Pino Ingardia



















Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

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Parte 2


I tedeschi erano accampati alle scuole e i picciotti ogni tanto ci andavano a fare qualche cosa. Lavavano i piatti e scopavano.
Michele e Giovannino ogni giorno quasi riuscivano a strappare qualche pezzo di pane nero e della pasta e la portavano a casa.
Mancava la farina e i trapanesi venivano al paese a cambiare l'oro col frumento. Michele faceva il ruffiano dei tedeschi e poi si vendeva le sigarette in cambio della farina. Suo padre aveva l'orto a tre miglia dal paese e se lo vigilava con sua moglie, mentre sua figlia la chiudeva a casa per paura dei tedeschi, che venivano a fare trinche svaini a casa dell'ingegnere vicino.
Più d'una volta ubriachi sierano infilati nelle case vicine e una volta assaltarono donna Maria la vedova, che si mise a gridare e si salvò perché vennero l'ingegnere e il tenente tedesco a fare quattro abbaiate agli ubriachi.
Don Mommo era socialista e spesso discuteva con quelli della vecchia cooperativa agricola; i tedeschi non li sopportava e nemmeno che suo figlio Giovannino ci andasse, anche se poi arraffava qualcosa.
Era contento quando veniva dalla casa di don Pietro; li c'erano tutti ogni volta, Peppe Paesano, Nino Palmeri, Mommo Inglese e don Pietro, che era la testa del paese, li assicurava tutti che tutti quei figli di cane avrebbero perso e che i russi avrebbero dato filo da torcere con le batterie di Leningrado. Don Pietro accendeva pure la radio e faceva sentire il comunicato di Londra. Poi spiegava le sconfitte nostre e i discorsi di Churcill, quello con la vi e il sigaro grosso.
Don Mommo nel suo orto aveva meloni e cocomeri che pensava si sarebbero fatti di lusso e s'arrabbiava quando pensava che se li dovevano sbafare i tedeschi.
All'ospizio marino aveva il fratello, che era dell'artiglieria e spesso quando veniva in paese per parlare al maresciallo, gli raccontava di certi cornuti di ufficiali che prima di ordinare il fuoco aspettavano che passassero tutti quei corvacci americani. Una volta un soldato, che era di Verona, sparò senza ordine e ne colpi due. La festa gli fecero! Al fronte.
E don Mommo che aveva fatto la guerra europea certe cose le sapeva. Aspettate, figli di troia, aspettate e ve la inculeremo senza che ve ne accorgete - diceva tra sé quando passavano in fila con quel rumore di stivali che parevano tuoni - aspettate un poco ancora e appatteremo la settanta a colpi di nervate, altro che trinche svaini e femmine!
Quando cominciarono i bombardamenti andava a ripararsi nel fortino vicino con sua moglie, e in paese Titì sua figlia si nascondeva sotto il letto con le mani strette alle orecchie. Giovannino era sempre con Michele alle scuole a fumare pezzi di sigarette fatte a mano o a cercare nella catasta dell'immondizia pezzi di pane, barattoli di vetro interi e lattine di conserva che sistemavano sul muretto del campo Sciarotta e li prendevano poi a sassate.
E il tempo don Mommo lo contava sempre e con insistenza.
Don Pietro, che era un conforto ascoltarlo, parlava di offensiva americana a breve scadenza, ma quando?
Ci fu finalmente una notte che la milizia e i tedeschi si prepararono e fecero un casino prima di scappare. Era una notte calda di luglio e Giovannino si alzò in canottiera assieme agli altri picciotti a guardare i fari accesi nel buio, e le bestemmie si accavallavano ai colpi di tacco affrettati. Uscirono pure le donne a vedere la fila di camion, e dal castellaccio scendevano gli altri di corsa.
Il paese in un quarto d'ora fu libero, e andarono tutti in piazza, attorno al municipio, uomini e donne, a guardare i padroni che smontavano, dopo due anni. Don Mommo gridava di gioia e si vide don Pietro. - Finalmente se ne vanno. Un colpo di sangue li deve cogliere! Un colpo di sangue...
Verso le dieci dalla Seniazza si senti un bordello del diavolo. I garzoncelli accorsero subito a grappoli che pareva festa. Da Marsala una colonna di camion si avvicinava al paese.
- L'americani!, gridavano i picciottelli, viva l'americani!
Giovannino era pure tra quelli che tenevano i fazzoletti al collo, appiccicato con Michele sullo sportello del primo mezzo e vociava con gli altri, come quando passava la banda e mastro Ntoni lo scarparo dava il via col suo trombone lucido.
Al paese era festa e padre Mario coi suoi denti di coniglio rideva e salutava con abbracci i nuovi arrivati.
Nella piazza ci fu una confusione grande e un'allegria generale.
