Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

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LA RIVOLTA CONTRO I «CUTRARA»
(Castellammare del Golfo, 1/3 gennaio 1862)



9. Stratigrafia sociale della rivolta


Non ostante la reticenza delle fonti coeve, che lasciano in ombra i retro scena dei fatti, o che forniscono versioni tendenziose e poco veritiere, non ci è difficile precisare alcune resultanze storiche sulla base di un minuzioso esame di particolari e circostanze solo in appa­renza trascurabili. Destrutturare i fatti, per dir cosi, interstiziali, compararli e integrarli, ci è sembrato il metodo piu opportuno (e il solo possibile data la natura disomogenea delle stesse fonti) onde poter assumere un giudizio scevro di municipalismo o agio grafico risorgi­mentalismo. Tale giudizio implica un esame delle componenti sociali della rivolta, oltre che delle cause piu o meno lontane, già poste in luce nel capitolo dedicato alla controversia per i demani e alle speculazioni sulla terra che si preparavano con le proposte e iniziative pseudo riformistiche riguardanti la forzosa immissione sul mercato fondiario del patrimonio ecclesiastico. Però la difficoltà maggiore della ricostru­zione storica consiste nell'individuare e definire la genesi di un feno­meno per molti aspetti atipico, quale è quello della mafiosità e delle mafie, considerate non tanto nelle dinamiche specifiche dei loro com­portamenti, quanto piuttosto nelle funzioni sociali da esse assunte nel contesto della comunità locale, dove in quel momento si agitavano confuse e laceranti tensioni.
Ci soffermeremo ora su tre punti essenziali della querelle storio­grafica che la rivolta di Castellammare legittimamente solleva di fronte al nostro desiderio di conoscere uno dei «momenti» piu aspri del difficile processo d'integrazione nel sistema unitario. 1) Anzitutto è da chiarire se ci fu nel moto di protesta una finalità programmatica atta a qualificarlo in senso politico. Le accuse mosse dal gruppo dirigente locale contro la «fazione borbonica», ritenuta come la vera ispiratrice della violenta reazione popolare, ricalcavano, forse, preoccupazioni di ordine generale per il recente assetto unitario; ma era poi da dimostrare se potessero sussistere le condizioni di una contrapposizione a livello ideologico-politico tra le due fazioni municipali in campo, date le circostanze create dal rapporto piu o meno organico degl'interessi borghesi, comuni ad entrambe le fazioni e costituenti la base del nuovo blocco agrario. 2) Quanto alla struttura della folla in tumulto, bisogna tener conto del fatto che al movente immediato della reazione contro la leva si collegarono presto eterogenee istanze provocate dal malessere economico e dall'odio contro il gruppo dominante locale. Riscontrare, quindi, il ceto sociale che ne costitui le componenti può indicarci la qualità dei partecipanti e, insieme, gli obiettivi della folla che, dopo gli eccidi e i saccheggi, manifestò il proposito di ritornare nell'alveo di una certa gerarchia dei poteri. La sommossa spontanea e acefala superava cosi la fase iniziale dell'esplosione anarchica collettiva per essere ripor­tata in un certo ordine, regolato, però, dal prestigio personale di un uomo di rispetto, piuttosto che da una sia pur embrionale e fittizia struttura del consenso popolare. 3) Giova precisare, infine, il ruolo assunto nella rivolta dalla mafia (ovvero dagli esponenti piu in vista di essa), che le fonti coeve ci confermano almeno sotto forma di azione frenante nei confronti della massa e di patrocinio nei confronti dei galantuomini presi di mira dagl'insorti. Contro i cutrara (i quali frattanto avevano rivelato con vistosi atti di prevaricazione e di accaparramento la strumentalizzazione che del moto risorgimentale era stata attuata ai fini del profitto personale) si trovarono uniti in un fronte della protesta e del furore antiborghese i ceti sociali inferiori accanto ad elementi di una consistente fascia intermedia della società rurale, in cui entravano le categorie di non salariati, come i borgesi e i bottegai. A spingerli alla sommossa - ancor piu che il concetto di antiche rivendicazioni, di cui tuttavia rimaneva nel substrato psicologico delle masse come un sedimento informe e fluttuante di rancori non sopiti - furono motivi economici contingenti: le difficoltà del mercato agricolo, dopo altalenanti stagioni di crisi e di relativa ripresa, di epidemie col eriche e calamità naturali; l'aumento del carico fiscale che si minacciava da parte dei notabili per le ristrettezze finanziarie del Comune; la iattura, da molti rappresentata alle famiglie contadine, della chiamata dei giovani alle armi, con la conse­guente sottrazione di braccia valide al lavoro dei campi.
Di tutto ciò si dava la colpa ai cutrara, come a coloro che dete­nevano in modo esclusivo il potere locale, ma che erano anche garanti (e complici) di fronte alle masse del nuovo ordine costituzionale. Ma chi erano i cutrara? Con questo nome in particolare si indicarono a Castellammare quei notabili che, con l'avvento del nuovo regime, «cacciaronsi a dirittura nel nuovo arringo municipale, confortati da clientele di professione (avvocherie e simili) e da parentadi liberali»371.

