Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

L'odore della cera - di Giovanni Cammareri


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IL CAVALIERE E LA DAMA - Monitor n° 34 - 28 ottobre 2005


Pupe di zucchero (N. Capizzi)

Dolcetto o scherzetto? A intimarlo non sono più soltanto i bimbi americani che prima erano stati celti, scozzesi e irlandesi. La cultura globalizzata sta generando davvero una preoccupante uniformità delle forme espressive festive, grazie soprattutto alla sfrontata prontezza di quanti alimentano ciò che la notte di Halloween suggerirebbe a una immediata e superficiale decodificazione: una carnevalata fuori tempo.
Sembrano proprio distanti anni luce i ricordi legati a quella notte magica dispensatrice di paure e regali, quale era invece la vigilia dei morti. Che in fondo era la stessa cosa, la stessa speranza, il medesimo desiderio dei vivi di ogni tempo e luo'go, lungo i sentieri del mito fino ai valori della fede.
Esigenza che i vivi hanno da sempre avvertito, questa di ricondurre i morti in vita, un modo come un altro al fine di assicurarsi finanche un migliore passaggio nell'aldilà.
Oggi tutto sembra tristemente mutare in semplice apparenza. Le maestrine siciliane vestono di carnevale gli scolaretti e loro colgono ben volentieri la ghiotta occasione di una mascherata estemporanea, apparentemente vuota di ogni valore e significato.
Non biasimo quindi l'usanza, è solo che non ci appartiene, è solo che in un niente le maestrine hanno deciso di mettere da parte la nostra bella festa dei morti con il suo profumo inconfondibile della martorana, con i lustrini e le piume delle ballerine e dei cavalieri di zucchero scintillanti nelle vetrine;
con la sua interminabile attesa per poterlo finalmente avere quel benedetto trenino elettrico, o le costruzioni di legno, il pallone o un cavallo a dondolo.
Erano i morti a portarceli: qualche zio mai conosciuto, qualcuno dei nonni che se n'era andato.
Di noi, piccoli e ingenui, mai si scordavano, pronti a mostrarcelo ancora il loro inesauribile affetto, da quell'eternità tanto remota e astratta che a noi non poteva mai riguardare: in quegli anni eravamo immortali.
Loro rappresentavano l'altro mondo, noi ne coglievamo una vaga essenza che sapeva di buio e di festa, in uno strano legame dettato da felicità e gratitudine per il dono desiderato e ottenuto.
La notte della vigilia ci avvolgeva perciò nel batticuore dell'attesa e in un palpabile senso di paura.
I grandi ci consigliavano di dormire. Ma l'unica notte dell'anno in cui avvertivamo i sintomi dell'insonnia era lunga.
Poco sapevamo allora dei celti i quali credevano anch'essi che una volta l'anno i morti erano soliti tornare sulla terra.
Sebbene per loro ciò avvenisse appena una notte prima, fra l'ultima di ottobre e la prima di novembre. Festeggiavano, propiziavano, se si preferisce, il nuovo anno agricolo recandosi nei cimiteri. E tra canti e preghiere aspettavano di mescolarsi a loro, ai morti, in una straordinaria comunione dalla quale scaturiva una confusione tale da rigenerare il cosmo.
Nella vicina Irlanda era - ed è ancora in uso - recarsi nei cimiteri portando lumini, ancor prima che i bambini travestiti da fantasmi o da scheletri cominciassero a recitare inconsapevolmente la parte dei morti ritornati tra i vivi e per questo bisognosi di qualche regalo, una specie di carezza sotto forma di un pasticcino, una caramella, un cioccolattino.
Dolcetto o scherzetto? Che il flusso migratorio alla volta delle americhe condusse dall'altra parte dell'oceano, assieme alle zucche svuotate e trasformate perciò in teste dall'aspetto mostruoso. Continuarono ad esporle ai balconi, sui davanzali delle finestre, agli angoli delle vie, sempre illuminate all'interno da una candela e sempre a simboleggiare l'arrivo dei morti. Le zucche, del resto, fin dall'antichità vennero considerate fra i simboli della resurrezione.
Ma l'esigenza di volere ricondurre a tutti i costi i morti in vita non ha tempo, si diceva.
Proprio nel mese di Antesterione, corrispondente all'attuale novembre, gli ateniesi davano vita a una cerimonia di antichissime origini chiamata Chitri, dal nome delle pentole utilizzate per cuocere le fave che in memoria dei trapassati venivano poi offerte a Bacco ed Ermes.
L'usanza era legata a Deucalione. Avendo egli avuto notizia che Zeus servendosi di un diluvio si accingeva a liberare il mondo dalla corruzione, oltre a costruire un'arca (esattamente come Noé), pensò di istituire la cerimonia al fine di placare gli spiriti degli annegati, offrendo ad essi, simbolicamente, fave lessate. Per questo gli antichi greci credevano che le anime dei defunti risiedessero nei baccelli delle leguminose. Da qui, la cosiddetta sera delle povere anime del primo di novembre, in Veneto. Si favoleggiava che in quelle ore i morti sarebbero tornati. Apposta per loro venivano perciò preparate alcune pietanze a base di zucca marina, castagne e... fave, il dolcetto inventato da Deucalione cioè, da sistemarsi sul canterano di una camera della casa dove l'atteso pellegrino aveva trascorso i suoi giorni da vivo.
I suoi familiari cenavano nel frattempo con polenta cotta in una minestrina di fagioli molto diluita, sempre per l'antica credenza legata ai baccelli come luogo dove si annidavano le anime. La cena diventava un momento magico, straordinario, in cui veniva a realizzarsi una forma di comunione simbiotica e rigeneratrice fra i commensali e i loro cari defunti. Come per gli ateniesi, i celti, gli irlandesi e i bimbi siciliani di una volta. Come nella notte di Halloweeen degli americani; se si preferisce degli anglosassoni in genere, che il fenomeno di appiattimento culturale ha riverberato un pò ovunque.
Insomma, ciò che abbiamo perduto è l'identità nella forma. Noi siciliani in particolare, depositari di quella forse più gioiosa, stiamo ora pagando il pedaggio più pesante.
La sostanza, il senso, i contenuti rimarrebbero sempre quelli, sempre gli stessi, di sicuro ancor prima che Deucalione pensasse ai guai della sua gente.
Ma tutto questo - rassegnati nel vedere i nostri bambini coinvolti a inscenare Halloween - voi maestrine siciliane almeno lo raccontate ai vostri scolaretti? E se provaste a ritornare in Sicilia?


Martorana (N. Capizzi)




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