Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

la copertina


Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio

Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

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III. CALVINO INEDITO

2. TESTI TEATRALI IN VERSI
La Bacicia alle carceri di Paceco. Novella


Nell’antico siciliano raccolto dal Traina nel suo Vocabolario, il termine bacicia è un sinonimo di buttana. E in questa novella - 120 agili ottave toscane - il Calvino celebra, col dovuto tono altisonante, i meriti e le glorie delle femme publique con un’ouverture degna d’una epigrafe solenne: «Donnette mie, non v’ha nel mondo gioja/ ch’unqua mai possa compararsi a voi./ Se per una donnetta perì Troia,/ e vi periro mille e mille eroi,/ non vi meravigliate a quella foja/ che a racquistarla costò tanto a’ suoi.../ Non v’ha nel mondo, no, più rara cosa/ di una donnetta bella e generosa.// Anime grandi! O libere puttane!/ Spirti elevati! O voi, care a Sofia,// di pubblica felicità fontane,/ ecco, consagro a voi la musa mia./ Saran mie rime faciline e piane,/ ma fervida sarà la fantasia,/ ché la donnetta ch’io celebro e canto,/ essa infonde a’ coglioni forze, e al canto» (I e II ottave).
Le tredici stanze iniziali del poema suonano come una dichiarazione di “poetica”, di indirizzo estetico ed “ideologico” insieme.
In altri suoi testi, l’autore trapanese aveva palesato tale weltanschauung, sempre manifestando apprezzamento, compiacimento e pietas per le “libertine”, per quante non facessero del proprio corpo un sacrario di fredda cenere, di preghiere inesaudite, di imbiancato tempio dello spirito svaporato.
Le mondane, nell’opera calviniana, assurgono a simbolo potente di vita e di verità, si direbbe quasi di onestà, a fronte dei molteplici bigottismi, fariseismi e sacrilegi delle vere o presunte castità e verginità menzognere, subdole, surrettizie.
Nella figura della donna di piacere si rispecchierebbe pienamente l’interfaccia dell’umanità, con tutti i suoi entusiasmi e le sue miserie.
Le prostitute calviniane - come le tenere, dolcemente spregiudicate, immacolate “bocche di rosa” di Fabrizio De Andrè, un cantore dei nostri tempi che pure aveva posto al centro del suo universo musicale numerose “passeggiatrici” - non sono mai il facile “soggetto” di uno scrittore a corto di argomenti, né un pruriginoso specchietto per allodole-lettrici: esse rappresentano la scelta di un campo di battaglia artistico, umano e civile.
Sul piano letterario, l’autore puntualizza: «Pingerò il petto e non come i poeti/ che dissero le mamme poma intatte:/ lasciamo star le poma sui pometi,/ ma pingo due vesciche pien di latte,/ e tonde turgidette al tornio fatte.../ Ed insipida è pur l’allegoria:/ pingerò carne come dura sia» (VIII ottava).
Lo scrittore vuol, dunque, descrivere ed esaltare la bellezza e l’attrazione delle dolcezze femminili spogliate dai trucchi e dalle bugie della trista pudicizia di chi ravviserebbe nella donna soltanto la “santità” e la “purezza” della propria mammmina.
Nell’ottica maschile - almeno in via di principio -, essa sarebbe, a un tempo, paradiso e troia, nei suoi tratti più autentici e reali.
«Pace le debbe tutto l’uman genere» (XII ottava), poiché nella domina trovano requie «le ardenti voglie indomite» (XII ottava) ed è grazie all’appagamento sessuale (modernissimo atout socio-psichiatrico!) che possono tenersi a bada rivalità, gelosie, crudeltà e le più mostruose patologie degli individui e delle società: «Spuntati i dardi gelosia si tace,/ ché abbracciar vede l’un l’altro rivale,/ fugge dal mondo, il mondo lascia in pace/ e si trascina dietro ogni altro male./ Smorza la crude ed omicida face,/ ed abbandona il traditor pugnale,/ ché in quel letto ci spirò strage e ruina,/ vedè in pace giacerne una dozzina» (XIII ottava).
Posta tale premessa teorica, Calvino passa alla narrazione. La Bacicia, malgrado non mancasse di uomini e di sesso, si è incapricciata di un giovane, recluso nelle carceri di Paceco. A questo snodo del racconto, l’autore introduce alcuni piccanti versi intorno al piccolo municipio e alla vicina Xitta, brani che si presterebbero anche all’analisi dello storico.
