Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
Alcamo e Garibaldi di Carlo Cataldo


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ALCAMO E GARIBALDI

(Testo integrale dell'orazione commemorativa tenuta nel Cinema Teatro "Euro" di Alcamo il 13 maggio 1982 dal Prof. Carlo Cataldo)

Signori!
Con vera umiltà ho accettato l'invito del signor sindaco di Alcamo a commemorare oggi Garibaldi nel primo centenario della morte.
E con maggiore umiltà se penso che già nel 1910, in questo teatro (allora Teatro Comunale), un illustre storico, il prof. Francesco Maria Mirabella, commemorò il primo cinquantenario della Spedizione dei Mille; se penso che nel 1932 un altro illustre storico, il prof. Giuseppe Mistretta Di Paola, commemorò al Cinema Teatro Diana (così si chiamava l'attuale Cinema Marconi) il primo cinquantenario della morte di Garibaldi. I testi delle due orazioni si trovano nella Biblioteca Comunale di Alcamo(1). Ad esse andrà ad aggiungersi questa mia di oggi, per l'eventuale interesse di studiosi futuri.
I quali - come credo - se nell'orazione del Mirabella vedranno rispecchiato il quadrato buon senso e il galantomismo post-risorgimentale; se nell'orazione del Mistretta Di Paola - scritta nel momento centrale dell'«era fascista» - vedranno riflesso il tono trionfalistico del tempo nell'ardito parallelo finale fra Garibaldi e Mussolini e nel conclusivo panegirico del Duce (omaggio al costume di allora); nel mio discorso odierno, documentario e consequenziario, ravviseranno la sobria e disincantata radiografia dei segni dell'attuale malessere sociale.
E non so trovare esordio migliore - ad apertura delle celebrazioni alcamesi del primo centenario della morte di Garibaldi - se non queste parole del nostro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. "Garibaldi - egli ha detto - ha sempre rappresentato in Italia e nel mondo le speranze di libertà, di indipendenza nazionale e di riscatto sociale".
"Oltre che un capo militare vittorioso, egli è stato (come testimoniava la voce popolare) quel "cavaliere dell'ideale" che ha dato tanta energia e tensione morale ai movimenti di liberazione nazionali in Europa e in America Latina. Egli è", continua il messaggio di Pertini, "l'eroe delle nazionalità oppresse, l'assertore inflessibile dei loro diritti e il combattente generoso per la loro difesa"(2).
Tuttavia, recentemente e da distinte parti, ci si è accaniti a ridimensionare il "mito" di Garibaldi, se non a demolirlo. Si è detto che Garibaldi - più che a dare la libertà a noi Siciliani - contribuì ad avviare la soluzione forzata e affrettata della nostra annessione plebiscitaria al Regno d'Italia.
Nella contrapposizione polemica fra due settori dell' Assemblea Parlamentare Siciliana, è prevalso quello contrario all'erezione di un monumento a Garibaldi. Esso ha addotto lo specioso pretesto che - prima che un monumento del genere - si debba innalzarne uno ai "Picciotti" siciliani; ai volontari cioè che, col generoso dono anche della loro vita, permisero a Garibaldi l'attuazione dei suoi piani.
Nulla da eccepire sul merito storico dell'eroismo dei "Picciotti". Ma si potrebbe opporre che l'eroismo dei volontari siciliani sarebbe rimasto inefficace senza la presenza di un capo carismatico come Garibaldi: il quale seppe essere il "leader" geniale e provvidenziale, auspicato dai cospiratori antiborbonici e, in genere, dai patrioti che desiderarono vivere in uno Stato non tirannico, non esoso, non repressivo.

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E primi tra questi patrioti abbiamo l'onore di annoverare due nostri concittadini: Giuseppe e Stefano Triolo di Sant'Anna. Capitani della Guardia Nazionale nel 1848, i due fratelli subirono successivamente carcere e persecuzioni. Con incredibile audacia dal 1854 diressero nel loro palazzo un Comitato segreto che si teneva in contatto con altri della Sicilia e con vari fuorusciti, tra cui Crispi e La Masa. I due fratelli capeggiarono l'insurrezione alcamese del 6 aprile 1860, allorchè (due giorni dopo che a Palermo erano squillate le campane della Gancia) Stefano Sant'Anna uscì dal suo palazzo sventolando il tricolore del 1848. Preceduto dalla banda musicale e seguito da molti rivoltosi, sfilò per il corso verso l'attuale piazza Ciullo, gridando: «Viva l'Italia! Viva la libertà!». I rivoltosi, giunti al Palazzo Comunale, furono ricevuti dal sin­daco Giuseppe Sant'Anna, che dichiarava decaduta la monarchia borbonica e costituito il Governo Italiano Provvisorio, mentre l'operaio Giorgio Mannucci issava il tricolore sulle travi di quel palazzo allora in costruzione e l'artifici ere Vito Galanti suonava a stormo le campane della chiesa madre.
