Pino Ingardia



















Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

precedente

successivo

Parte 8


Le facce pallide intorno al palco addobbato sulla scalinata della madrice non erano poi tante, mute e attente alle parole di pietra del vicario del vescovo, bardato dei paramenti violacei d'occasione.
A gruppi famiglie intere se ne stavano a conversare sottovoce all'ombra dei pini marittimi consunti, seduti sui sedili in silenzio.
Poi i brani sul tradimento di Giuda, che ammutolirono d'improvviso il rosone dei notabili, mentre le famiglie favorite e le sorelle a lutto testiavano.
Peppino col suo vestito nuovo, in quella bara delle onoranze municipali disposte in gran fretta dai compagni della giunta, faceva l'ultimo comizio, a distanza di una settimana dalle ultime stanche battute della campagna elettorale. Erano tutti lì i giovani leoni delle correnti avverse, che lo avevano come murato vivo mesi addietro, buttati all'arrembaggio coi mazzi dei buoni di benzina e gli elenchi dei pensionati arrabattati chissà come dalla previdenza sociale.
Il discorso del nuovo sindaco repubblicano, breve e dignitoso, fatto senza rancori e con accenni commossi; poi venne il necrologio del sottosegretario suo amico, pieno di attestazioni di cristiana santità dell'uomo. Ma che santità? Peppino il sindaco era fatto di mille peccati senza scopo, di umane viltà, come quel padre Mario di anni prima, e la gente al primo pensiero affiorante rise sotto i baffi.
Era uno che la sera pisciava sotto gli alberi della piazza col suo amico Ciccia e la gente pure ci scherzava, benché quei soliti alberi in certi mesi parevano disseccarsi.
Passeggiava a scatti, si fermava di botto con la sua statura da pupo d'operetta e i disoccupati, quelli che cercavano protezioni per il cantiere-scuola, si facevano numerosi attorno alle sue battute da caffè, nelle serate d'estate, quando i pensieri di miseria nelle teste dei disoccupati scoppiavano fino alla pazzia.
Ma Peppino ora era là, immobile sul catafalco a suscitare recondite angosce a suo cugino, mentre il camionista arricchito esponeva la sua inespressiva faccia di bronzo assieme al bancario che lo aveva pugnalato con la bicchierata segreta dei primi dell'anno, servita per scalzarlo dallo scanno municipale a sua insaputa, nei giorni del ricovero di sua moglie all'ospedale di Palermo.
Era spuntata a fine anno la legge regionale sul decentramento, che dotava i comuni di poteri e denari freschi, di appalti più consistenti e certo le correnti non si potevano più fidare di un uomo all'antica, abituato ancora a vedersela da solo col segretario comunale, a vivere in quella sua vecchia casa diroccata piena di topi e di vecchi cimeli, dove si vergognava a portare gente nuova, che ogni volta era un dramma farli entrare dall'ingresso principale, per raggiungere lo studio zeppo di carte e polvere.
Ci avevano provato pure in privato a spiegargli certe cose. Perfino sui posti al comune, benché era sempre pronta la lista di partito, quel suo pallino dei più bisognosi, beninteso di partito, era il tocco inaspettato di ogni occasione. E del resto ci fu il precedente della moglie del cislino, su cui era nato il quarantotto contro Peppino.
Si era laureato in legge fuori corso di qualche rotazione, chè l'annaloro di suo padre gli ricordava spesso le fave rispuntate allupate, ancora prima della benedetta tesi, una liberazione, un ridalo per tutti dopo anni di compagnie vastase frequentate a Palermo, senza freno.
E si trascinò gli anni della giovinezza senza prescia con le sorelle, come un gagà, mantenuto senza mai provare la professione, con l'olio delloco di suo padre, morto proprio in quegli anni di ripresa.