371 «Diritto e Dovere», n. 6 dell'8 febbraio 1864. «Cutrara (da cutra, coperta), cioè i «coperti», i ricchi, gli speculatori» (cfr. G. CERRITO, Radica/ismo e socialismo, p. 37 nota 24). Identica chiosa fornisce Domenico Novacco: «I neo arricchiti furono detti dal popolo cutrara: cioè quelli che si erano divisa la cutra, cioè la coltre, ossia che, avendo già digerito i beni demaniali, si accingevano ad ingoiare i beni degli enti religiosi» (cfr. Inchiesta sulla mafia, p. 145).

Sei o sette famiglie in tutto (Asaro, Borruso, Calandra, Fundarò, Galante, Marcantonio, Zangara), che avevano in mano il paese. Il popolo non aveva mancato di appoggiare la loro iniziativa antiborbonica (come era avvenuto durante i moti dell'aprile 1860), ma ben presto si era dovuto convincere che, in fondo, la sciarra del '60 era stata fatta da costoro per la cutra del potere. Con la rivoluzione unitaria si era appunto creato nelle masse uno stato d'animo di attesa per nuovi eventi, che non ripetessero tuttavia l'esperienza negativa del passato, e perciò il popolo credeva di essere stato tradito dai cappeddi372.
È da supporre che in tali condizioni la propaganda repubblicana, come pure quella clericale e borbonica, potessero facilmente raggiungere gli strati inferiori della popolazione. Ma è possibile parlare di influenze repubblicane nella rivolta del '62 contro i cutrara? I documenti tacciono su questo punto. Si può forse accennare al fatto che deputato del collegio, in quel periodo, era Pasquale Calvi, nota figura del repubblicanesimo isolano, e, anzi, piuttosto vicino alle idee piu spinte di democrazia sociale373.

