeo Delzi. E, tra parentesi: (T. Marrone e R. Manzini). Altrimenti, in Sicilia, come qualcuno spero si ricordi ancora di me, non capirebbero che io ne sono, con un altro, l'autore".
Il medesimo - finora ignoto - titolo ricorre in una lettera del 6 Gennaio 1945: "(...) non ho ben capito la ragione del ritardo della Mano che ha rapito... Ci contavo tanto per la fine dell'anno scorso! Un'altra commedia in tre atti, conveniente per la tua radio, non ce l'ho: le mie, in generale, sono poco familiari".
Intorno agli esordi drammaturgici marroniani occorrerà, peraltro, tener presente che il guado verso il teatro avviene, anche effettualmente, attraverso la sua poesia - per lo più sparsa in riviste - di Carnascialate e Favole e fiabe, che segnano un passaggio graduale e morbido in direzione delle forme dialogiche e discorsive.
In Giorno di magro (apparsa nella "Rivista di Roma" il 25 Dicembre 1905), ci avverte Donatella Breschi, "Il linguaggio si trasforma: dalle raffinatezze dell'aulico e dell'esoterico si passa ad espressioni che tendono al colloquiale, allo stile "basso" (...)".(34)
Tale invenzione marroniana, peraltro, avrebbe avuto estimatori ed epigoni in Ugolini, Chiaves, Corazzini e Cavacchioli.
Nelle Carnascialate, prodromiche della produzione successiva, anche teatrale, si combinano la cifra dell'"impersonalità" con quella del simbolismo: "(...) il poeta, spettatore di una realtà che si svolge sotto i suoi occhi come una farsa, che egli non giudica, cosciente del fatto che la farsa è specchio anche della sua umanità".(35)
Mentre le Favole e fiabe si porrebbero "come il momento in cui la maschera-simbolo lascia il posto al personaggio della favola, simbolo più lieve, più ampio, più inafferrabile, ma anche più universale (...)".(36)
A quel punto, il nostro autore trafficava già anche coi suoi personaggi da teatro.
La mole degli inediti marroniani, ancora oggi non consente una lectio sicura e piena dell'intera opera teatrale dello scrittore siciliano.
Dai dati e dai testi raccolti in questo volume si possono, tuttavia, tracciare alcune - sia pure parziali e provvisorie - linee-guida.
È documentato che Marrone si occupò di teatro per circa un sessantennio. Se si esamina l'arco temporale ed operativo della sua drammaturgia, si può osservare come essa si sia rapportata alle coeve esperienze sceniche.
Estraneo all'appeal, alla moda e ai clamori del teatro dialettale (che, invece, tanto aveva contato per autori come Pirandello e il suo sodale Nino Martoglio),(37) un primo "affluente" marroniano sembra scorrere sul letto simbolista e intimista, correnti a cui si fanno, ad esempio, risalire autori come Roberto Bracco, Cesare Vico Lodovici e il crepuscolare Fausto Maria Martini.
In quest'aura si potrebbero collocare, grosso modo, lavori come Le fidanzate (1909), La ragna (1907), Finestra (1941), Francobollo (1948), Lume di luna (1949) e, forse, le "precoci" operette e molte delle "scene" più remote.
Altro versante sfiorato da Marrone sarebbe quello verista, non tanto per un'adesione al canone del crudo documento, ma, semmai, soprattutto nello splendido Re Ferdinando (scritto nel 1913), per la sua ambientazione regionale, lo scavo del tema storico, la trattazione della condizione della borghesia siciliana con una sintassi di scientifica aderenza psicologica. Un verismo, insomma, lontano da quello verghiano e martogliano. E, forse, più affine a quello derobertiano.(38)
Il metodo marroniano è, in genere, indagativo, esplorativo, volto alla rappresentazione della "verità" sottesa alla vernice delle apparenze: non si sazia del cosiddetto "vero oggettivo": è già "teatro moderno", problematico, "pirandelliano".
E in tale alveo si potrebbero incrociare testi come Le vedove (1920), Aggiornamenti (1946), Lo spettro (1951), La statua del commendatore (1958) e Farmacia notturna (di cui si ignora la data di composizione).
In queste opere affiorano, infatti, tematiche che si apparentano a quelle del grande drammaturgo agrigentino, con gli assillanti interrogativi sulle identità personali, sull'autenticità dei sentimenti, sulla forza dell'ipocrisia, sul mondo dei personaggi e degli autori.