Così descrive il centro limitrofo a Trapani: «Siede Paceco su ridente colle,/ a cui si ascende per declive calle;/ la fronte verso il curvo lido estolle,/ e stan poggi ubertosi alle sue spalle./ A manca ha la città delle cipolle,/ a destra il nubiloso Erice stalle,/ a’ pie’ vi giace la merdosa Xitta/ con la matrice chiesa derelitta» (XXI ottava).
Interessante sarebbe approfondire le ragioni degli “apprezzamenti” sul borgo di Xitta1 (il cui toponimo di origine araba, che indicherebbe un territorio sabbioso o paludoso, forse non basterebbe a spiegare) e il sottile scherno aleggiante nell’appellativo di «città delle cipolle» riferito, ci sembra, a Marsala.
Paceco, purtroppo, sarebbe il solo comune della cinta trapanese a non avere ancora incontrato un proprio cultore delle memorie cittadine dalle origini ai nostri giorni,2 ciò che rende disagevole la decrittazione dei cenni che lo scrittore - magari con la ridondanza e l’iperbole del “fantasista” - dedica al «gran castello», poi trasformato in prigione, e alla lotta tra le famiglie nobili d’un tempo: «Domina tutta quanta la città/ il gran castello che del Prence fu;/ e nella maestosa antichità/ mostra come gli antichi, a tu per tu,/ si disputaro onori e proprietà,/ uso che, grazie al cielo, or no c’è più;/ ed or di possederlo ne son stufi/ cornacchie, upùpe, pipistrelli e gufi.// E insieme lo sventurato Ciccio nostro,/ che la notturna musica di quelli/ accompagna con qualche paternostro,/ come che gli si gonfiano i corbelli./ Ne vider quelle mura e gemme ed ostro?/ Or ve’ i ricami là de’ ragnatelli:/ vanitas vanitatum! Poverino!/ Spesso si confortò con quel latino» (XXII-XXIII ottave).
Di grande tensione emotiva ci pare la lirica orditura del “glorioso” passato dell’aristocrazia e dello sconfortante presente del prigioniero, addensata nell’abbraccio pietoso dello sguardo del Calvino.
La vicenda di Bacicia e del suo Ciccio è tanto “semplice” quanto appetitosa e si racchiude nella ricerca e nel finale ricongiungimento dei due innamorati, lungo intarsi di astuzie, inganni e letterarie trovate.
Il giovane - con fama di “tagliacartoni”, di babbeo - addestra una colomba (facendole annusare un indumento intimo della morosa olezzante di bricia, degli umori del sesso dell’amata, custodito in cella) a rintracciare la donna per città e contrade della Sicilia e a consegnarle un memoriale sulle sue condizioni e sul suo eterno amore per lei.
Il volatile, istruito a recarsi a “mal-pertugio” - «che Ciccio aveva letto nel Boccaccio/ che mal-pertugio l’era un bordellaccio» (XXXII ottava) -, malgrado qualche tentennamento, supera Castellammare, Carini e Palermo e finalmente riconosce il soave profumo rincorso della donnetta, che vive assistita da una malandata maitresse.
La Bacicia, infervorata, subito si procura un calesse e vola verso Paceco. Ma il bosco, si sa, è pieno di insidie e la novella Cappuccetto rosso cattura un povero lupetto: un vecchio frate cappuccino falso eremita, grassatore di carrozze che, credendo di approfittarsi della donna (la quale invero dovrà sopportare il “martirio” del “controfosso” e, per la prima volta in vita sua, soffrire!) finisce coll’essere derubato delle refurtive ammucchiate. Memorabili la rappresentazione della donna appena trafitta alle spalle («Di un bel pallore ha il bianco culo asperso,/ come ai gigli sarien miste viole;/ e storto il collo, e ‘l guardo in lui converso/ par che spiegar vorria quanto gli dole:/ e la man nuda e fredda alzando verso/ il cavaliero, invece di parole/ gli dà segno di pace; in questa forma/ fotte la bella donna, e par che dorma», LVIII ottava) e della ritirata del maschione dopo la décharge sadiana («Come la foja rallentata ei vede,/ rallenta quel vigor ch’avea raccolto/ e l’imperio di sé lasco già cede/ al nerbo tutto illanguidito e stolto/ che al cul si stringe: e chiuso in breve sede/ il nerbo, è pensolon lo scroteo involto,/ e pari al vinto il vincitor già langue/ al calore, al silenzio, agli atti, al sangue», LIX ottava).