372 La poesia popolare siciliana si rese interprete di un sentimento largamente presente in quegli strati sociali dell'isola che si sentivano colpiti da un processo unitario dominato essenzialmente dagl'interessi della borghesia terriera. Nelle strofe di un canto dettato a Lionardo Vigo si fa carico, per es., ai cani grossi, ai galantuomini, di aver preso per sé soli i frutti dei cambiamenti politici intervenuti nel '48 e nel '60: Iu di tutti canusciu la mancanza: I cu' ha vinti tari vurissi 'n'unza, I ogni omu si nutrisci di spiranza I e assuppa, assuppa, megghiu di 'na sponza. I O quarantottu fu la contradanza, Ilu 'ncugna e scugna, lu conza e lu sconza; I Sigilia dissi: Arrisicu la panza; I quannu'si sburdi 'na cosa si conza. I A lu sissanta Sigilia chi accanza? I Li cani grossi mancinu la sponza (cfr. L VIGO, Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, Catania 1870-74, N. 5245). «Lu 'ncugna e scugna, lu conza e lu sconza» sono comandi della contradanza. «Qui significa che alcuni fecero guadagni illeciti e altri subirono perdite immeritate» (cfr. A. UCCELLO, Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, Firenze 1961, p. 262). Un richiamo alla tradizione popolare è forse nella novella di Giovanni Verga Il Reverendo («i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare»; cfr. G. VERGA, Tutte le novelle, a cura di L. e V. Perroni, Milano 1940, I, p. 261).
373 Pasquale Calvi (originario di Messina, dove nacque il13 febbraio 1794) era stato ad Alcamo per qualche tempo come vice-segretario d'Intendenza; ma aveva dovuto subire una lunga relegazione a Favignana (al forte S. Giacomo) e alla Colombaia di Trapani perché implicato nel processo per i moti scoppiati nel '20 in quel circondario. Scarcerato nel '25, s'impegnò attivamente nell'opposizione al regime borbonico, militando nelle file democra­tiche. Deputato al Parlamento siciliano del '48 (con l'incarico di ministro dell'interno e della sicurezza pubblica nel governo provvisorio), e poi esule a Malta, fu nominato nel 1860 dal governo dittatoriale Presidente della Suprema Corte di Giustizia in Palermo (e in seguito chiamato a presiedere la Corte di Cassazione in Firenze). Non ostante la sua prestigiosa carica, fu sorvegliato dalla polizia italiana nei suoi movimenti per le idee democratico-re­pubblicane che professava (v. in ASP, Pref, Gab., Atti del Governo Luogot., b. 1860-61). Nel 1861 fu eletto alla Camera dei Deputati (leg. VIII) per il collegio di Alcamo/Partinico/Ca­stellammare, dove si oppose al candidato moderato, che era sostenuto dai Triolo di Sant'Anna (v. 1848-1897. Indice generale degli Atti Parlamentari. Storia dei Collegi eletto­rali, Roma 1898, p. 482). Mori a Castellammare il 20 settembre 1867 (v. in AST, Registro degli atti di morte, 1867, vol. 47, N. 228). Su Pasquale Calvi, v. il profilo di G. SCICHILONE, P. C. , in Dizionario Biografico degli Italiani, 17, Roma 1974, pp. 23-26. Per la sua biografia politica, v. pure G. NICOTRI, P. C. e il Risorgimento siciliano, Palermo 1914; c. GUARNOTI A, P.c. nel Risorgimento siciliano, in «La Sicilia nel Risorgimento», Palermo, a.I (1931), fase. 2 (luglio-dicembre), pp. 9-62; M. GAUDIOSO, Nel centenario della morte di P.c. La polemica quarantottesca in Sicilia, in «Movimento operaio e socialista», Genova, XIV (1968), 1-2, pp. 25-54. La costante evoluzione delle sue idee dal repubblicanesimo al democraticismo sociale è documentata dagli studi piu recenti (v. s. F. ROMANO, Momenti del Risorgimento in Sicilia, pp. 96-101, 175-76; G. BERTI, I democratici e l'iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, pp. 334-45; R. COMPOSTO, Conservatorismo e fermenti sociali, pp. 20-22), che hanno collocato il Calvi tra le figure piu vive del quadro risorgimentale.

Calvi risiedeva con la sua famiglia per alcuni mesi dell'anno nelle campagne dell'agro castellammarese, e perciò si può pensare che abbia potuto intrecciare contatti e mutuazioni ideologiche con i paesani. Il grido di «viva la repubblica» può essere partito da qualche suo adepto mescolatosi tra gl'insorti374. Non si hanno, però, notizie precise sulla penetrazione della propaganda repubblicana nel circondario alcamese375.
Comunque gli amici del Calvi nel paese non erano pochi se (come testimonia Calandra), allorché si minacciò da parte di alcuni rivolto si l'assalto alla sua casa, numerose persone scongiurarono con la loro presenza una tale minaccia: «La stessa mattina del giorno due, avendo i borbonici seminato l'odio contro il dottor Pasquale Calvi, come parlamentario, ed uno degli autori della leva, ne cercarono la moglie, che trovavasi al piano delle Vignazze, fondo rustico di sua proprietà; e se non era per l'opra di tal uno che dissuadeva gli assassini, chi sa qual trista sorte era preparata alla signora Calvi; volevano anche bruciargli il magazzino di vino, che non fecero perché guardato da molte persone»376.

