Pino Ingardia











Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

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Parte 6


Per i figli dei senza terra le estati di quegli anni, studenti o no, erano fatte di lavoro e di sudore salato. Solo Giacomo e il figlio del maestro si risparmiavano alla campagna del cotone, che era per qualche centinaio di garzoncelli una esperienza dura.
I filari chilometrici invadevano tutte le colline delle contrade fuori paese, giungevano al feudo Favarotta e si confondevano con immensi orti a pomidoro e girasoli.
Giornate sormontate dal frinire sordo delle cicale, fatte di sete aspra e insoddisfatta dall'abbeverata alle bocche di bummulo.
Mia madre non mi ci voleva mandare perché per lei era vergogna mandare i figli in faccia d'altri, ma poi se ne convinse per il bisogno della famiglia.
Peppe Mura, che fu tra i primi a chiamarmi, aveva una ciurma di venti dodicenni che si lamentava delle pretese dei braccianti troppo lenti e cari per le sue esigenze alloco di Castellaccio.
Ragazzi a fiumane la mattina in bicicletta o rannicchiati a grappoli fra i sacchi vuoti a cassetta dei carri lasciavano presto il paese, per trecentolire la giornata.
Erano settimane di stanchezza e di passione, schiene doloranti e ronzii di testa che accompagnavano quelle ubriacature di luce sotto il persistente scirocco, e gli anziani ad arte che spezzavano la monotonia dei filari parlandoci della guerra e dell'antica fame del paese, trattando dei loro figli a scuola come di creature destinate ad un futuro fuori della campagna.
Si lavorava a staglio oppure a peso. C'era chi arrivava a ottanta chili, chi andava avanti come un mulo fino al tramonto senza lamenti. Si levava mano solo quando le ombre dei filari si allungavano di almeno tre passi e si finiva spesso la giornata con le mani graffiate e sanguinolente per le punte secche e spinose dei boccioli scuri, che sognavo di notte come rospi pungenti.
Chi restava indietro era preso in giro come l'ultimo della ciurma. Poi a colazione il principale, che metteva sarde salate e vino, ripeteva sempre che chi è lento a mangiare è lento a travagliare.
Il cotone degli anni avanti abbandonò intere contrade perché il prezzo non si adeguò.
Le lunghe teorie di carretti carichi di sacchi di una volta, ferme alle porte del paese al tramonto per scaricare nei malaseni di don Cola Basiricò e al Consorzio, si facevano più rade.
Una mattina che andavo alle scuole mi fermai colpito dallo spettacolo dello sciopero dei carretti che riempiva la piazza centrale.
Un ammasso di carretti, di cantarate fumanti, di bestie spaiate e di paramenti invadeva le zone d'ombra sotto gli alberi. I burgisotti più sentiti se ne stavano a gruppo chiuso vicino al monumento, con quelli della Camera del lavoro, e contavano i partecipanti delle terre di Chiggiari, della Piana di Misiliscemi. C'era pure don Peppe con la sua faccia cotta, fra quelli in testa.
Era la protesta dei pacecoti contro l'aumento del prezzo delle semenze, una mazzata contro i cottonari.
Quel giorno ci fu un lungo corteo fino alla prefettura e ci scapparono, di fronte al palazzo del governo, alcuni tafferugli, dovuti alla rabbia di alcuni proprietari, non disposti come i braccianti alle lotte eppure quel giorno furiosi e attivi a fianco al sindacato.
Nel pomeriggo i carretti tornarono a concentrarsi attorno al municipio per una parola chiara, e fu al tramonto che il nuovo sindaco milazziano sciolse l'iniziativa con un discorso pieno di parole difficili e vacanti.
Il giorno dopo a scuola il maestro assegnò un tema sul cotone e spiegò alla classe la rovina del paese; fu così che ci guardammo in faccia alcuni e incosciamente sorridemmo pensando ad un'estate diversa.


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