Pino Ingardia



















Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

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Parte 10


Saro era un tipo basso, moro e con quella flemma allegrotta che a prima vista si confonde con la cupa tristezza delle terre pantesche.
Mi venne a prendere all'Agadir la mattina stessa che sbarcai con quel marerotto che non smise mai tutto il giorno di infrangersi a schiumate regolari contro i macigni neri del molo.
Andammo col materiale di propaganda che avevo portato da Trapani quasi subito, in mezzo all'umidità.
Attraversammo il molo per dirigerei verso un ammasso di macerie dove si distingueva la falcemartello del partito. Salimmo. Era una stanza reruperata da una casa distrutta dai bombardamenti della guerra, umidità e manifesti allegri.
Ci riscoprii l'Hocimin del settantadue, fra mucchi di rotoli mai attaccati, regolarmente spediti in aereo.
Saro mi parlò a lungo con la mappa dell'isola del piano regolatore sul quale i progettisti stavano lavorando.
Dopo mezz'ora arrivò il vecchio segretario e Gianni, che mi salutarono calorosamente chiedendomi del senatore e dei compagni del paese. Peppino, il segretario, non è che fosse vecchio, ma a soli cinquant'anni così basso e scuro, con le gambe incavate e i capelli radi, ne presentava sessanta.
Si doveva fare quella mattinata una riunione del direttivo ma non fu possibile perché fino alle undici non si vide nessuno; più tardi uscimmo un po' sul tratto del porto e incontrai l'amico comune con la fuoriserie; era la prima volta che lo conoscevo, me lo presentarono e mi chiese con sospetto perché ero venuto, poi con una certa aria di convenienza mi offrì da bere.
Uscì il sole e il molo si cominciò a riempire di giovani, ragazze deliziose, impiegate e professori che in abbondanza provengono da Trapani e provincia preferendo l'isolamento alle sedi d'insegnamento e di lavoro del nord.
Fra questi riconobbi e abbracciai qualche vecchia conoscenza, qualche paesano lontano da anni, come il figlio del vecchio medico condotto del mio paese, sistemato con una maestra del posto, ancora senza figli.
Si impegnarono a venire al mio comizio, il pomeriggio.
Tornai a restare con Saro, dopopranzo, e mi portò da uno del gruppo del giornale locale, nato una delle più fortunate estati pantesche coi soldi e la simpatia di un gruppo di amici milanesi.
Questo amico nella sua casa teneva praticamente la sede della redazione, la figlia e la moglie.
Michele, mi pare si chiamava, mi disse orgogliosamente che il loro giornale lo temevano i notabili locali.
- Sì, ma il pantesco che zappa la terra non sa nemmeno che esiste - rispose Saro con un'esclamazione di contrappunto.
- Il nostro è il primo pezzo di carta stampata che esce con periodicità dopo i bandi arabi del millenovantadue, quando nell'isola non c'era ancora il castello di Barbacane e si respirava aria di prosperità e di libertà dal continente.
- Nostalgie, caro amico, magari stimolanti. E poi il castello ha significato una forza e una concezione della vita inevitabilmente basata sulla superiorità della tecnica e dell'organizzazione.
Saro rimase lì per lì senza parole, poi disse:
- La nostra sezione è un po' il tentativo di fare un nuovo castello, certo non con gli stessi fini di barbacane. Anche dopo il 1860 la classe dirigente pantesca si è continuata a organizzare in bande, a clan come gli arabi, che ancora non hanno partiti, e i partiti ci sono in quanto alleanze strategiche con la terraferma.
- E poi dite che siamo conigli, ma che credete di non esserlo anche voi siciliani? L'insularità è anche un elemento di forza, qualche volta...
- E no, caro Michele, Barbacane è stato mi pare ormai sconfitto da tempo dalle invasioni estive e dai sacchi a pelo. Qui non si tratta di essere nemici dell'isola, e poi non si sopravvive a se stessi se questa terra non funziona più nei suoi ingranaggi più reconditi...
Mi sovvenne un po' il gruppo del Ciarlatano a 16 anni, quando ci ingegnavamo a inventarci una specie di microcosmo isolato, ideando nel giornalino ciclosti­lato una specie di durlindana vendicatrice, teorizzando financo l'autonomia e la indipendenza dalla politica attiva.
Questo Michele era magro come un bastone, serio e timido, nervoso quanto mansueto negli sguardi quando entrava la sua giovane moglie a portarci le posate buone del caffè, in silenzio.
Parlai pure dell'Italia e del ruolo del partito ma in quel salotto buono quel discorso a tre per un attimo mi sembrò quasi astratta discettazione, mentre dalla finestra allungavo lo sguardo verso i diroccati dammusi dell'interno, di quella campagna senza alberi e allucinante di nerofumo.
Michele mi disse che i partiti nazionali in questo posto rischiano di essere comodi paraventi: prendi il gruppo della cantina, o il pateracchio della maggioranza di centrodestra, o peggio ancora certe strane convivenze fra un nostro comune amico e i libici...
Ci lasciammo dopo che mi fornirono con entusiasmo l'intera collezione del giornale e andai al comizio davanti al municipio.
Col segretario parlai del piano regolatore e del turismo dei gruppi fatto sulla pelle della gente. I panteschi capirono. Alla fine mi applaudirono, venne il gestore dell'Agadir a darmi la mano perché rovinato dai villaggi costruiti sulla perimetrale.
Mi spiegarono anche della lotta dei camionisti di anni prima contro le alte tariffe del traghetto di Trapani.