374 Calandra pensava invece che il grido fosse stato manifestato ad arte dai borbonici per ingannare sulle loro vere intenzioni: «Non s'intese però un evviva al borbone, ciò prova che i reazionari, seminando l'odio contro il governo italiano, non potevano dir parola in vantaggio della caduta dinastia, ben conoscendo quant'è profondo l'odio siciliano contro la borbonica stirpe; < ... > e quel grido di viva la repubblica, suggerito ad arte dai borbonici, si traduceva ben presto in quello di viva Francesco II se la ribellione si accendeva negli altri paesi ov'era estesa la trama, e trionfava» (cfr. G. CALANDRA, I casi, p. 35).
375 Soltanto nel capoluogo della provincia venne allora segnalata alle autorità la presenza di un vivace raggruppamento repubblicano. «La fazione repubblicana - scriveva il prefetto Lanza al generale Pettinengo - benché sparuta tiene a sua discrezione il paese. S'è costituita in potere ed impone «...» la forza morale dell'autorità è già distrutta; bisogna rimetterla». E aggiungeva: «Tutti questi eccessi, nuovi in questo paese, sono suscitati di recente, da eccitatori, e propagandisti, che girano in continuazione» (rapporto del pref. di Trapani del 26 settembre 1861, in ASP, Pref. Gab., 1861-62, b.2, fase. 8). Il comitato repubblicano era diretto, a Trapani, dal barone Bartolomeo Riccio di S. Gioacchino, che teneva corrispondenza con Saverio Friscia (lettere di S. Friscia a B. Riccio, 7, Il settembre 1861, in Carte Riccio di S. Gioacchino, presso l'autore).
376 Cfr. G. CAlANDRA, I casi, p. 36. Per procura del dr. Calvi, che si trovava a quel tempo alla Valletta, la moglie Donna Rosaria Pilara fu Benedetto firmò un contratto colonico coi fratelli Vito e Michele Ditta, contadini, per la coltura del «latifondo vignato» di Piano delle Vignazze. L'annuo estaglio fu fissato in onze 51 e tari 26, oltre a 29 barili di vino e al corrispettivo di due onze, 1O tari e lO grana di minestre (atto del 16 ottobre 1859 in noto Vincenzo Galante: AST, 1046, ff. 257r-259v)

La partecipazione dei filoborbonici al movimento sembra piu probabile; ma i Di Blasi e i Sangiorgio non vi esercitarono un vero ruolo dirigente, limitandosi a manifestare in vari modi la loro solidarietà con gl'insorti. Non ostante le frequenti denunce dei liberali contro il notaio Di Blasi, indicato fin dal dicembre 1861 come il capo di una temuta «cospirazione reazionaria», nessuna precisa testimonianza poté essere portata al processo che provasse un rapporto piti o meno organico della parte borbonica coi popolani in armi. Mancò dunque una prospettiva politica impemiata sulla componente legittimista. E anche prima l'antagonismo tra liberali e filoborbonici non si era mai rivelato, nel furore della controversia familiare, con fondamento di premesse ideologiche e chiarezza di fini. Specie la fazione capeggiata da Di Blasi aveva preferito per lo piti sottrarsi allo scontro politico, o mimetizzarsi. (Giova ricordare che, al momento del plebiscito dell'ottobre 1860, la medesima fazione aveva già rinunziato ad opporsi allo Stato unitario, se nessuno dei filoborbonici credette allora di votare contro l'annessione377; a meno che non sia avvenuto ciò di cui lamentavasi don Ciccio Tumeo col principe Salina, che cioè i liberali del municipio abbiano inghiottito l'opinione di quelli e, masticatala, l'abbiano cacata via trasformata come volevano loro378.) Inoltre, l'ambiguo atteggiamento del notaio Di Blasi deve essere considerato in relazione agli appoggi su cui egli poté sempre contare negli stessi ambienti delliberalismo, piti o meno influenzati dalla mafia. Già nel '48, Gioacchino Ferrantelli lo aveva sottratto alla violenta reazione popolare, dopo l'uccisione di un componente del Consiglio civico. Nel clima di rappresaglie seguito allo sbarco garibaldino, l'intervento in suo favore del barone Stefano Sant'Anna (capo di una squadra di picciotti nell'aprile/maggio 1860) era venuto a sanzionare un legame che probabilmente esisteva da tempo379.