Malgrado il "debutto" col Rosso di San Secondo (in verità mancato e, forse, pour cause), la drammaturgia marroniana non sembra confarsi al teatro preminentemente "passionale", "dionisiaco", "di poesia" del Nisseno.(39)
Le "marionette" del Marrone, sotto il pungolo del loro autore, finiscono, spesso, col reagire chimicamente. Esse agiscono, solitamente, fuori da contesti sicilianamente realistici, dalla sansecondiana dicotomia di Nord e Sud, dall'inflazione metaforica e sognante.
Marrone e i suoi personaggi ci appaiono più raziocinanti e più amari. Le sue protagoniste femminili, ad esempio, sembrerebbero, con se stesse e col mondo, molto meno clementi di certe loro colleghe sansecondiane: Una cosa di carne, oppure La donna che può capire, capisca rivalutano la figura femminile, a fronte della tensione "misogina" e dissacratoria del Marrone. Non così avviene, naturalmente, in Tra vestiti che ballano, dove si torna alla frivolezza e alla voracità del "secondo sesso".
Ancora più lontane dal mondo marroniano risultano l'ingenuità e il candore di una Minnie bontempelliana.
Molti testi del nostro autore - per lo più "brevi", "scene" appunto, ideati, forse, come radiodrammi o come récit di tipo cechoviano - si presterebbero alla semplice lettura meglio che al palcoscenico. Mentre pièce come Si chiude e Aggiornamenti potrebbero perfino "tradire", nell'opera marroniana, tardive tracce di teatro sintetico e astratto, in cui, con testi striminziti, si dà voce anche ad esseri inanimati (e si ricordi che l'autore trapanese era anche stato in contatto col Marinetti); oppure punte di espressionismo joppoliano (del tipo presente in Domani parleremo di te),(40) quando si polemizza - in chiave antipirandelliana - intorno alle prevaricazioni degli autori sui propri personaggi, vampirizzati e "cadaverizzati" nei copioni.

NOTE 1 A. Fiore, Tito Marrone, "La Ragione", Trapani, n.2, Maggio 1903: "Ad onore e gloria dell'immortale latinità gli studenti e le studentesse di Roma ànno dato al Nazione l'Aulularia del grande Plauto ed il Romolo Augusto dell'ottimo De Gubernatis; uno degli artisti di occasione era il nostro Tito Marrone che "Atomo" del "Giornale di Sicilia" ci à presentato in maniche di camicia, facendocene le lodi più lusinghiere. Sappiamo che egli ha vinto il concorso di poesia bandito da Matilde Serao per la "Settimana" e gliene facciamo le più sincere congratulazioni".
2 N. Porzia, Il poeta che fermò l'orologio, "Iniziative", Roma, a.VII, n.4, 1958: "Sono in possesso del primo curioso documento che segnala la presenza a Roma, nell'anno 1903, del ventenne poeta. Si tratta della cronaca di una rappresentazione dell'Aulularia di Plauto, organizzata da Angelo De Gubernatis che fu il Mosè degli enciclopedici. Ne furono protagonisti i goliardi Tito Marrone e Luigi Siciliani entrambi vezzeggiati alunni di tutte le Muse. Si racconta che lo spettacolo fu davvero una festa dell'Arte e poiché allora, come adesso - a Roma, a Napoli e in ogni luogo - tutte le feste finivano col vino e coi tarallucci, anche la classica rappresentazione plautina sfociò in una grande tavolata imbandita al Castello di Costantino, locale celeberrimo per le storiche memorie e per le fettuccine al burro. Di quel banchetto oggi sopravvive un solo esemplare della lista delle vivande, stilata in lingua latina d'impeccabile purità maccheronica; fregiata con pantagruelico estro da Filiberto Scarpelli; autenticata dalle firme del barbuto anfitrione, Angelo De Gubernatis e di due ospiti d'onore. Un russo, del quale non sopravvive memoria, D. I. Louis Malenkoff, e un francese di cui rimarrà eterna la gloria: Anatole France".