Alcamo ebbe dunque - prima tra le città della Sicilia - il vanto di proclamare il governo dell'Italia una. E intellettuali e operai appoggiarono i Sant'Anna, la cui opera di penetrazione ideologica aveva acquisito alla causa nazionale elementi di tutte le classi sociali. Ce ne dà convalida questa testimonianza manoscritta del popolano Giuseppe Manno nelle «Memorie» autografe, conservate nella Biblioteca Comunale di Alcamo: "La mattina del 6 Aprile 1860", egli scrive, "mentre stavo ad eseguire la Turba (canto liturgico del Venerdi Santo), da entro la Chiesa del Collegio vidi nel Corso spuntare un manipolo di insorti col vessillo tricolore e gridanti: Viva l'Italia una, con Vittorio Emanuele!
Allora io con i miei compagni corsi ad accrescere la dimo­strazione, unendomi alle grida ed agli evviva. (...) Abborrivo io il governo borbonico per (...) quel fare tirannico dei magistrati e della polizia".
E lo stesso 6 Aprile i rivoltosi, tornati in casa Sant'Anna, stabilirono di farsi consegnare le armi dalla Compagnia militare, comunicando che il governo dei Borboni era cessato ed era stata proclamata l'Italia libera sotto la dinastia dei Savoia.
Così fu fatto, e riforniti si di altre armi procurate da semplici cittadini, la mattina del 7 aprile Stefano Sant'Anna partì con 350 uomini per Palermo ad aiutarvi gli insorti. Il fratello Giuseppe, nascostosi in Alcamo alle ricerche della polizia, dirigeva le rivolte dei Comuni vicini, spedendo la mattina del1'8 aprile proclami che incitavano a seguire l'esempio di Alcamo.
Va ricordato che nel palazzo Sant'Anna operava clandestinamente una tipografia (la prima di cui si abbia notizia in Alcamo) affidata a un tipografo mazarese. Vi si stampavano manifesti e avvisi patriottici che corrieri segreti portavano a destinazione, dopo averli racchiusi fra suola e tomaia nelle loro scarpe, dove evidentemente l'ignara polizia non andava a perquisire.
Sempre nel palazzo Sant'Anna agiva un'organizzazione di artificieri che preparavano cartucce e palle di cannone col piombo sottratto agli organi delle chiese dell'ltria e dello Stellario: tra di essi il già ricordato Vito Galanti e Stefano Papa, fratello del nonno dello storico alcamese Mons. Tommaso Papa.
Alla notizia della rivolta di Alcamo, la sera del 6 aprile insorse Trapani (per opera del Barone Mokarta, cognato di Benedetto Sant'Anna, altro fratello di Giuseppe e Stefano).
Il 7 aprile insorse Marsala e via via Calatafimi, Castellammare, Erice. Il 12 aprile una colonna militare borbonica incrociava al Pioppo gli uomini di Stefano Sant'Anna, i quali ­ sopraffatti dal numero soverchiante dei nemici - preferirono non proseguire nell'impari lotta ma disperdersi sui monti circostanti. Rimasto solo, il portabandiera Giuseppe Fazio cadde colpito in fronte da piombo nemico. Non volle ritirarsi Liborio Vallone che, catturato e imprigionato, fu con altri dodici insorti della Gancia fucilato a Palermo il 14 aprile in piazza S. Giorgio. Quella piazza s'intitola oggi "delle XIII Vittime", e una stele commemorativa ricorda i nomi degli eroici caduti, fra cui il nostro concittadino Liborio Vallone.