Stracotto, il molestatore cede al sonno e la donna trafuga la saccoccia di monete e riparte.
Magistrale il motto di saggezza che ne deduce il Calvino, condensando, in un’ottava, Hobbes, Rousseau, Voltaire e se stesso, ed elevando la “storiella” amena ai vertici di un’asperrima contesa sociale: «Quando giova la massima si adotti,/ che sia fondata o no che te ne fotti;/ son tanti e tanti i sociali patti/ dall’util proprio calpestati e rotti./ L’augel grifagno va predando i gatti,/ i gatti poi de’ sorci sono ghiotti,/ i sorci gli augellini avran distrutti,/ ruba tu, ruba quel, rubano tutti» (LXIII ottava).
La donna, infatti, aveva appreso dalla lettura «(...) ne’ santi padri/ non esser pecco rubare a’ ladri» (LXII ottava).
Bacicia, durante il viaggio, attraversa Alcamo, ciò che il Calvino pone a pretesto per ribadire l’autonoma e nobile tradizione della poesia siciliana, in un tempo in cui - l’inizio dell’Ottocento - una sorta di antimeridionalismo letterario (gli avi di Bossi e dei leghisti?) pretendeva di impartire pedantesche lezioni in materia linguistica.
Lo scrittore trapanese non si sottrae alla querelle, temprando anzi - nella tenzone - la propria personalità artistica: «Amor la guida, e già la patria tocca/ di lui, che primo ne’ toscan parlari/ schiuse a cantare la melliflua bocca:/ “rosa fresca aulentissima che pari”,/ o Siciliani antichi! Ed or vi tocca/ biasmar sentirvi da’ toscani avari;/ e sentir dalla cattedra un Acerbi/ rimprocciarvi pedante in detti acerbi» (LXV ottava).
Assai godibili le strofe in cui Calvino - pendant la solitaria cavalcata della sua rusticana walkìria - ce la mostra ripulirsi a un ruscelletto, dove, oltre alle scultoree rappresentazioni, si riverberano puntute riflessioni sull’attualità, sulla stagione calviniana: l’autore, nominando non invano il nome di Giove, sottolinea come siano tramontati i tempi di poetare le divinità pagane, ben conscio di dover prendere le distanze da certo marcio neoclassicismo; al contempo, a contraltare della nota estetica, si pone la frecciata contro il comune senso del pudore e della morale che, con bieca disinvoltura, ammira Diana e condanna Bacicia; emerge e sguazza - nella LXX ottava - l’assai realistica e moderna (forse anche per noi) sua idea di donna: «Eccola, nuda la vagheggia il fonte,/ Najade vezzosa dall’ondoso crine,/ godendo immoto delle vaghe impronte/ delle tornite membra alabastrine./ Non la mirate, se le corna in fronte/ non volete che il cielo vi destine.../ Donne, quante di voi s’incoronaro,/ sol che i mariti vostri la miraro?// Non men bella e puttana che Diana,/ benché a quella di casta desser nome,/ e a questa per isprezzo di puttana,/ le genti, che decidon non so come;/ or nuda che si bagna alla fontana/ per certo sollevar faria le chiome,/ che, se Domine Giove fusse in moda,/ in mille forme metteria la coda.// E viso e petto, e natiche diguazza;/ e vi si tuffa intera, e lieta guizza:/ “Ciccio!” gridando, e strepita e gavazza,/ e il boschetto di Venere si sbrizza:/ nelle argentine spume se lo sguazza,/ e ogni peluzzo ne inanella e rizza,/ quindi l’asciuga, e co’ lo vede riccio,/ sen compiace, e dice: tutto per Ciccio!» (LXVIII, LXIX e LXX ottave).
Nell’infida solitudine delle campagne, la donna viene sorpresa e posseduta da un rozzo e spregevole operaio che, poi, credendola una “ninfa” («donna non siete, ma meraviglia»), pentito, si offre perfino di evirarsi per riparare al torto! Sopraggiunge, frattanto, l’eremita derubato che, per cavalleria, per così dire, sfida l’usurpatore. Bacicia ne approfitta per fuggirsene, mentre Calvino indugia sulla primitività e sull’ingenuità del “maschio” a fronte delle astuzie e delle divine diavolerie della donna.
Nella feroce faida, il frate ci rimette il pelame che gli avvolge la faccia e il capraio mette a repentaglio la zazzera, simbolici attributi di un genere derelitto e squallidamente seriale, istintivo, barbaro.
Miserabile status del “sesso forte” che si ribadisce all’entrata a Paceco dell’impudica “diva”, dove autorità e popolo - abbacinati dalla sua signorilità e dal casto contegno - da un canto la ossequiano, dall’altro già meditano di approfittarne.