3 T. Monicelli, Un grande avvenimento d'arte all'Argentina. "L'Orestiade" di Eschilo, "Avanti!", 14 Aprile 1906.
4 Ibidem. "Della compagnia del Boutet facevano parte attori illustri quali Ferruccio Garavaglia, Giacinta Pezzana, Evelina Paoli, Vittorio Pieri. I costumi furono disegnati da Rodolfo Kanzler, direttore dei Musei Vaticani; la decorazione scenica fu curata da Duilio Cambellotti" (cfr. A. Barbina, Teatro verista siciliano, Bologna, Cappelli, 1970, p. 545).
L'Orestiade tradotta da Marrone e Cippico fu anche rappresentata a Bologna, Trieste, Mantova, Verona ed altre città italiane e avrebbe dovuto essere pubblicata in volume dall'editore Treves. Ciò si apprende da una lettera, datata 5 Settembre 1905, dell'inedito epistolario - custodito presso la Biblioteca comunale di Palermo - tra Tito Marrone e lo scrittore Federico De Maria.
Il poeta ritorna su questo tema in una missiva al De Maria del 17 Ottobre 1949, nell'imminenza dell'assegnazione del Premio Siracusa: "Senza il mio (e del mio collaboratore di allora) audacissimo gesto di tradurre l'Orestiade in versi ed offrirla, primo esperimento italiano (che ebbe risonanza mondiale) alle platee d'Italia (ed ebbi, tra gli altri teatri, l'Argentina di Roma e l'Olimpico di Vicenza e interpreti quali oggi non esistono più: Ferruccio Garavaglia e Giacinta Pezzana), il Romagnoli, vari anni dopo (...), non avrebbe ripreso l'opera di traduzione e il teatro greco di Siracusa dormirebbe sempre il suo nobile sonno tra la sinfonia dei grilli campestri e delle ranocchie melmose".
5 I nostri concorsi, "Humanitas", Bari, a.II, n.44, 3 Novembre 1912.
6 N. Porzia, Il poeta che fermò l'orologio, cit..
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 L. D'Ambra, Trent'anni di vita letteraria. Il ritorno a fil d'acqua, Milano, Corbaccio, 1929, p.379.
11 L. D'Ambra, op. cit., pp.380-381.
Antonio Cippico (Zara, Dalmazia, 20 Marzo 1877 - Roma 18 Gennaio 1935), conte, laureato in Giurisprudenza all'Università di Vienna nel 1901, si occupò di giornalismo letterario e politico ("Rivista di Roma", di cui fu direttore; "Marzocco"; "Popolo d'Italia"). Fu traduttore e docente di Letteratura italiana all'University College di Londra dal 1906 al 1928. Sostenne l'italianità della Dalmazia; interventista, partecipò alla prima guerra mondiale e fu favorevole all'impresa di Fiume. Dal 1923, fu senatore (cfr. S. Cella, Cippico, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1981, pp. 732-735).
12 L. D'Ambra, op. cit., p.382.
13 L. D'Ambra, op. cit., pp.383-384.
14 L. D'Ambra, op. cit., p.384.
15 La lettera, datata 25 Settembre 1958, è ora raccolta in: V. Santangelo, Appunti per la sistemazione dell'ultimo Marrone, Palermo, Stass, 1979, p.236.
16 L. D'Ambra, op. cit., pp.385-386.
17 Datata 25 Settembre 1958, la lettera è in: V. Santangelo, op. cit., p.236.
18 A. Barbina, op. cit., p.548.
19 La missiva autografa, del 22 Marzo 1951, è riprodotta in fotocopia da V. R. Occhipinti, nella sua tesi di laurea del 1972, discussa nella Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo, intitolata L'opera poetica e letteraria di Tito Marrone.
20 F. Sgroi, Tito Marrone, un poeta galantuomo, "la Fardelliana", Trapani, 1983, p.86.
21 P. M. Rosso di San Secondo, Geo Libbrecht e Tito Marrone, "Il Giornale d'Italia", 23 Ottobre 1949.
22 N. Porzia, Il poeta che fermò l'orologio, cit..
23 Anche questa lettera è inclusa nella tesi di laurea di V. R. Occhipinti.
La cortesia della professoressa Silvana Bortolin, erede del Marrone e custode delle sue "carte", oggi ci consente di conoscere - con l'importantissimo corredo cronologico concernente la stesura dei testi - la presumibile struttura dei "due" libri meditati dallo scrittore trapanese e una preziosa messe di "titoli" assolutamente ignoti alla critica.