377 Il risultato del plebiscito del 21 ottobre 1860 in Castellammare, comunicato due giorni dopo dal presidente del Municipio, dava su 1411 votanti l'unanimità dei suffragi al si. Gli elettori iscritti erano 1565, ma una parte della «gente di mare» non poté votare perché assente dal paese (AST, Intendenza, b. 1860-61).
378 G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Milano 1958, p. 137.
379 Nel maggio 1860 Andrea Di Blasi riparò in Monte S. Giuliano e, di li, fece ritorno a Castellammare per la «protezione» del b.ne Stefano Sant'Anna di Alcamo (v. «Diritto e Dovere», n. 28 (25 luglio) e n. 31 (18 agosto) del '64; G. CALANDRA, I casi, p. 19). Si è ricordato un episodio di pressione «mafiosa» di cui si rese autore Stefano Sant'Anna, mentre era governatore ad Alcamo. Egli fece intervenire alcuni individui armati per intimidire un funzionario, inviato dal governo prodittatoriale a presiedere le operazioni per il plebiscito in quel circondario, ritenendo di non dover subire intromissioni esterne nella sua amministrazione. V. F. BRANCATO, Genesi e psicologia della mafia, in «Nuovi quaderni del meridione», a. II (1964), n. 5 (gennaio-marzo), pp. 12-14. Sui Triolo di Sant'Anna, che ebbero parte egemone nella vigilia rivoluzionaria alcamese (dal '48 al '60), e poi nel regolare la vita amministrativa locale nei primi anni dell'Unità, v. le Memorie biografiche alcamesi di F.M. MIRABELLA (Alcamo 1924, pp. 204-10). Notizie sull'attività politico-amministrativa dei Sant'Anna pure in T. PAPA, I fratelli Triolo di Sant'Anna, Alcamo 1961.

Infine, durante la repressione del moto del '62, la condotta acquiescente di alcuni notabili di parte liberale (e tra essi del delegato Fundarò) ne favorirà in pratica la fuga da Castellammare380
È difficile stabilire quanto della protezione cosi usata nei riguardi di Andrea Di Blasi appartenga a «quel sentimento comune a quasi tutti della classe dominante «...» di esercitare l'autorità privata», e provare la propria potenza, di cui parla Franchetti381, e quanto invece derivi da una rete di relazioni stabilite in virtu del ricorso alla violenza e all'autogiustizia mafiosa; ma è vero altresi che, come è stato osservato, al «tradizionale spirito di famiglia», e al costume locale di carattere eminentemente feudale, si veniva sostituendo nelle nuove condizioni create dal regime unitario l'atteggiamento di chi, rivendicando a sé ogni diritto di tutela, pretendeva d'imporre la minacciosa presenza della mafia nella vita del paese382.

