Pino Ingardia



















Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

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Parte 3


Le terre una volta coltivate erano coperte di spine­secche, macchia sparsa, zicche di pecore e capre; anche quelle dei coloni chiamati in guerra erano gerbi e le nuove case, finite lo stesso anno del discorso di Mussolini, erano abbandonate. Porte spalancate, formiche, tetti rotti, usati come ricoveri d'occasione nelle giornate di burrasca e di canicola dai pecorai a giornata.
Poco distante il paese fantasma fatto ai piedi del bosco roccioso era sventrato, con la chiesa e la casa del podestà scoperchiate e il balatato a forma di piazza coperto di troffe secche di macchia.
Man mano che i picciotti sbandati rientravano i vecchi prendevano coraggio; tanti che avevano subito minacce e lasciato di forza le case della colonizzazione si erano stabiliti in paese appenati, col segreto desiderio di riaprire la partita alla fine della guerra, al ritorno dei figli.
E poi lo sfregio dei trapanesi, che avevano ridotto il Comune in frazione della città, questa era bella, perché dicevano che ci abitavano solo gente a giornata nelle terre dei trapanesi. Perfino l'ultimo dei podestà si oppose e fece ricorso, senza risultato, e la pratica passò in mano a don Pietro interessando il Prefetto e il compagno Nenni.
Nel luglio quarantaquattro al malaseno vicino casa sua don Pietro un giorno attaccò una bandiera bianca. Americani e carabinieri ci andarono a toglierla, ma perché, se era solo un fazzoletto vecchio?
La sera stessa il malaseno si riempì di gente e si fece viva pure la frangia comunista, per capire quanto stava accadendo.
- Succede che la fame si taglia con il coltello, che manca frumento e lavoro, e le terre interne i ricchi le vogliono tenere a pascolo che gli rende di più.
Una legge ci vuole, ma le leggi non arrivano se ce ne stiamo ad aspettare...
- Compagni, dobbiamo aspettare, che il Comitato di liberazione è con noi. Calmi e sereni, che i decreti Gullo daranno risposte.
Un giorno dopo girarono tre di casa in casa a dare un appuntamento in piazza in una certa matinata. E che fu?
Non era spuntato ancora il sole e lo spiazzo davanti al municipio divenne una marea di uomini, muli, carretti, ragazzi e donne, protetti da cappotti, scialli, giacche, pastrani scuri, con qualche bandiera rossa senza segni.
Andarono a svegliare don Pietro nel pieno del sonno, che quando s'affaccìò dal balcone senza faccialavata s'impaurì a vedere quella scena nella semioscurità. S'inforcò il vestito più logoro e la coppala e scese dalle scale come stonato dalle campane e incontrò Mommo e gli fece ancora confuso: - Che è? Che fu?
- È che vogliono la terra, pure quella del '19.
E da lontano:
- Don Pietro, ha da finire il babbio, partiamo!
- Picciotti, col fresco la calata alla campagna in corteo dev'essere una specie di viaggio alla Madonna. I carretti davanti con la bandiera e calmi e sereni tutti d'appresso.
E dalla strada per Castelvetrano andò a prendere corpo un corteo di sbandati, affittuari, scarpari, mastri d'ascia, carrozzieri, donnedicasa e c'era pure Ciccio il nano, il barbiere di campagna che rasava per una manciata di grano. Cantavano e ascoltavano le parti di Pietro Gallinella, che ne sapeva cento sui ricchi. Bevevano passandosi bummuli e barilotti.
Giunsero a lenta andatura sotto il primosole alle porte di Favarotta, altri proseguirono lungo le trazzere sconosciute a gruppo, dirigendosi verso Fastaia e Fastaiella, e piantarono bandiere facendo falò e pagliai.
I Burgarella di Favarotta minacciarono prima, poi misero in giro che era terra salata. Intanto in paese si fecero provviste di acqua e robbe e scesero pure i vecchi. Si accamparono fra le dise e le spine a gruppi, con le famiglie, e per mangiare si arrangiavano scimiando fave e cuocendo qualche lepre fessa.
La notte successiva, quando don Pietro a letto aveva già tirato il lenzuolo, dopo la lettura delle carte della cooperativa nuova, e sentì bussare alla sua porta. Andò a chiedere chi era a qualche metro dall'ingresso.
Chi era lui lo fece entrare.
- Favarotta non si tocca perché è un campo minato. Il proprietario lo è solo di nome. Vero è che ci sono i decreti Gullo, ma a Favarotta ci sono soprattutto gli appezzamenti a pecore concessi agli amici, che sono cosa sacra. Per ora è solo un avvertimento amichevole, e poi io sono solo passaparola.
Mi fu detto pure di riferire che dovete pensare solamente ad un giorno d'estate del '22.
Salutò.
Erano ancora le sette e mandò a chiamare collattaro a Giovannino, tornato fresco dal carcere di Augusta e caposquadra comunista.
- C'è questo e questo.
- Lo conosco. Ci vado subito.
- Ma senza fare nomi e la mano distesa.
In mezzo alle rocche, al loco, lo trovò che si pigliava pane e latte, come i bambini viziati.
- Ti manda don Pietro?