Uno avrebbe dovuto includere le "scene" (si precisano, tra parentesi, luoghi e date indicati sui dattiloscritti, oppure sede e tempo di pubblicazione): Gelosia (4 Gennaio 1914), I superstiti (29 Ottobre 1914), Il tramonto (Roma, 2 Dicembre 1914), Ritorna (Roma, 7 Dicembre 1914), Sgombero (Roma, 22 Dicembre 1914), La famiglia (Roma, 13 Giugno 1916), Passa la morte (Roma, 17 Agosto 1917), Scheletro d'un minuetto (Veroli, 12 Ottobre 1926), Farsa (Veroli, 2 Dicembre 1926; titolo precedente In treno), Il porto (Villa Borghese, 13 Agosto 1927), Gl'inconsolabili (Roma, 30 Agosto 1927), L'altro suicida (Roma, Villa Borghese, 25 Agosto 1930; titolo precedente Lume di luna), La stazione (Roma, Villa Mattei, 3-5 Agosto 1931), I mariti di Lorenza (Roma, Villa Tevere, 1-2 Luglio 1936), Ladri (10-11 Settembre 1945), Lume di luna (Roma, 14 Settembre 1945; è opera differente da L'altro suicida ed è apparsa su "Pagine Nuove", Roma, Maggio 1949), Aggiornamenti (Roma 16 Ottobre 1946; pubblicata da "Pagine Nuove", Roma, Ottobre-Novembre 1949), Il francobollo ("Pagine Nuove", Roma, Luglio-Agosto 1948), Si chiude ("Arte-Stampa", Dicembre 1956). Senza data risultano: Vicenda di burattini, Il poeta e la maschera e Fraternità.
Un altro volume avrebbe dovuto raccogliere gli atti unici: La ragna (Ottobre 1907 - Febbraio 1908), Le Panneau (traduzione in francese de La ragna; Roma, 1907), Visita di condoglianza (1912), Le vedove ("Noi e il mondo", 1 Maggio 1920), Re Ferdinando (12 Settembre 1913; pubblicata da "Iniziative", Roma, Maggio-Giugno 1964 e da A. Barbina in Teatro verista siciliano, Bologna, Cappelli, 1970), Sotto gli occhi dell'avo (trasmessa alla Radio, nel 1939), Finestra (trasmessa alla Radio l'8 Giugno 1941 e apparsa sul "Radiocorriere" il 28 Giugno 1941), Lo spettro ("Ridotto", 1 Gennaio 1951), Sindacato degli immortali (Roma, 10 Maggio 1953), La statua del commendatore ("Iniziative", Roma, 1958). Incomplete e senza datazione: Tutto s'accomoda, Fantasia del crepuscolo (La Trilogia del Giorno). Senza data è anche Farmacia notturna (apparsa in calce a una tesi di laurea nel 1972).
Negli stessi fogli, il Marrone riepiloga anche la sua produzione di "operette": La fioraia (melodramma in due atti, musica di E. Ortiz de Zàrata, programmata al Teatro Quirino, Stagione Carnevale 1905-1906); Le due medichesse (operetta in tre atti, incompleta; pseudonimo Mapaga, ovvero Marrone-Parmeggiani); Sita (dramma lirico in tre atti, tratto dal Ramaiana; il terzo atto non è stato mai scritto); Il cappello alato (operetta in tre atti, tratta dalla commedia del Labiche; musica di G. Travis; rappresentata nel Teatro di Reggio Calabria); La spiaggia (operetta in due atti, scritta con A. Alcaro; musica di A. Capodanno; in precedenza intitolata E il banditore è solo).
24 A. Barbina, op. cit., pp.546-547.
25 A. Barbina, op. cit., p.547.
26 A. Barbina, op. cit., pp.24-25.
27 F. Sgroi, Tito Marrone, un poeta galantuomo, cit..
28 V. Santangelo, Tito Marrone. Testi inediti e rari, Palermo, Vittorietti, 1977, p.69.
29 V. Santangelo, op. cit., p.70.
30 V. Santangelo, op. cit., p.73.
31 C.G. Viola, Marrone scrittore segreto, "Scenario", 11 Novembre 1943.
Il Marrone, invero, come si coglie dalle molte lettere al De Maria in cui tratta de Le fidanzate, amava molto questa "sfortunata" commedia.