Coi figli dei burgisotti, dotati di qualche coccio di lettera, provò i primi discorsi goliardici sul palchetto dal malaseno comunale. Erano gli anni dell'occupazione tedesca e sfotteva le storpiature di don Pietro, attorniato di ubriachi e puttanelle che venivano a ballare coi volontari francesi. Ma per don Pietro era appena un pidocchio senza senso e non lo mentovò mai, salvo quando i compagni di ubriacarono della ventata del milazzismo. Fu allora che l'improvvisa conversione di Peppino all'USCUS e i rivolgimenti che lo portarono alla poltrona di sindaco, indussero il vecchio a pronunziare uno dei suoi ultimi discorsi preoccupati e seri, in cui si attardò davanti a una folla traboccante e attenta a parlare della Sicilia contadina in sfacelo, dei feudi ancora sanguinanti di lotte e di sconfitte, dell'avvento di una nuova classe di padroni. Furono in molti a non capire, a restare perplessi, e la fretta di accorciare la strada degli, accordi offuscò per un momento l'antico rispetto per il vecchio, preso per arteriosclerotico e fuori uso.
Cose vecchie e odiose, pensava Peppino, come odioso il mondo della campagna con le sue insopportabili sudate, il fastidio delle bestie, il sole accecante. E fu da qui che partì l'idea delle grandi illuminazioni, delle pompe di benzina ad ogni angolo; poi col suo rientro allo scudocrociato la concessione della licenza del grattacielo al camionista, orgogliosa nota di tutti i suoi successivi discorsi pubblici.
I compagni lo attaccavano con le delegazioni dei disoccupati al municipio, mentre gli amici di don Pietro con la malattia del vecchio preferivano racchiudersi nei meandri della Cassa Rurale.
Anni senza storia, senza scatti d'orgoglio, senza lotte.
Agli operai che organizzavano gli scioperi e occupavano le stanze dell'ufficio di collocamento occorreva il lavoro stabile e sicuro, altro che parole di conforto e speranze, e certo la politica delle assunzioni occasionali non poteva spezzare la barriera di odio e di diffidenza che gli cadeva addosso.
I cantieri-scuola con la loro giornata di fame erano come legna sul fuoco. Nuvoloni di biciclette scolorite dal sole rovente d'estate si inerpicavano per le strade polverose dell'interno, fino alla Cuddia, alla Americanica, a Fastaia, a spaccare pietra bianca a staglio fino a Borgo Fazio. Si andava a fare mazzi di stoppie per il pane di casa, per la camiata del forno a pietra del vicinanzo, si raccoglievano babbaluci bianchi fra le spine secche della piana, da vendere allo scaro per pochi spicci.
Le campagne infernali con le trebbie a nastro, nei piazzamenti più sperduti, a sedici ore di luce accecante, e altre otto distesi sotto la volta sognanti sui covoni di fortuna, e poi ricioppare spighe per le galline di casa, la zappuliatura e l'abbeverata dei ritagli d'orto presi a mezzadria, la scatenatura con aratri a chiodo e bestie curve dagli sforzi, delle restucciate appena bruciate dallo scirocco.
I senza terra ora se ne stavano con la loro tristezza e i loro dolori a guardare seduti davanti alle loro sezioni, dopo avere aperto un fronte contro i giovani sulla decisione di appendere le bandiere a lutto.
Quando fu data la benedizione si compose silenziosamente uno sparuto corteo di gente sconosciuta e circolò nella piazza un mormorìo. Si ricordavano i funerali di don Pietro, lasciato esporre fuori municipio e senza esequie religiose, accompagnto in una triste mattinata umida piena di mestizia ma di esaltanti ricordi di lotte negli occhi di una sterminata iolla con le bandiere rosse, venuta dalla provincia.
La banda attaccò con note dolorose l'itinerario e fu silenzio per sempre per Peppino, galantuomo generoso e povero fra pescecani e scorfani, murene e marpioni, che non capì mai niente del suo tempo, lasciato morire a lento fuoco come si fa con i cani, che per vecchiaia e stanchezza, dopo un'esistenza di servigi, non riconoscono più la voce del padrone.


E-mail e-mail - redazione@trapaninostra.it