380 G. CALANDRA, L'avvocato ed i parricida, p. 53. Si rilegga, come documento delle ambiguità e omertà che governavano i rapporti tra i notabili locali, la deposizione resa da Fundarò in tribunale per giustificare il suo comportamento nei riguardi del notaio Di Blasi: «Ha detto rammentare ch'egli stesso mandò ad invitare Di Blasi per recarsi insieme ad altri a bordo dei vapori. Qui domandato del motivo per cui abbia ciò fatto ha aggiunto ch'egli era in quel momento dubitante, come altri, se quei vapori fossero nazionali, overo spediti dall'ex-Re Francesco, siccome qualcuno facevasi ad annunziare per le strade, e perché riteneva opportuno essere molti in quella congiuntura. Ha detto ch'egli, per quanto ne rammenta, trovavasi nella stessa barca col Giudice e Di Blasi, ma non può assicurarlo con intiera certezza. Ha detto altresi aver saputo dal Sindaco Marcantonio, e dal Dr Calandra, risaliti dalla barca del Comandante del vapore sul bordo del medesimo avere eglino denunziato Di Blasi come capo della reazione. Ha detto ben pure che Di Blasi sospettato avendo degli andamenti· di Marcantonio e Calandra sul vapore si raccomandò al teste perché lo avesse voluto salvare «...». Ha detto inoltre che allora quando la folla, che lo conduceva, giunse innanzi la casa di Di Blasi, ed alquanto vi si trattenne, il Di Blasi lo raccomandò coi termini: picciotti vi lu raccumannu, è padri di famigghia, ed è statu galantomu, e lo accompagnò fino alla casa del suocero del teste medesimo» (cfr. in AST, Verbali d'Assise, 1864, vo1. 8: udienza dellO giugno). Le fonti non indicano il luogo in cui si rifugiò Di Blasi durante la lunga latitanza, dal 3 gennaio 1862 al giorno del suo rientro a Castellammare dopo la sentenza in appello che lo mandava assolto da ogni imputazione. Probabilmente Di Blasi si nascose ad Alcamo, dov'era frattanto rientrato l'ex direttore del ministero di grazia e giustizia nel governo borbonico di Sicilia, e antico suo protettore, Francesco Mistretta (morto alla fine dello stesso anno '62; v. in AST, Registro degli atti di morte del Comune di Alcamo, 1862, vo1. 55, N. 602 del 20 dicembre). Oppure in Monte S. Giuliano, nelle proprietà del cav. Coppola, il noto patriota che accorse tra i primi coi suoi picciotti a fianco di Garibaldi. (Sarà in seguito citata nel testo una lettera inviata il 13 luglio 1872 dal notaio Di Blasi allo stesso cav. Coppola, che chiarisce i retroscena della vicenda). È meno probabile che fosse trasmigrato all'estero, a Roma o a Malta, tra gli esuli borbonici. La fitta rete di complicità e protezioni da lui stabilita con gli ambienti liberali gli avrebbe consentito in tutti i casi di non correre eccessivi rischi restando in Sicilia.
381 L. FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative, p. 193.
382 F. BRANCATO, Genesi e psicologia della mafia, pp. 25-26. Lo stesso Brancato è tornato di recente sull'argomento nell'articolo su Mafia e formazione dello Stato unitario, in «Nuovi quaderni del meridione», a. XXI (1983), n. 81 (gennaio/marzo), pp. 3-27.

Divenne insomma evidente proprio nei giorni della rivolta come allo spirito feudale, che all'ombra della jacquerie contadina tentava nuovamente di farsi valere, ormai si contrapponesse la «copertura» mafiosa degl'interessi dell'alta borghesia. Sicché in quei giorni i mafiosi piu in vista del paese (come i Buffa e l'ex capo urbano Pietro Lombardo) assunsero, di fronte alla violenza degl'insorti, la difesa dei cutrara, adoperandosi per la loro incolumità. Don Pietro Lombardo, col prestigio che, in piu occasioni, aveva esercitato sul popolo, accettò di mettersi a capo dei rivoltosi a patto che cessasse ogni violenza contro i proprietari e le loro sostanze. La sua posizione di efficace mediatore e protettore, ammessa concordemente dai testimoni al processo383, ebbe cosi la sanzione della «lurida oclocrazia» che, in pratica, lo designò ad assolvere tali funzioni. Anche l'azione svolta dai Buffa per mettere in salvo il sindaco ed altri notabili del paese è ricordata da varie fonti384.