- Vedete che dobbiamo mangiare, che la debolezza fa acido. E armi ne circolano dopo la permanenza tedesca. E pure i senza terra venuti dal fronte, e i pecorai, mastri sono a usarle. Segnalateci i terreni sacri e diamoci la mano, che il nostro nemico è pure il vostro. - Il soprastante è un cristiano incazzoso, ma parlerò col proprietario. Via libera purché state ai patti.
Al baglio don Cola, che ogni mattina scendeva alla alba in città per rapportare ai proprietari, mandò tre volte amici da don Pietro riferendo minacce che potevano partire solo da gente senza principi. Poi qualcosa si mosse.
Giunse la notizia che la Commissione provinciale per l'assegnazione delle terre incolte aveva deliberato favorevolmente e arrivarono da Trapani i dirigenti della Federterra col decreto prefettizio.
All'incontro, che si tenne davanti al portone del baglio con un sole cocente, ci furono tutti in presenza dei familiari del padrone, che sua signoria, informato a Trapani, rimase a letto per una settimana, allitticato per il dispiacere.
I giorni avanti altre nuove incoraggianti. Si concludevano accordi e decreti per l'ex feudo Fastaia e Fastaiella, per la parecchiata di Chiggiare e quella di Conigli, trattati da uomini di fiducia del partito.
Due salme di frumento a salma di terra l'affitto e dopo quattro anni dallo spietramento e milottatura, che erano a carico dei soci e della cooperativa.
Don Crispino l'ingegnere ebbe incarico di quotizzare e si fecero, dopo i necessari lavori di bonifica, quattrocento lotti da un ettaro, si tracciarono stradelle e quote a pascolo, e l'impegno fu di coltivare tre tumoli a frumento e due a vigne.
Entrarono pure i marsalesi con la loro esperienza, che ebbero assegnati anche per questo terreni di prima, per esercitare coltivazioni dimostrative per gli altri.
Il paese nel giugno 1946 cominciò a vedere ricialo con la prima mietitura, e il pane si mise a circolare in tutte le case.
Chi riusciva a mettere qualche soldo oltre il mangio ne approfittò per comprarsi la mula e il carretto, dopo un anno di farsi strada per il feudo a piedi con la zappa in spalla. E per molti impaiare la mula nelle matinate fredde diventò un fatto d'orgoglio, un riscatto, dopo anni di paure, angosce e fame, col ricordo ancora negli occhi dei campi di battaglia di Grecia, di Jugoslavia e d'Africa.
Circolava in paese un gruppo di studenti, che avevano fatto il circolo, un po' confusionari e ostili.
- Il circolo è una buona cosa in un paese come il nostro, ma la vera cultura si fa nel partito, accanto alla povera gente. Che vogliono questi? Sono figli dei soprastanti e dei commercianti e si dice che parlano contro la leva militare. Sono troppo amici degli americani e hanno simpatie per Giuliano. Questi non hanno un buon futuro, che Giuliano porta alla guerra civile, perché sta coi ricchi...
I soprastanti mafiosi li tenevano pure loro a distanza, e dopo le amicizie americane se ne stavano a guardare dove andavano a scaminare.
Non sapevano dove posarsi, poi si divisero, in parte nel partito della chiesa, altri continuarono con le amicizie separatiste e uno di loro, il capo, entrò in contatto con l'EVIS, picciotto intelligente, dicevano, uno di quelli che aveva guidato il corteo dei renitenti di leva in Prefettura, e che raccontava di avere minacciato il rappresentante del governo per essere stato tentato con un posto di comando. Fecero un colpo in un circolo dei nobili a rubare goielli e portafogli in pieno veglione di carnevale, come faceva Giuliano nel palermitano.
Dopo qualche mese, coinvolto in un delitto d'onore camuffato per tale ma consumato per atto dimostrativo, cercò rifugio come latitante in certi ambienti e vi scomparse per sempre, annegato nelle trame che si creano in mezzo alla gente povera che ammira sempre gli alletterati risoluti.
Non ci fu mai un vero processo. Ci fu la madre che con le sue stime in pubblico mise il primo anno subbuglio in certi ambienti onorati.
Ma erano stime solamente, chiacchiere e tabacchie-redilegno. Si disse pure che il padre era quello che aveva sparato su don Bastiano del monte vent'anni prima, costretto per una vita a campare alla macchia sin dai primi mesi della fine della guerra europea.
Quel che è certo è che in quei mesi di colpi di scena il maresciallo, al suo primo incarico e desideroso di ottenere il trasferimento-premio, ebbe decisamente fortuna e così pure fu per un ragazzo ben messo del paese, che facendo la spola con l'università scrisse in quei mesi articoli di fuoco sul caso, pieni di primizie, indiscrezioni, annotazioni critiche, sulle pagine del giornale «L'Ora».
E tutto il paese, a cominciare da don Pietro seguirono questi avvenimenti con voracità e paura, pensando alla corruzione, alle minacce, a tanto sangue sparso e al coraggio che ci voleva, come quello di Li Causi sparato sopra un tavolino mentre parlava ai senza terra nascosti dietro le persiane ad ascoltare.
Ma c'era pure il ricordo, negli occhi di tutti, dei funerali di tanti giovani diversi come i figli di don Jaco Spatola e di Nino Scuderi.


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