Con l'entusiasmo dei compagni si risalì in sezione in venti a fare la riunione che erano le sette di sera. Anche il nostro comune amico salì e si avvicinò al segretario che era un suo dipendente nell'impresa. Si parlò delle coste e del preventivo di settemila vani presentato dagli architetti per gli insediamenti turistici.
Il comune amico era un geometra apparentato con una grossa famiglia locale, aveva fatto con certi aiuti un'impresa di costruzione che teneva tanti dipendenti, fabbricando e progettando ville e villaggi, ora anche in Libia, per conto della Investiment Company che puntava nel piano regolatore a edificare con la Valtur oltre trecento ettari di costa.
Per questo spese in quella strana riunione senza interventi per gli anziani qualche rabbiosa invettiva contro l'idea dei campeggi, prendendosela con certi straccioni che d'estate si accampano sparsi in mezzo allo zibibbo rubandolo ai contadini. Mossa da esperto, ma non troppo. Saro parlò dello scempio della costa e del puttanesimo di certe turiste ricche che avrebbero trasformato la mentalità della gente fino a darla in pasto come trecento anni fa alle incursioni piratesche e straniere.
Peppino e qualche altro stette muto e attese il mio intervento, prima di pronunziarsi.
Ma già il comune amico se ne era andato. Arrivò, dietro le cose dette al comizio, qualcuno a propormi un incontro nel negozio di stoffe di un compagno col progettista del Comune, purché restasse un fatto riservato.
Ci andai. Cercò di spiegare che il progetto era il migliore possibile, seminando ad arte di qualche allusiva amicizia col deputato originario dell'isola, nascosto dietro spessi occhiali di tartaruga con un accento romanesco rabbonevole. Ma i gruppi, anche se accortamente non ne parlò, ci stavano e ci stavano tutti, con certe macchie arancio sparse sui lati del tracciato della perimetrale. Ringraziai e salutai affrettatamente.
Le sere pantesche sono umide che non conviene starsene fuori.
Le pietre chiare del molo sono bagnate ad ogni dopo tramonto anche col pelo dell'acqua più immobile.
Erano le undici quando lasciai con Saro il ristorante.
- Vieni a fare un giro dei circoli?
Non ne sapevo nulla dei balli sabatini e mi ci trovai in mezzo per qualche quarto d'ora frastornato, nei veloci passaggi delle fisarmoniche, al suono di mazurche e tarantelle, che parevano disotterramento notturno fatto in gran segreto, dopo la lunga sciroccata del giorno.
Dormii male.
Ebbi l'affanno della tosse dell'umidità, sputai a lungo.
Provai, che erano le tre, a leggere con due cuscini alle spalle, a letto. Mi stancai e provai ad ammazzare il tempo guardando dal balcone le finestre illuminate delle case attorno al porto.
Altre sei erano illuminate e mi incuriosii a cercare di scoprire quello che si vedeva. Qualcuna si affacciò dall'albergo di fronte che si distinse per la camicia bianca, poi rientrò in gran fretta, quando si vide scoperta.
Il vento era leggero, ma persisteva a fare scempio dei cespugli e delle piantine dei vasi, in questa terra senza alberi forse più per la povertà della sua gente che per il vento che la sconvolge.
Chissà ancora quanti altri pirati e corsari ancora, quanti balli notturni.
Il tempo di questa gente è come questo scirocco, cadenzato e senza pause lunghe, come le storie altrui senza interesse per il protocollo.
Si vedeva il nero castello di barbacane illuminato, dove un tempo erano attaccati stemmi e decorazioni, vicino al palazzo podestarile, ritratto ora in una giornata di saggio ginnico del sedicesimo dell'era, esposto in tutti gli alberghi e i bar del porto, come se fossimo in un posto dove alle pesanti inadempienze lo stato continentale sopperisce con la tolleranza verso ricostruzioni nostalgiche, ormai innocuo folclore di una terra dove ancora i comunisti tengono la segretezza della fede come se fossero confinati politici del vecchio regime.
Erano le sei e scesi giù in silenzio che era ancora buio.
Trovai un bar del porto affollato di vecchi, qualcuno cotto di vino, che dicevano peste e corna del commerciante di capperi.
Presi il caffè avvolto nel vecchio loden e mi confusi fra le sedie, per ammazzare l'attesa dell'alba.
- Che fa, stamattina riparte? fortuna che lo scirocco si è mantenuto leggero. Il traghetto sta attraccando.
Era il gestore dell'Agadir.
- In certi periodi il maltempo ha bloccato il passeggero anche per dieci giorni. Deve sapere che un mese fa il mezzo proveniente da Trapani è rimasto fermo al largo per tre giorni e una decina di sub hanno assicurato gli alimenti a nuoto per i bambini.
- Questa è una terra che non ha nulla di buono, non ci venga più che la sua intelligenza è sprecata. Per vincere ci vuole che lei abbia gli altri col coraggio. E lo vede infatti chi comanda? Chi viene da fuori col coraggio.
Il sole spuntò e la prima famiglia con le valigie mise piede sul molo.
Partii alle dieci.
C'era l'architetto romano con gli occhiali di tartaruga, che mi avvicinò e tentò di spiegarmi che il progetto era un compromesso fra le sue idee e le direttive del sindaco.
Nel frattempo un tizio alto e grosso lo avvicinò con una mano sulla spalla, prendendoselo in disparte.
Più tardi ci incontrammo in coperta e quasi senza parole, con un sorriso patetico e le lenti appannate mi fece:
- In fondo, che vuole? siamo solo tecnici... ma mi dica la verità, è riuscito a trovarla una di quelle più disponibili? A Scauri pare ci siamo tre ventenni orfane fresche che sono la fine del mondo.
A distanza si vide la costa siciliana, poi lentamente le sagome di Marsala e le mie colline interne.
E io ero già pronto a ripartire.


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