383 Accanto a Pietro Lombardo, si adoperarono in tale azione mediatrice e protettiva alcuni noti «guardaspalle» del paese, come Stefano Barone e Liborio Marracino, i campieri Gaspare Ganci e Francesco Ferrantelli, tal Buccellato, che li riforn{ di armi per fronteggiare i rivolto si. Si vedano le testimonianze in AST, Verbali d'Assise, giugno/agosto 1864, vol. 8; e inoltre «Diritto e Dovere», 25 giugno, 4 e 8 luglio 1864.
384 Il sindaco dr. Giuseppe Marcantonio, afferma Nicotri, «fu salvato per interces­sione di un certo Buffa, tenuto in considerazione dalla mafia del tempo, pel suo carattere leale e pel suo coraggio» (cfr. G. NICOTRI, Rivoluzioni e rivolte, p. 77). Secondo Calandra (l casi, p. 36), i fratelli Antonino e Camillo Buffa «si cooperarono energicamente e decisamente» per mettere in salvo, tra gli altri, il delegato Fundarò e i familiari del sacerdote Zangara. Il clan dei Buffa era costituito dai fratelli Damiano, Camillo, Antonino e Pietro, murifabbri, che figuravano tra i «sospetti ladri» in un elenco approntato sin dal settembre 1849 dalle autorità borboniche (v. Notamento di tutti gl'individui ... , in AST, FI, Polizia. Corrispondenza (1849-1853). Antonino Buffa era evaso nel '60 dal carcere di Favignana, dove si trovava per scontare una pesante condanna per furto; ma non era piu tornato al suo luogo di pena.

Quanto esteso fosse ormai il prestigio della mafia nella zona era pure denunziato dalla stampa locale. In una corrispondenza apparsa nell'ottobre del '64 sul «Diritto e Dovere», si riportava la genesi del triste fenomeno ai fatti avvenuti in Castellammare qualche anno prima, durante i quali avevano fatto la loro prova di forza i «manutengoli e i protettori». Da allora in poi erano cresciute le «mediazioni» della combriccola, «le garenzie offerte e gli attestati di buona condotta rilasciati in pro di parecchi camorristi che oggi trovansi condannati a' lavori forzati o a domicilio coatto, e le vigliaccherie dell'anno scorso per non fare arrestare anche i malviventi dalle truppe che da qui passarono»385. Il giornale, però, parlava ancora di camorra, pur inten­dendo esattamente un preciso modo di agire dai connotati mafiosi. Un anno dopo il termine mafia sarà usato dalla stessa stampa ad esprimere le forme particolari in cui si esplicava un certo fenomeno extralegale. Per es., «La Concordia», nell'estate del '65, ammoniva che «la pubblica sicurezza è nell'obbligo di far sorvegliare attentamente i pochi della Mafia, i quali in onta alle leggi ed alle guardie sono sempre muniti di armi insidiose»386.

385 «Diritto e Dovere», n. 38 dell' Il ottobre 1864. Autore della corrispondenza (non firmata) da Alcamo è probabilmente il sacerdote Sante Impellizzeri che trovo tra i soci corrispondenti della moderata Società del Plebiscito Italiano con sede a Trapani, della quale era organo ufficiale il «Diritto e Dovere». V. resoconto della seduta del 19 novembre 1863 in Atti della Società del Plebiscito Italiano (5 ottobre 1863/25 gennaio 1864) che si conservano mss. nella biblioteca Fardelliana di Trapani. Sante Impellizzeri è anche l'autore del citato Elogio funebre di un ufficiale caduto durante la repressione del moto del gennaio 1862. Su di lui, v. F.M. MIRABELLA, Memorie biografiche, pp. 121-22.
386 «La ConcordiID>, Trapani, Il settembre 1865 (a. I, n. 2). L'articolo è, quindi, di poco posteriore al noto rapporto indirizzato il 25 aprile 1865 dal prefetto di Palermo al ministro dell'interno, in cui per la prima volta comparve il termine suddetto (v. minuta in ASP, Pref, Gab., b. 8, cat. 35, riprodotta da P. ALATRI, Lotte politiche in Sicilia, pp. 92 sgg.).