Una lapide, posta sulla strada statale 186 dal comune di Monreale nel 1910, commemora con questa epigrafe il sacrificio di Giuseppe Fazio: "O tu che passi saluta questa terra - sacra all'eroismo - Qui per la libertà pugnando - il XII aprtle MDCCCLX - Giuseppe Fazio da Alcamo - a chi lo pregava salvarsi - dalle soverchianti forze borboniche - disse romanamente ­ Venni per combattere non per fuggire - morrò non farò indietro un sol passo - E diè alla patria la florida vita - il nome alla storia - Nel 1° cinquantenario del glorioso olocausto - il Municipio di Monreale ­ questo ricordo - pose". E nel 1960 fu apposta altra lapide sottostante, in cui si legge: "La città di Alcamo - nel 1° centenario dell'olocausto di - Giuseppe Pazio - ricorda e tramanda alle future generazioni - il fulgido esempio dell'eroico figlio".
Dal 12 aprile Stefano Sant'Anna, accampato si con la sua squadra sulle rocciose alture sovrastanti Palermo, continuò a tenersi in contatto con altri nuclei di ribelli sparsi nelle vicinanze. Lo riforniva d'armi e vettovaglie il fratello Giuseppe rimasto in Alcamo, che continuava a spedire proclami e ma­nifesti e a tenersi in corrispondenza con altri comitati segreti di patrioti. Il 3 maggio il borbonico Gen. Letizia, con procla­ma affisso per le vie di Alcamo, decretò la condanna a morte in contumacia dei fratelli Sant'Anna (sul cui capo fu posta una forte taglia) e ordinò la cattura dei loro seguaci. Fu allora che Giuseppe, dalla casa dei fratelli sacerdoti Agostino e Giovan Battista Barbuscia in Alcamo (ov'era nascosto) si trasferì - con l'aiuto del fratello Benedetto che a Trapani col cognato Mokarta dirigeva l'insurrezione - nella casa del concittadino avv. Sebastiano Simeti a Paceco, ove fu nascostamente raggiunto dal fratello Stefano. I due Sant'Anna, dalla spiaggia di Nubia per due volte tentarono d'imbarcarsi per Malta (ove il patriota Nicola Fabrizi maneggiava le fila dell'insurrezione siciliana). Per due volte l'imbarco su un bastimento greco che incrociava fra Marettimo e Favignana fam, per la presenza di navi borboniche nella zona. Riuscì ad imbarcarsi, invece, il Mokarta, ma 1'11 maggio incontrava le navi dei Mille e con esse sbarcava a Marsala.
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Garibaldi si era deciso a compiere la sua spedizione, dopo aver saputo da Crispi, La Masa e altri che la Sicilia occidentale era in insurrezione permanente. Da Malta il 30 aprile era giunto a Caprera un telegramma così enunciato: "L'insurrezione, vinta nella città di Palermo, si sostiene nella provincia".
Fu allora - scrisse Garibaldi - che mi convinsi che "bisognava andare" in Sicilia. E ancora Garibaldi nelle sue "Memorie", dopo aver accennato alla tiepida accoglienza dei Marsalesi ai Mille, sottolineò quale incoraggiamento avesse prodotto in lui il fatto che - prima di entrare a Salemi - si erano unite alle sue squadre "le squadre dei Sant'Anna di Alcamo".
Riferì l'alcamese Gaspare Scalisi (il quale, allo sbarco dei Mille si trovava a Marsala) di aver sentito dire a Garibaldi: "Dove sono i fratelli Sant'Anna ?" Il Mokarta, La Masa e altri risposero che erano nascosti a Paceco, ma che sarebbero accorsi presto incontro ai Mille.
Com'è evidente, fu il terreno preparato dall'opera insurrezionale dei Sant'Anna a indurre Garibaldi allo sbarco in un porto della Sicilia occidentale. E non è azzardato affermare che, senza l'appoggio e l'avallo dei Sant'Anna e di altri patrioti con loro collegati, l'impresa dei Mille sarebbe forse fallita come le precedenti di Pisacane in Campania o dei fratelli Bandiera in Calabria.
Non era nelle intenzioni di Garibaldi giungere nella capitale dell'isola a quindici giorni dallo sbarco; sembra che fosse nei suoi progetti sbarcare a Sciacca, internarsi ed attestarsi sulle alture di Enna e Caltanissetta per fortificarsi e piombare in forze su Palermo.
Del resto - a poche ore dal suo sbarco - Garibaldi scrisse nel suo ordine del giorno, la mattina del 14 maggio: "Secondo le notizie, prenderemo la via di Vita, oppure quella di Marsala".