"Quest'inverno forse mi deciderò a dare le vecchissime Fidanzate. Ma, forse, le riscriverò. Temo si siano mummificate. E io, invece, come scrittore, mi sento così giovane!" comunica all'amico palermitano il 4 Maggio 1940.
Il 19 Luglio 1940 preciserà che, a causa di traversie famigliari, i rimaneggiamenti del testo si sono arenati: "(...) avevo cominciato a rivedere Le fidanzate, che si dovrebbero dare quest'inverno da una compagnia di prim'ordine, con ogni cura e coi costumi del tempo".
Altri intoppi si registrano nell'Agosto del 1942: "Avant'ieri, recandomi all'Eliseo, per prendere gli accordi col regista, onde fargli la lettura delle Fidanzate (finalmente in ordine: e che tu elogi con più fraternità che spirito critico; ma, tra parentesi - e già c'è! - credo anch'io sia un'ottima commedia)... trovai che il signore ricercato era partito, da pochi giorni, per una bellissima stazioncina a Montecatini. Il 3 di Settembre l'Eliseo riapre i battenti: andrò in quei giorni, e spero di fare in tempo per il cartellone di quest'inverno... Se no... Chi se ne infischia, dopo tutto? Il cielo rimane lo stesso, la terra passa lo stesso, e noi prima di essa. Si divertano pure, con le loro commediole idiote!".
Le peripezie della commedia marroniana non sono ancora cessate il 18 Gennaio 1943: "Delle Fidanzate posso dirti che ancora nulla è deciso; solo intralcio essendo la difficoltà dei costumi dell'epoca: ma su ciò io non posso transigere: l'opera, data altrimenti, sarebbe assai menomata".
A distanza di molti anni, lo scrittore siciliano ritorna a parlare al suo amico di quel tormentato testo. Prima in un breve cenno: "Tra giorni, devo leggere al regista dell'Eliseo Le fidanzate, che ho quasi interamente rinfrescate (l'ultimo atto è nuovo) e che sono riuscite, se non m'inganno, un'opera perfetta" (la lettera sembrerebbe datata 10 Agosto 1953).
Poi, nel Ferragosto del 1953, con un'estesa "confessione": "(...) lo strano è che tal commedia, letta a critici, ad autori, a capocomici insigni, sia stata da tutti giudicata un capolavoro, pur non avendo voluto gli attori - ultima la povera Kiki Palmer (...) - sobbarcarsi a una spesa non indifferente di messa in scena e di vestiario (la commedia, quando fu scritta, nel 1909, era attuale; ora non si comprenderebbe, se non storicizzata nel tempo). Altra difficoltà è la grande quantità di personaggi, quasi tutti di primo piano: ci sarebbe voluto, a dire di alcuni, un'accurata scelta tra attori principali di varie compagnie. Queste cose mi disse anche il Comm. Toraca: che, se io avessi voluto darla con costumi d'oggi - cosa a cui mi opposi - sarebbe stata senz'altro data, una decina d'anni fa, all'Eliseo. Sara Ferrati ne era entusiasta, e mi propose di cederla al cinematografo: essa era pronta a farmela filmare: avrei guadagnato molto forse, ma la commedia - come commedia - era per me perduta: rifiutai. Di Pirandello e di Niccodemi, tu sai già: lì forse la colpa fu mia; ma io non ero ancora contento dell'ultimo atto, che ora è per me, insieme al preludio, il più bello e moderno. Io amo immensamente questa mia opera; mai più, sul teatro, farò opera così classicamente compiuta: così ricca d'intreccio, così varia di toni (da quello impressionistico del preludio a quello realistico del primo; a quello - ombra e luce - così sentimentale del secondo; a quello decisamente farsesco - in cui ho realizzato, nel finale, un quartetto dialogato originalissimo - del terzo; a quello così dolorosamente umanistico del quarto, dove il tono della commedia si rialza nella risonanza di un'amara umanità). E la commedia non ha un attimo di sosta ed è pienissima di effetti teatrali d'ogni genere; e i personaggi vivono tutti un loro dramma, e nessuno (cosa più unica che rara in un'opera di teatro) è in funzione dell'altro, pur armonizzandosi insieme. E Le fidanzate non sono quelle sole che, a prima vista, appaiono, ma ben otto: Rina, Speranza, Adalmira, la signora Trepiedi e la disperata vecchia, che chiude così desolatamente il lavoro. Vi aggiungo anche la vecchina che ricorda la gioventù, nel preludio, e la giovinetta che, come un tema musicale svolgentesi poi a piena orchestra, lo apre. Adolescenza all'inizio, vecchiaia alla fine. E, in fondo, questa illusione che è l'amore di fidanzate, vive solo nel pianto sconsolato della vecchia ruina umana: questo è, per dirla manzonianamente, il succo, l'amaro succo, della mia grande commedia".