Ma don Mommo si andò a consigliare con gli altri a casa di don Pietro.
- Compagni, nascondete i fucili prima che ve li vengano a sequestrare, e non rispondete male se vi offendono - fece sapere.
E così fu.
Don Mommo aveva due fucili, una vecchia di suo padre e una che gli aveva regalato il barone Curatola e le seppellì all'orto a tre metri dal pagliaio.
Al Porticalazzo vide suo compare Totò con un fusto nuovo e due sacchi bianchi, mai visti. Capì che li aveva presi al comando tedesco e ci andò, consigliato da Michele, pure lui. C'erano montagne di pane, farina, sacchi di zucchero spaccati e caffè per terra.
Venivano tutti lì coi carretti e riempivano. Arraffò due sacchi di farina e quattro scatoloni di roba nera e due barattoli di cosa gialla.
Posò tutto al pagliaio e fece un altro viaggio. Uscivano tutti in silenzio e senza fretta, guardandosi furtivamente in volto, solo i muli muovendosi facevano scuotere le sonagliere. Dopo due ore al Porticalazzo si presero pure le porte e la strada sotto il sole rovente lasciava la traccia di chicchi di caffè, di zucchero, di fili di spaghetti e stronzi gialli delle bestie stanche e sudate.
Al paese verso le dieci tutto fu silenzioso e gli americani si stabilirono alle scuole e si distesero a riposare sui pavimenti freschi dei corridoi. Alla piazza sui lati ombrosi della chiesa, crocchi di piccotti si giocavano a testa e croce la mastica avuta dagli americani, mentre l'arciprete ancora si affannava a nascondere la fotografia dei sovrani e del cavaliere Mussolini sotto le tegole allippate del tetto della sagrestia.
Gli americani in paese si facevano ben volere e quando volevano comprare i meloni di don Mommo si rivolgevano prima a mastro Turi, che era stato a Broccolini, per quindici anni e ci teneva a dirlo.
I meloni, quelli odorosi, se li sbafavano coi cucchiai e pezzi di fessi si facevano fottere manciate di dollari da quel ruffiano, che pareva l'ambasciatore con quelle quattro cocce di americano sgangherato.
Dicevano che in Sicilia la guerra era finita; ma la radio parlava chiaro quando si parlava degli scontri contro i tedeschi a Roma, a Bologna e a Firenze. Il figlio di donna Maria erano due mesi che non scriveva più e si andava dicendo in giro che si era messo pure lui coi partigiani. Don Mommo lo conosceva bene perché si erano incontrati spesso da don Pietro; era un picciotto socialista e faceva lo studente a Trapani; poi la sera, quando finiva di studiare andava a fare quattro chiacchiere a casa di don Pietro e qualche volta venne pure a casa di don Mommo, quando il vecchio lo invitava a bere un bicchierotto buono delle sue terre. Don Mommo ci teneva a quel picciotto, perché sapeva parlare che era una bellezza e poi pare che con Titì si guardavano un po'.
A donna Maria la rassicurarono con calore e la vedova ebbe presto fiducia.
Le sigarette e la farina cominciarono ad abbondare perché il controllo militare sui mulini fu abolito e certi intrallazzisti marsalesi la finirono con la cuccagna che avevano avuto. I trapanesi cominciarono a tornare in città e a prendere i resti delle cose che rimanevano dai bombardamenti di San Pietro.
Il paese con gli americani si stava trasformando, troppe donne di casa facevano l'occhiolino alle divise e l'intrallazzo cresceva sulle spalle di chi aveva un pezzo di terra arida da riabilitare alla coltivazione. Un giorno amareggiato disse ai compagni:
- Che volete? La mastica americana produce solo mastica!
La sera alla piazza i garzoncelli che venivano dagli orti di pomidoro portavano pezzi di girasole ancora appiccicaticci, mastiche e cicche di sigarette, per giocarseli al soldo sulle balate lisce dei sedili.
Passeggiavano sotto la luce dei lampioni di Mussolini gli ufficiali più seri che non scendevano a Trapani e parlavano con mastro Turi della Sicilia. Veniva ogni tanto pure l'arciprete e col suo sorriso democratico cominciava a chiedere dei grattacieli e delle automobili lunghe, spuntate nella terra promessa come funghi.
Il figlio di don Mommo, che s'era fatto un delinquente matricolato con gli altri picciotti, era il capo­banda e si faceva chiamare Giuliano, come quel pazzo di Montelepre che voleva la Sicilia separata e americana, magari piena di puttane e di intrallazzisti.
E don Pietro parlava chiaro:
_ Non ce ne servono cornuti che si mettono la maschera e fanno la faccia degli amici della povera gente. Stiamo attenti che ci fregano senza che ce ne accorgiamo. Quale separatismo d'egitto! I contadini vogliono la terra e il lavoro... Gli americani ci tengono buoni perché si scantano, ma ce la faremo.