Invece, 48 ore dopo, il 16 maggio, lo stesso Garibaldi può scrivere all' amico Agostino Bertani: "Domani seguiremo per Alcamo. Lo spirito delle popolazioni si è fatto frenetico". Scartata la via di Vita per l'internamento nell'isola, Garibaldi intende proseguire per Alcamo (che è sulla via per Palermo). Cos'era successo fra le due affermazioni di Garibaldi è spiegato in una pagina di Giuseppe Bandi, scrittore al seguito dei Mille. Nella marcia su Salemi, i Mille avvistano su una collina uomini a cavallo. "Fui mandato incontro a loro (scrisse il Bandi) e uno che mi parse il caporione, scese subito da cavallo e mi si fece incontro gridando: Viva l'Italia! - Era uno dei baroni Sant'Anna di Alcamo, patriota ardentissimo e grande odiatore dei Borboni. Ci stringemmo la mano e lo invitai a far venire innanzi i compagni che, ad un suo cenno accorsero di galoppo e mi furono intorno assordandomi con le loro grida di: Viva la Sicilia! Viva l'Italia! - Finalmente si vedevano gli insorti!"
Fin qui il Bandi. E uno storico documento, diretto al Crispi e pubblicato dall' emerito studioso dei Sant'Anna, Giuseppe Mistretta Di Paola, ci conferma che "appena Garibaldi era uscito da Marsala, i primi a raggiungerlo con la loro squadra armata di fucili da caccia furono i fratelli Sant'Anna. Crispi, La Masa e altri li presentarono a Garibaldi al quale i Sant'Anna dissero: "Generale, ora siamo pochi (erano circa 500) ma a misura che ci inoltreremo nell'isola, Ella avrà tanti uomini che ne rifiuterà".
Allora il generale li abbracciò e disse: "Voi che siete del paese fateci da avanguardia". E la squadra dei Sant'Anna fece da avanguardia a Garibaldi fino al suo ingresso a Palermo. Fu Stefano Sant'Anna a entrare per primo a Salemi e piantarvi il tricolore sulla storica torre. Fu Stefano Sant'Anna a essere incaricato da Garibaldi di andare coi suoi uomini a scoprire le intenzioni dei borbonici". Ancora una volta è il Bandi a confermarcelo: "Il minore dei fratelli Sant'Anna mi chiese se volessi ann unziarlo al Generale. "Volentieri", risposi. "Vieni meco e ti annunzierò". "Lo sai ?" disse il barone Sant'Anna. "I borbonici ci vengono incontro (...) in gran numero". "Annunziai il barone, che fu subito ricevuto da Garibaldi, che stava consultando una carta geografica. L'indomani mattina il Sant'Anna condusse a Garibaldi dei contadini, da cui seppe che un corpo di truppe napolitane era giunto la sera innanzi nella città di Calatafimi".
Garibaldi pensò che col sostegno dei volontari siciliani (in primo luogo della squadra Sant' Anna) avrebbe potuto affrontare i borbonici, e che una sua vittoria avrebbe potuto esercitare un grande effetto psicologico sulle popolazioni dell'Isola. Fu così che i Sant'Anna, combattendo a sostegno del fianco destro dell'esercito garibaldino, determinarono l'esito favorevole della battaglia di Calatafimi: e in essa Stefano Sant'Anna fu ferito a un braccio. Inoltre i Sant'Anna - che avevano preparato affusti per due cannoni (che operarono a Calatafimi) e carriaggi e cavalcature occorrenti per lo stato maggiore garibaldino - assegnarono mille fucili alle squadre dei cosidetti "Cacciatori dell'Etna", al cui comando fu posto Giuseppe Sant'Anna, che, distinto si a Calatafimi per il suo valore, sarà poi ferito nella battaglia per la conquista di Palermo.
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Il 17 maggio i Sant'Anna ospitarono nel loro palazzo Garibaldi, Crispi, Bixio e altri, come ricorda una lapide murata sulla facciata di quel palazzo nel 1907, primo centenario della nascita di Garibaldi, che reca questa iscrizione: "Da questa casa - addì 6 aprile 1860 - auspici e duci i fratelli Sant'Anna ­ sfidando la tirannide e precorrendo i Mille - ardito un manipolo di prodi usciva - Qui il 17 maggio - reduce da Calatcifìmi - posava ­ coi suoi più fidi eroi - il glorioso Condottiero - assertore delle italiche libertà - A perenne testimonianza - il 4 luglio 1907 - primo centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi - il Municipio di Alcamo - questo marmo pose".