Nella “ridente” cittadina collinare, Bacicia s’imbatte anche in Martino, il suo “protettore”, lenone, di un tempo, a cui chiede soccorso e solidarietà: il magnaccia adesso è, nientemeno, al servizio della “prima dignità”, ci fa sapere l’autore, come ad avvertirci che è proprio dei ruffiani trovar collocazione e prestigio nei palazzi del potere!
Con l’ausilio dell’amico, faccendiere e millantatore, la Bacicia, accolta come una nobildonna, riesce ad ottenere di essere ospitata, segretamente, nelle carceri del paese, onde poter smascherare, nella contraffazione delle vicende, un uomo che non avrebbe tenuto fede agli impegni sentimentali, assunti nei suoi confronti.
Gli assalti alla “diligenza” si ripropongono anche tra le sbarre della prigione, dove due carcerieri matusalemme riscoprono l’antica verve. Ottima la descrizione calviniana della coppia di secondini avvezzi ad ogni mestiere e a innalzare tutte le bandiere: «Erano que’ duo vecchi carcerieri/ due poveri ed afflitti ciabattini,/ ambo furono un tempo camerieri/ del Principe, allorquando era in quattrini,/ ambo serviro ancor d’alabardieri,/ forse in tempo de’ Guelfi e Ghibellini:/ ed or? Grandezza umana e cosa sei?/ Eran ridotti al miserere mei» (IC ottava).
La scaltra Bacicia, che non si arresta di fronte a nulla, come la (biblica) Susanna coi vecchioni, sa blandire i due rimbambiti, favorendo il maneggio del suo accompagnatore, Martino.
Ironizza, intanto, l’autore sull’impazienza tipica della “lettrice” che - pronta a perdonare ed accantonare le opportunistiche e necessarie cedevolezze dell’eroina - vorrebbe subito ricongiunti i passerotti innamorati.
Penetrata nella cella di Ciccio, la donna lo crede morto (è soltanto ubriaco) e lancia uno strillo acuto come fosse alla vista dell’Adone ferito.
Svelato l’equivoco, esplodono la felicità e l’amore (sbavano i due vecchioni dietro l’uscio).
Ma nel pieno della notte vengono condotti in gattabuia l’eremita e il capraio che, riconosciuta la Bacicia, vorrebbero aggredirla.
La donna raggira e rabbonisce il Ciccio furioso (altro esemplare di virilità e discernimento!), sgattaiolando col ganzo e col piccolo Virgilio, lasciando i nuovi reclusi nel loro rabbioso brodo...
Essendo lacero e illeggibile il manoscritto a cui il Calvino simula di aver attinto, ci consegna un happy end pieno di compassione e di comprensione, erga omnes: «Che qui l’istoria la mi par finita/ da dove trassi la leggenda mia/ anche in lo scartafaccio era incompita,/ né ben l’ultimo taglio si capia,/ ché il tarlo vi fe’ più d’una ferita. (...).// Che i due prigioni a’ ferri fur tradotti,/ perché nella flagranza ritrovati,/ per quella zuffa con i visi rotti,/ e com’eran rimasti insanguinati.../ Tu piangi, musa mia? Che te ne fotti!/ Ma sien que’ fottitor commiserati/ e in questo, donne mie, v’accorderete,/ anzi, m’avveggo che voi pur piangete.// Fianiamola, che al quanto ancor mi tedia:/ non mi credea dover ridurci a pianto./ Mi proposi di darvi una commedia,/ e il vostro cuor sensibile frattanto/ me la fe’ divenire una tragedia.../ Musa, per carità da’ fine al canto.../ E voi, pensate, per restar contente,/ che si fotton gli amanti allegramente» (CXVIII, CXIX e CXX ottave).

NOTE

1 Su questo borgo si cfr. A. BUSCAINO, Xitta. Storia e cronaca di un borgo attorno alla sua torre, Paceco, s.e., 1993.
2 Con riguardo alla singolare mancanza di complessive “memorie” pacecote, si veda un intervento di C. SCADUTO, Paceco. Una storia... in cerca d’autore, in «Paceco due», Paceco, dicembre 1998. Intorno ai ruderi di manzil, “castellazzi” e “torrazze” nei dintorni di Paceco, di notevole interesse è uno studio di A. BARBATA, Misiligiafari. Un manzil arabo alle porte dell’antica Itrabanis, in «Paceco due» cit.. Uno studio molto ampio su questo comune è quello di F. Benigno, Una casa, una terra. Ricerche su Paceco, paese nuovo nella Sicilia del Sei Settecento, Catania, C.U.E.C.M. 1985.

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