E quando parlava don Pietro veniva pure qualcuno dei cappeddi qualche volta, nella nuova sezione che si apriva in quelle settimane.
Spuntarono alla luce del sole pure i comunisti, affrancati nella sezione di don Pietro, giovani e un po' irrequieti ma tutti bravi picciotti.
Nelle case basse a tegola annegata del Bordino, dentro i solai, nelle pentole fumanti del paese si parlava e si sentivano rumori nuovi, pianti di gioie improvvise, colpi di mitra lontani, sirene, colpi di zotta alle mule stanche, di vento impetuoso che annunziava l'autunno senza colore in arrivo e le navi straniere del porto e la batteria del castellaccio e i gridi strazianti di donna Maria con la lettera in mano.
Salvatore Maltese riferì il carabiniere, era morto sui monti di Pordenone fucilato dai tedeschi. Pianse pure Titì quel giorno, senza parola e don Mommo non le parlò, la guardò soltanto un poco e poi se ne uscì, in silenzio senza mangiare.
Si diresse a casa di don Pietro con le mani in tasca e il pastrano logoro sulle spalle. Don Pietro lo fece sedere e stettero in silenzio un poco.
Parlarono dell'annata in campagna, della vecchia cooperativa e della fine della guerra, come al solito, quasi senza più crederci.
Al paese erano nove gli annunci di morte che il maresciallo fece dividere: i due figli di don Diego il carrettiere, Nino Passalacqua che lasciava moglie ebbe due figli, Peppe Cucco e altri cinque della frazione vicina, fra cui Michele Rancio, lo stagnino a domicilio consa­pignatte.
Le pergole perdevano le ultime foglie gialle e nel silenzio dei fazzoletti neri nelle mattinate di gelo lunghe file di donne si dirigevano agli ulivi.
Il pane era caro e gli americani dividevano cappotti usati e cioccolata.
Quando la sera si tornava si dava la crusca alle galline del solaio e si vendeva per qualche soldo alla moglie dell'ingegnere l'uovo che facevano.
Giovannino scappava sempre all'ora di mangiare la sera, per andare a giocare con Michele e Vito, davanti alle balate lisce dello zio Biagio, che nelle serate tiepide si faceva sentire con la fisarmonica argentina.
Poi Titì si ammalò con la malaria e don Mommo per curarla si dovette vendere la mula e la terra di Misiliscemi. Furono due mesi di pianti e di fatica dal paese al sant'antonio, che Mommo stava perdendo la testa.
Due mesi dopo Michele si mutilò il braccio destro con l'esplosione della bomba sepolta, mentre tagliava la sulla per le bestie vicine al fiume secco, e don Mommo si mangiò pure a Gesù Cristo.
Un giorno di pioggia forte, che rovinò il seminato a tutti, da Santo Rocco salirono quattro sconosciuti con la barba lunga e i pantaloni laceri.
Era il figlio di don Diego, Peppe Cucco e due della campagna. Avevano fatto i partigiani, poveri e disgraziati, e ora che facevano, con chi si mettevano?
Informarono pochi giorni dopo che la guerra era finita e appesero la bandiera stellata con quella tricolore al finestrone del municipio.
Parlò don Pietro e sotto le bandiere si assembrarono i contadini, muti ma attenti alle parole più che allo sventolìo.
La sera si scatenò la burrasca, lunga e fragorosa. Durò due ore e restarono tutti in casa, a guardare dai vetri i canaloni scendere dal castellaccio inondare le strade diventate fiumane.
Fu a tarda ora che don Pietro uscì per le strade, quasi a scrollarsi la stanchezza di quella giornata per respirare quella nuova aria.
In giro non c'era nessuno e il vecchio si guardò intorno; passò per la via principale e guardò i muri inzuppati, il monumento ai caduti coi fasci littori fracassati a colpi di zappa proprio quel giorno, volantini sparsi dalla pattuglia di quei pazzi dei comunisti; le cannalate pisciavano ancora acqua dalle tegole allippate.
Guardò verso le scuole e vide i camion pronti degli americani.
Dopo mezz'ora uscirono e partirono, sotto l'acqua che riprese, dirigendosi verso Milo.
Masticavano ancora, come quando vennero, con quelle facce di picciotti di paese che non conoscono il mondo. Li guardò ancora una volta e ridevano, qualcuno segnava col dito una casa lontana, altri suonavano l'armonica.
Don Mommo uscì quella sera col pastrano nuovo e portò un fiasco di vino in casa di don Pietro.
Lo incontrò per strada e gli chiese contento: - Ne verranno più domani?
- Oh, Mommo, credi davvero che ci lasceranno?
E fu così che Mommo il giorno dopo fu preso per pazzo e passò con quei giovani un po' irruenti che già parlavano di un certo Li Causi.


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