Per il corso di Alcamo la mattina del 16 maggio sfilò la truppa borbonica che da Calatafimi ripiegava su Palermo: una parte di essa deviò per la piazza (oggi intitolata a Ciullo) e per l'attuale via Comm. Navarra. A un tratto, presso il Castello, si udì uno sparo. Era accaduto che alcuni audaci avevano liberato dal carcere un gruppo di patrioti balestratesi arrestati qualche giorno prima. Fra di essi, tale Filippo Giliberto, scontratosi con uno degli ultimi soldati borbonici della retroguardia, pensò di disarmarlo ma fu freddato. L'oscuro ed eroico Giliberto, "occisus a militibus" - come dice il certificato di morte nel Registro dei Defunti della chiesa madre di Alcamo - ebbe, solo qualche anno fa, dedicata una strada all'ingresso occidentale di Balestrate per interessamento del mio amico prof. Domenico Tuzzo. L'episodio dell'uccisione del Giliberto, stravolto dalla fantasia di romanzieri senza scrupoli, si trasformò in un "massacro" delle truppe borboniche: "massacro" che avvenne non ad Alcamo ma a Partinico(3).
Per Alcamo i borbonici (e ciò fa onore al nostro senso di umanità) passarono senza incorrere nell'orribile ferocia di al­tri luoghi.
Il giorno dopo quel passaggio, il 1 7 maggio, Alcamo accolse festante i Mille. Garibaldi così riferisce nelle sue "Memorie": "Giungemmo in Alcamo, città importante, e vi fummo accolti con molto entusiasmo". Crispi, alla data del 17 maggio, annotò nel suo "Diario": "Frenetico ricevimento, deputazioni, vetture, illuminazione e musica".
E l'altro diarista dei Mille, Giuseppe Cesare Abba, sempre al 17 maggio, annota: "Sulla via per Alcamo, verso le ore 10, ci abbattemmo in certe belle carrozze, mandate ad incontrarci come gran signori. Nelle carrozze v'erano gentiluomini lindi e lucenti che fecero le accoglienze al Generale, mentre, allo sbocco dei sentieri, si affollavano dai campi molte donne campagnole, confidenti e senza paura di noi. Alcune si segnavano devotamente: una ne vidi, con due bambini sulle brac­cia, inginocchiarsi quando il Generale passò".
Garibaldi ad Alcamo parve essere investito da un crisma di sacralità. Giacomo Fazio ammise che, solo in occasione di vi­site del Vescovo, si aveva tanta folla in Alcamo. E Ippolito Nievo scrive nel suo diario: "Marcia per Alcamo. Entusiasmo. Il frate da Castelvetrano (ossia fra Giovanni Pantaleo) dà la benedizione a Garibaldi sulla porta della Chiesa (Madre) è finisce gridando: "Viva Garibaldi! Viva Gesù Sacramentato!".
Ancora un memorialista dei Mille, il Capuzzi, scrive: "Era pressocchè mezzodì, quando noi entrammo in Alcamo. Cor­reva la festa dell'Ascensione e il popolo devoto (...) assisteva ai riti.
Il Generale e lo Stato Maggiore andarono a ricevere la benedizione che l'Arciprete, vestito degli abiti sacerdotali, loro impartì. (...) Le vie intanto sempre più si accalcavano. Da ogni lato, sopra ogni finestra appariva un segnale di gioia, tutti mandavano un evviva a Garibaldi, un saluto ai suoi". Dalla chiesa madre - dove aveva ricevuto la benedizione ­Garibaldi si spinse a porta San Francesco. Con deliberazione (mai resa esecutoria) del 18/6/1860, il Consiglio Comunale di Alcamo proporrà di "perennare la memoria del fatto con apposita iscrizione in marmo, chiamando piazza Garibaldi il nuovo spiazzo fuori porta San Francesco, ove (così dice l'enfatica allocuzione al Duce dei Mille) tu sostasti gioiendo del nostro cielo e della nostra terra".