Da ulteriori frammenti epistolari si evince che il Marrone e il suo corrispondente non avessero ancora esaurito l'argomento.
32 A Barbina, op. cit., p.548.
"La signora Maltagliati ha, da qualche mese, Danza di Rirì" si legge nella corrispondenza marroniana col De Maria (lettera del 26 Agosto 1942). Si tratterebbe dell'attrice fiorentina Evelina Maltagliati che, nel 1948, costituirà una compagnia con Vittorio Gassman e Tino Buazzelli e, tra il 1951 e il 1954, fu primattrice del Piccolo Teatro della Città di Roma, allora diretto da Orazio Costa.
33 Ibidem.
34 D. Breschi (a cura di), Tito Marrone. Antologia poetica, Napoli, Guida, 1974, p.19.
35 D. Breschi, op. cit., p.31.
36 D. Breschi, op. cit., pp.21-22.
37 Sugli esordi teatrali di Pirandello, la sua intesa con Martoglio, i suoi contatti con Rosso di San Secondo e le collaborazioni con i grandi "istrioni" siciliani d'inizio Novecento, si cfr. S. Zappulla Muscarà, Introduzione a L. Pirandello, Tutto il teatro in dialetto, a cura di S. Zappulla Muscarà, Milano, Bompiani, 1993, 2 voll.
Circa tale produzione del Nobel agrigentino, utile - in una prospettiva comparativa - è quanto scrive, alla p. XVI della citata Introduzione, la studiosa catanese: "Luogo sincretico di molteplici esperienze non solo letterarie, nonostante l'area geografica ed esistenziale sia riconducibile alla specificità siciliana, ai residui di una cultura verista che ancora permane, il teatro in dialetto di Pirandello è già antinaturalistico e metaregionalistico. Lo agita senza posa il travaglio dialettico ragione-mito, verità-mistificazione, progresso-immobilismo, spinta propulsiva dell'apparente nomadismo esistenziale, che acuisce la lacerazione della coscienza, segnata dalla consapevolezza di una riscossa impossibile, di una staticità storica mortificante".
38 Su questi temi si vedano, oltre al citato Teatro verista siciliano, a cura di A. Barbina: N. Tedesco, Il cielo di carta. Teatro siciliano da Verga a Joppolo, Palermo, Flaccovio, 1989; N. Tedesco, La norma del negativo, Palermo, Sellerio, 1981; A. Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, Catania, Fondazione Verga, 1998.
L'intera opera drammatica martogliana è raccolta in N. Martoglio, Teatro, Catania, Tringale, 1984, 3 voll.
39 Luigi Ferrante sintetizza un'opinione diffusa intorno alla drammaturgia sansecondiana: "Rapida e breve è stata la fortuna di Rosso; oggi molti lo accettano come scrittore di un momento, quello intorno alla prima guerra mondiale: la pena di vivere, le ombre dell'espressionismo tedesco e del simbolismo nordico, un clima crepuscolare, i segni alterati del grottesco, un annuncio dell'esistenzialismo, fermenti ancora confusi, vivaci ma compromessi, troppo vicini all'ibsenismo, aperti all'influsso pirandelliano, ma anche al dannunzianesimo, insomma tanto ricchi quanto eterogenei, quasi giornalistici" (cfr. L. Ferrante, L'opera di Rosso di San Secondo nel teatro italiano tra le due guerre, in Rosso di San Secondo, Teatro, introduzione di Francesco Flora, a cura di Luigi Ferrante, Roma, Bulzoni, 1976, vol. I, pp. 605-606).
40 Si cfr., al riguardo, B. Joppolo, Teatro, introduzione di N. Tedesco, Messina, Pungitopo, 1989.

pagina a cura di    Gigante Lorenzo Maurizio    per Salvatore Mugno

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