Pino Ingardia







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"Solamente un giorno d'Estate" di Pino Ingardia

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Parte 11


Dopo giornate d'accarpo, nelle serate afose, ci si riversa sotto i lampioni sonnecchianti della piazza, fra i bagliori sordi dei neon invasi di moscerini.
Il fresco scuro della notte si riempie di profumi di gelsomini e attraversa le strade e i cortili. Il paradiso dei giardini a fiori si dilata.
Intorno al monumento si attardano i vecchi rimasti, a parlare di guerre e di pensioni, altri siedono pigri in silenzio a gruppo sui sedili verdi a tirare toscani pensando quanto sono calcolati in casa dei figli.
La marea degli studenti, schiffarati, invade i tavolini dei bar, ragazze di porcellana un tempo adorate a cinema, sembravano diventate tutte uguali.
Poco distante giocatori di carte di mestiere e maestri di scuola invadono con le poltrone il davanti porta del circolo, a godersi la penombra frescosa come le famiglie del Bordino, che spalancano i portoni ad arco delle carretterie e mangiano col sereno insalate di pomidoro condite del vino guasto dell'anno passato.
La curiosità di tutti gli approcci, fatta di mezzi silenzi e frasi a metà è un tendone in ginocchio, cinquemila piedi di vigna atterrati a qualche mese dal raccolto.
- E tu a chi pensi? - mi fa Nino in mezzo agli altri, disteso nella sua poltrona di pelle.
- Non si sappia mai niente - gli rispondono dal fondo dell'ingresso - come niente si sa dei due pecorai ammazzati l'altro mese al feudo. Ogni tanto un po' di confino, che è come fumo negli occhi, e la ruota gira.
- Dicono che rispetto al patrimonio acquistato negli ultimi anni è come se gli hanno preso un paio di scarpe vecchie.
- E se fosse stato un incidente dello stesso trattore? Voi lo sapete quanta la sanno lunga i braccianti quando devono mascherare i loro danni.
- Comunque è certo che stanno giocando una partita pericolosa. Quanto vi giocate che fra qualche mese massimo ci sarà il morto?
- Ma non si può escludere che troverà l'intesa, in fatto di traffici, e di terre, anzi di parecchiate intere... con gli appoggi che ha.
- Poi magari se la pigliano con la gente semplice con la storia dell'omertà.
Poi con Nino decidiamo di alzarci per una passeggiata fuoripaese, e mi fa:
- Due notti fa ho fatto un sogno che mi porto appresso come una cosa fatta. Sognavo che in mezzo a una fila lunga di uomini si presentava Enrichetta e mi veniva a scegliere. Mia moglie non c'era e nemmeno un filo di traccia nella mia memoria.
Enrichetta mi presentava al suo bel mondo e mi sposava di colpo, fra champagne e sorrisi, senza manco lasciarmi dire una parola, manco il sì. Poi d'improvviso ci ritrovavamo in una grande locale pieno di lustrini e colori, gente felice, musica, a Parigi, e lei mi lasciava in un angolo come una stearina spenta, col vestito fresco della cerimonia, e se ne andava a ballare sola, con la sua schiumosa chioma bionda, tacchi alti e gonna svolazzante a esibire cosce lunghe di cavalla normanna.
- Ma lo sai chi siamo noi? - si fa - gente che vivrà eternamente per gli altri. Mi diceva che mi sposava perché conoscevo la storia del suo casato, parlavo bene l'italiano con una quasi laurea e un posto per comparire in società. E anche nel sogno calavo la testa e mi mostravo contento, come sempre.
- Mio padre ha speso una esistenza con la cristiana a distruggersi la vista e la salute a forza di cucire, per me. Mi parlavano di una vita seria ma piena di rose e di carriere folgoranti. Poi un matrimonio pieno di sogno e di speranze, la mia passione ingenua per le storie contadine, il museo etnografico, le carte di don Pietro...
Lo ascolto senza guardarlo, e lo seguo senza interromperlo.
- Lo capisci quanto vale la nostra esistenza?
Arriva uno qualsiasi senza manco conoscerti, e se sbagli un millimetro ti stende, su ordinazione. Stava accadendo anche a te al tempo della lotta per le case, quando vi siete messi a fare riunioni di caseggiato, a fare nomi, a parlare di speculazione sulle aree edificabili... Una volta sognavo di scappare, ora sogno rimuovendo le cose dei miei quindici anni, mentre Enrichetta è già madre di figli...
- Ci fu un giorno, solamente un giorno d'estate
- vado biascicando mentre la lunapiena allampa gli ulivi -, per queste quattro rocche di paese, per la loro libertà. Me lo disse mio nonno prima di morire.
Tutti i vecchi ogni tanto lo ricordano e diventano bambini, carichi d'orgoglio e di vita quando ne parlano a solo, come Peppe Quagliata.
Le terre interne erano piene di bandiere e di guardie rosse e per un lungo giorno l'agraria sembrò cedere. Erano un corpo solo, una marea potente più forte delle balate della piana. Poi partirono le prime fucilate infami, a tradimento, sui capi, e la marea si sciolse come neve al sole. Una marea che tutti ricordano, anche quelli, i loro figli, che ne dovevano essere travolti, che s'appattarono nel pericolo imminente e seppero fare un lavoro che solo i vastasi e i potenti potevano pensare e fare... Ora quel giorno è lontano, ma non credo abbastanza per dimenticare...
Giungiamo sul punto più alto della salita ai piedi del colle, dove si domina l'ammasso delle case, e nel fondo, sotto la scarpata, il mare scintillante in controluce, oltre la piana a vigne.
E così restiamo in silenzio a guardare la torre dei Fardella, col baglio illuminato a festa, circondato di spalliere e tendoni rigogliosi, e più in fondo, lontano verso l'interno, colline scure puntellate di minuscole punte di luce respirare nel silenzio il profumo della notte, interrotto appena dal concerto sordo delle cicale, con quel frinire senza sosta, lento, che ci vince a cancellare i pensieri, continuo e rimbombante, disegnando lineamenti e immagini contorte nel paesaggio mostruoso della piana.


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