Ma quella che si chiamerà piazza Garibaldi (sette decenni dopo), sarà un'altra, prima denominata "Anime Sante", allorchè l'attigua ex-via Canapè (così detta dal nome di una circostante contrada) prenderà il titolo di "corso dei Mille".
Sempre il 17 maggio 1860, Garibaldi arringò verso le ore 13, da un balcone di palazzo Sant'Anna, una folla plaudente. Ma, oltre a compiacersi degli entusiasmi del nostro popolo, egli provvide ad emanare i cinque storici decreti che recarono in calce la datazione: "Alcamo 17 maggio 1860". Eccone in breve un cenno esplicativo.
1° DECRETO: - Nomina di Crispi a proprio Segretario di Stato, col compito di "organizzare e dirigere tutto il lavoro di Segreteria e proporre al Dittatore le disposizioni necessarie al servizio nazionale".
2° DECRETO: - Divisione della Sicilia in 24 distretti (ed Alcamo fu uno di questi) con 24 Governatori.
3° DECRETO: - Nomina del Governatore del Distretto di Alcamo nella persona di Giuseppe Sant' Anna, coadiuvato dal fratello Stefano.
4° DECRETO: - Nomina del Governatore del Distretto di Mazara nella persona del patriota Alberto Mistretta, di Salemi.
5° DECRETO: - Abolizione dell'impopolare tassa sul macinato dei grani e dei dazi d'entrata sui cereali e legumi; divieto del pagamento dei canoni o fitti al Governo borbonico, e obbligo per i "cittadini dei Comuni occupati dalle forze nemiche", di "rifiutare al Governo borbonico il pagamento di imposte", in quanto (si diceva nel decreto) "esse sin da oggi appartengono alla Nazione".
Un problema pratico che la città di Alcamo risolse per i garibaldini fu quello delle calzature. Molti dei Mille erano venuti da Quarto con scarpe da passeggio, che nelle lunghe marce per le nostre trazzere si erano logorate. Furono così requisite in Alcamo un migliaio di calzature. E alle ore 5 antimeridiane del 18 maggio i Mille ripartirono da Alcamo.
Da Alcamo il pomeriggio del 17 maggio era partito Giuseppe Sant'Anna con una sua squadra di volontari, per fare da battistrada e ricongiungersi coi Mille, qualche giorno dopo, sui monti di Renna.
Con decreto del 18 maggio Garibaldi formò il suo Consiglio di guerra. Giuseppe Sant'Anna fu uno dei quattro Giudici di quel Consiglio, insieme con Forni, Bixio e Carini. Da Alcamo Stefano Sant'Anna inviò diversi corrieri con ingenti somme per le spese di guerra. Con suo ordine del 22 maggio Garibaldi prescrisse a Giuseppe Sant'Anna di tenere fuochi accesi sui monti di Monreale, per far credere ai borbonici che i Mille vi stazionassero.
E allorchè l'esercito borbonico il 23 maggio uscì da Palermo, lasciando la città sguarnita per inseguire Garibaldi, il Nizzardo - con imprevedibile diversione - irruppe su Palermo da Gibilrossa, cioè dalla parte opposta a quella in cui i borbonici credevano che si trovasse.
Giuseppe Sant'Anna, dopo aver fatto perdere le sue tracce all'esercito nemico inseguitore, entrò a Palermo coi suoi volontari: con essi si distinse nella battaglia presso il Duomo, nella quale fu ferito alla fronte.
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Con un suo decreto del 13 giugno Garibaldi nominò colonnelli i due Sant'Anna (e nel grado di colonnelli di cavalleria essi furono confermati con R.D. 2 agosto 1861). Governatori di Alcamo dal 17 maggio al 31 ottobre, i due Sant'Anna andarono il 20 ottobre, con una deputazione di alcamesi, a rendere omaggio a Vittorio Emanuele II.
Dal 1861 al 1865 furono alla corte reale come governatori di palazzo del re. Furono anche insigniti dei titoli di cavalieri dell'ordine militare di Savoia, dei SS. Maurizio e Lazzaro, della Corona d'Italia (4).
Giuseppe Sant'Anna fu inoltre sindaco della nostra città negli anni 1867-69; 1873-75; 1876-78; 1879-81; 1882-84.
