Pino Ingardia











Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

precedente

successivo

Parte 7


Erano anni di facili entusiasmi.
Facevo parte di un gruppo affiatato e ricco di interessi, svolazzante alla ricerca di novità.
Ci conoscemmo praticamente fra i sedili e le passeggiate estive della piazza, discorrendo di ragazze e di estagli, mentre cominciavo già ad assaporare il piacere dei capelli ordinati e della giacca nuova comprata coi sacrifici di mia madre, per comparire.
Pietro che sapeva del mio invaghimento inconfessato per la figlia del mio maestro, mi sfotteva e sotto sotto invidiava la scelta, quasi che quella personcina fosse già impegnata.
Si andava in gruppo al mare sporco di Marausa a fantasticare in bicicletta avventure impossibili e a parlare di cose di sesso col cipiglio di consumati studiosi.
Poi Giacomo si innamorò segretamente di Lisetta, la sorella di Leo, e quando svanì nacquero i contrasti e le rotture.
In quei mesi mio padre, fermato sistematicamente alle porte di Trapani con sequestri di fornate sane di pane, lasciò il forno a legna e la famiglia per emigrare in Germania.
Fu così che restai con mia madre e le mie sorelle a badare con la cristiana alla panificazione del vicinanzo e a quello delle campagne, che consegnavo al ritorno dalla scuola in bicicletta.
Erano scoperte di un godimento tutto particolare, che mi consentivano in quelle quartate di ripercorrere le immagini delle passeggiate serali sotto i lampioni della piazza, a spinnare occhiate lusinghiere e sognare con le canzonette del bar Pizzolato.
Cos1 passarono i pomeriggi estivi, sotto la canicola e lo scoppiettio delle stoppie che accompagnavano i ronzanti viaggi in bicicletta fino alle case sparse di Soria, ai bagli sperduti delle colline interne, con le coffe di pane che diventava arso, fino alle prime scaricate torrenziali di settembre, che mi travolsero in pieno come un pulcino, un giorno qualunque vicino al piazzamento della trebbia dei Piacentino.
Fu l'inverno successivo che in gruppo una sera decidemmo di salire per iscriverci al partito, dopo lunghe serate di discussioni per le vie scure del paese, sulla povertà e la ricchezza.
Solo la mia famiglia e quella di Pietro erano state al contatto col partito. I nostri padri braccianti ci raccontavano del fallimento dell'esperienza della cooperativa del '48 e della fine disastrosa della riforma agraria, con acredine e rabbia verso i seguaci di don Pietro, dei lotti a ventennale al feudo Favarotta, spietrati col sangue e a nude mani da nuvoloni sterminati di braccianti e di vecchi affamati.
E Favarotta, il lotto di mio nonno, li avevo conosciuti con mio padre un'estate prima a ricioppare uva per il vino di casa, quando mi additò un terreno pieno di spine e di mucchi di pietre, dove la cooperativa sorta con l'occupazione del feudo aveva disegnato i primi appezzamenti da spietrare e mettere in coltura.
Fu qualche anno dopo che con le prime promesse della legge di riforma don Pietro, cominciò a manovrare per lo scioglimento della cooperativa, senza nemmeno tentare una trattativa con i proprietari, per poi lasciare in mezzo alla strada oltre la metà dei quattrocento soci e tutti gli sbandati tornati dalla guerra, privi di terra e di lavoro.
Al partito c'erano pensionati e braccianti, giovani edili e voglia di vederci all'opera.
C'erano l'Unità e le lettere di Anna Strong in carta patinata che arrivavano ogni settimana, la biblioteca coi discorsi parlamentari di Li Causi e Corrao, sui fatti della SOFIS e del governo Milazzo, del quale i nostri vecchi sparavano peste e corna, pensando al grosso scherzo di un avvocaticchio del paese all'epoca dell'USCUS.
Salivamo tutti i pomeriggi per quelle scale sporche della sezione, dove il feto e le sedie sfasciate attorno al tavolo centrale ci entravano a poco a poco nel sangue con quell'umanità carica di speranza fatta di tanti, vecchi e giovani, cui si dava del tu indifferentemente.
Le scampagnate frequenti in gruppo al castellaccio ci permettevano di parlare del nostro giornalino ciclo­stilato, di donne e delle notizie che giungevano dal Vietnam. Organizzammo in quella primavera, per pasqua, la mostra per la pace nel Vietnam, in piazza, fra entusiasmi, diffidenze e curiosità.
E doveva essere da quei giorni che partirono le prime pressioni, dai professori, dai genitori, prima morbide, poi più tenaci, fino alle assurde chiamate, a uno a uno in caserma, per uscirne.
Il primo a tenere duro fu Leo, a trarne quasi una lezione positiva, e così decidemmo tutti, fra una goccia d'orgoglio e un pizzico di cocciuta ostinazione, per la scoperta dell'importanza di militare nel partito, fino ad allora rimasta quasi un fatto privato e senza peso.
Leggevo Stato e Rivoluzione a notte alta e divoravo con curiosità quell'insieme di valori nuovi e di concetti inusitati ascoltati all'ultimo congresso della Federazione Giovanile a Marsala, per capire meglio gli articoli spigolosi di Rinascita.
Quel tempo era fatto di scoperte continue, di piccole vanità intellettuali, di amorose conversazioni sull'amore senza ragazze, di favolose passeggiate domenicali di gruppo per guardare e rubare con gli occhi le belle piene di civetteria e di timidezza uscire dalla messa di mezzogiorno, a lungo attese di fronte alla scalinata della madrice, quasi come un rito.
E questo tempo quasi improvvisamente doveva cancellarsi a qualche mese dopo la promozione al primo liceo, quando giungeva notizia dei carri armati sovietici entrati a Praga, che doveva aprire un lungo travaglio interno, un isolamento cocente, uno scontro coi compagni anziani fatto di delusioni e di rinnovate diffidenze, di un partito cresciuto all'ombra dei fatti d'Ungheria che ci lasciava soli col giornale a capire le barricate parigine di maggio.
Furono quei fatti a rompere l'incantesimo del mito sovietico e a farci misurare presto con le esaltanti giornate di occupazione al Liceo, le marce per la pace, il volontariato fra le tendopoli infangate del Belice, fianco a fianco con gente nuova, uscita improvvisamente come noi dall'isolamento dei paesi contadini per capire il nuovo che ci circondava.


E-mail e-mail - redazione@trapaninostra.it