Il popolo di Alcamo, che nel 1960 eresse due busti marmorei alla loro memoria, nel 1907 aveva ad essi intitolato una via e una caserma (la ex caserma Badia Grande, da anni non più esistente) e nel 1910 aveva apposto due lapidi, una a sinistra e una a destra, sul prospetto del palazzo comunale.
In quella a sinistra sta scritto: "Mentre all'eroica sfida della Gancia - seguìa la feroce vendetta dei regi - Alcamo il VI APrile MDCCCLX - ausPice Giuseppe Triolo di Sant'Anna - la bandiera tricolore - già per la maggior via portata in festa - a Italia e Vittorio Emanuele acclamando - palladio della patria libertà - sul civico palazzo inalberava - A perenne ricordo - nel cinquantenario della gloriosa riscossa - ti Magistrato Municipale - questa lapide pose".
E nella lapide a destra sulla facciata del Palazzo Comunale, così sono ricordati i Sant'Anna: "Ai fratelli Triolo di Sant'Anna - Stefano - che precorrendo i Mille - pugnò al Pioppo da strenuo - e nella giornata del XV maggio - rese alla Patria tributo di sangue - Giuseppe - animo generoso ed intrepido - che dietro al gran Capitano - condusse alla vittoria di Calatafimi e Palermo - gloria - finchè nei secoli - l'epopea vera e splendente - del milleottocentosessanta - perduri - XVII maggio MCMX".
Al di là della retorica d'obbligo di queste epigrafi, nelle quali ricorrono espressioni celebrative come "gloriosa riscossa" e "splendente epopea", vien fatto di chiedersi: le rotte e le sofferenze dei fratelli Sant'Anna e dei loro volontari, i sacrifici e le morti di tante vittime contribuirono alla realizzazione dell'auspicato Stato migliore? Fu lo Stato sabaudo meno esoso e poliziesco come quello borbonico?
Purtroppo le risposte, per entrambe le domande, non possono essere che negative.
Sbarcato il 28 giugno 1862 a Palermo, Garibaldi fu la sera del 16 luglio in Alcamo, ripartendone la· mattina del 17 a rendere omaggio alla misera fossa dei caduti di Calatafimi. Alla sua richiesta di volontari per la conquista di Roma, Al­camo concorse efficacemente. Ma, dopo l'eccidio fratricida di Aspromonte, la repressione "piemontese" infierì con bestiale violenza, fucilando innocenti in Alcamo - come in altri comuni - su ordine del Commissario del Governo che il 20 agosto aveva proclamato lo stato d'assedio (5).
Nella storia dell'Italia unita non fu quello l'unico stato d'assedio imposto in Sicilia.
In una monografia su Alcamo (edita nel 1900) si sottolinea che "lo Stato italiano, sostituito si al Borbone nel governo dell'isola, non ha saputo farvi penetrare nessun vero raggio di nuova luce. Esso, nei quarant'anni dacchè dura la sua do­minazione in Sicilia - chiamiamola pure così -, non ha saputo essere differente nè fare meglio (fatti recenti lo hanno pro­vato ad esuberanza) del Borbone (...). Come pretendere che un paese, sul quale continua a pesare il malgoverno, possa progredire nella scala della civiltà, se non è aiutato ad uscire dall'antica e troppo durata abiezione?"(6).
Queste parole valgono a spiegare il fatto che nel 1893 in Alcamo i nostri concittadini lacerassero il tricolore in quella piazza dove 33 anni prima lo avevano inalberato a simbolo di radiose speranze.
E comprendiamo perchè i risentimenti e i rancori verso uno "Stato lontano e assente" determinassero negli anni 1943-44, il velleitario progetto dei nostri Separatisti di fare della Sicilia la quarantanovesima stella della bandiera americana.
Al lume di questi episodi, acquista sapore di amara previggenza gattopardesca la pagina scritta da Giuseppe Cesare Abba il 22 maggio 1860, cinque giorni prima dell'ingresso dei Mille a Palermo.
"Mi sono fatto un amico. (...) Si chiama Padre Carmelo. (...) Parlavamo della rivoluzione. (...) Vorrebbe essere uno di noi, ma qualcosa lo trattiene. (...) Vorrei, mi dice, se sapessi che farete qualcosa di grande davvero, ma ho parlato con molti, e non mi hanno saputo dire altro che volete unire l'Italia". "Certo per farne un grande e solo popolo!" "Un solo territorio ! (ribattè frate Carmelo). In quanto al popolo, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice". "Felice! (esclamai). Il popolo avrà libertà e scuole". "E nient'altro! (interruppe il frate). Perchè la libertà non è pane e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno per voi Piemontesi, per noi qui no". "Dunque che ci vorrebbe per voi?" "Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa". "Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre, dovunque sono case e campagne!" " Anche contro di noi, anzi prima che contro d'ogni altro. Ma col vangelo in mano e colla croce. Allora vorrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei qui a quest'ora, quasi ancora con voi soli". "Ma le squadre?" (obiettai). "E chi vi dice che non aspettino qualcosa di più?". "Non seppi più che rispondere" (conclude l'Abba).
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Certo i Siciliani aspettavano qualcosa di più della semplice soluzione unitaria territoriale. Aspettavano un modo di vita più libero e più degno, in campo amministrativo e in campo sociale. Un modo di vita, che è ancora una chimera in tante località della Sicilia, strozzate da sacche di irredimibile miseria, o che riscontrano in adempiute istanze di giustizia e redenzione morale e sociale, mentre spirali di odio e faide di potere ancora le flagellano, mentre croniche crisi economiche dalle impressionanti proporzioni maturano fenomeni di scontento, mentre l'inadeguatezza con cui lo Stato e la Regione rispondono alle necessità di tutti e di ciascuno crea l'incapacità di inserimento dei giovani (di centinaia di migliaia di giovani) nel mondo del lavoro, con tutto un complesso di cause e di effetti che non starò qui ad esaminare.
Noi crediamo (e lo ha più volte affermato il Presidente Pertini) che il popolo italiano è un popolo dalle mille insospettate riprese, dalle mille energie nascoste, dalle mille capacità di recupero, anche tra le più stritolanti spirali delle inflazioni, anche dentro i più bui e profondi tunnel delle crisi.
Oggi più che mai, oggi che siamo impegnati nella lotta contro quelle che il nostro Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ha incisivamente chiamato "le quattro emergenze" (l'emergenza terroristica, l'emergenza internazionale, l'emergenza economica, l'emergenza morale), a chi vorrebbe "ridimensionare" il mito di Garibaldi e "revisionarne" la grandezza, opponiamo queste parole del Presidente Pertini.
"La grandezza di Garibaldi sta nella profonda umanità, nell,a generosità e semplicità che mai lo abbandonarono nell'ora del trionfo e in quella dell'amara delusione, nella freschezza dei suoi sentimenti, nella esemplare coerenza della sua vita. Garibaldi ha dimostrato che la gentilezza e la nobiltà dell'animo, la fiducia nelle virtù positive dell'uomo, l'amore per il prossimo, il disinteresse personale, la dedizione alla causa popolare in chi ha responsabilità di guida e di comando, possono su­scitare le forze che muovono le montagne; e certamente il successo dell'impresa dei Mille ancora oggi non trova altra spiegazione che questa".
E consentitemi di concludere col ricordarvi un ammonitore documento alcamese: è il significativo "Manifesto", pubblicato nel 10 cinquantenario della rivoluzione alcamese del 1860, cioè il 6 aprile 1910.
"Cittadini, (così si legge in quel manifesto) oggi sono cinquant'anni, un manipolo di prodi (...) acclamò all'Italia una. (Quei prodi), sprezzando gli agi, il quieto vivere, lo scetticismo dei saggi, le persecuzioni, il capestro, in nome di una idealità grande e sfolgorante, la Patria - divina e santa utopia - e la Libertà, offerivano sorridenti le sostanze, le energie, la vita!
E i pochi, i folli, scherniti, irrisi vincevano!
A questi eroi - alcuni illustri e gloriosi, altri oscuri e dimenticati - il nostro ricordo perenne, la nostra riconoscenza infinita.
Viva sempre e su tutto l'Italia!"
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Signori!
Anche se oggi dobbiamo guardare a un'Europa unita come nostra patria sovranazionale, è auspicabile che non ripetiamo le esperienze negative del passato, che non facciamo dell'Europa solo un'unità territoriale.
Nel ricordo di quanti ci hanno insegnato la via del dovere sociale e del solidarismo internazionale, affermiamo la neces­sità di lottare - ancora come una volta - per un'Italia migliore.
Sia il nostro grido:
Viva l'Europa unita! E viva, sempre e su tutto, l'Italia!



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