C'è da dire che, se la presenza delle coalizioni mafiose era ancora ritenuta dalle autorità di governo e dalla stampa solo come un fenomeno di extralegalità criminogena, che non attraversava la struttura profonda della compagine sociale, fu invece pienamente riconosciuto a livello politico e statuale il peso che nella sommossa ebbero le fazioni municipali, addossando ad esse le responsabilità sia delle suggestioni che poterò no essere esercitate sulla massa dei rivoltosi, sia dell'accumularsi dei motivi di scontento e di protesta per il modo personalistico con cui era stata condotta nel paese la lotta per il potere. Qualche tempo dopo, nell'estate del '63, il maggiore Torre fu incaricato dal generale Govone di condurre un'inchiesta retrospettiva sui fatti di Castellammare e sulle cause che li avevano provocati. Nel rapporto che, in poche linee, riassumeva i risultati di quella inchiesta non si accennava alle istanze sociali vagheggiate dai popolani, né, tanto meno, alle pressioni e mediazioni della mafia; ma il quadro che si disegnava era quello di una comunità dilaniata dagli odii privati di alcune famiglie, senza distinguere tra le posizioni solo formalmente assunte (come si affermava) in nome delliberalismo unitario o del legittimi­smo filoborbonico387.

387 Federico Torre era maggiore nel 52° reggimento di fanteria durante il periodo in cui fu incaricato di riferire sulle cause che avevano provocato la sommossa di Castellammare. A tal proposito firmò due brevi rapporti, l'uno datato 4 dicembre 1862, l'altro 19 gennaio 1863 (v. in AST, Pref, Gab., b. 1, fase. 1). Il generale Govone, nelle sue memorie, ricordando la missione del maggiore Torre in Sicilia, cita qualche brano dei suoi rapporti (v. U. GOVONE, Il Generale Giuseppe Govone, p. 146). Su Federico Torre (1815-1892) v. A. MIELE, Il Generale F. T., in «Rassegna storica del Risorgimento ita1iano), a XIX (1923), p. 843 e sgg.

La testimonianza dell'ufficiale sabaudo confer­mava l'analisi spregiudicata che delle condizioni del paese aveva già fatto il capitano Almeida, venuto a ripristinare, nel '49, l'ordine bor­bonico. L'uno e l'altro ufficiale, pur diversamente ispirati, pervenivano a conclusioni sostanzialmente identiche, attingendo dall'impressione che il furioso insorgere degl'interessi di fazione e di clientela suscitava le stesse motivate considerazioni e quasi le stesse frasi. La ricostruzione dei Casi del '62, compiuta da Giuseppe Calandra con veemente spirito di rivalsa, non poteva ricevere piu autorevoli smentite: le fonti ufficiali avrebbero, quindi, confermato il comportamento oltremodo arrogante ed egoistico dei cutrara, rivelando le vere cause della sollevazione popolare, anche se poi non se ne volle pubblicamente tener conto per le ragioni di equilibrio istituzionale che, allora, governavano la politica della Destra. Fu invece montato un processo monstre contro la fazione borbonica e i suoi presunti rappre­sentanti, ormai, in verità, omologabili nei meccanismi del potere locale: ad es., Niccolò D'Anna, ritenuto tra i capi del «partito» dei legittimisti, sarà piu tardi sindaco del paese388. Si preferi perciò far risalire la causa principale della sommossa alla sobillazione di borbonici e clericali per diretta ispirazione delle centrali reazionarie di Roma e di Malta. La stessa esplosione del malcontento contro la leva rientrava, secondo le autorità, nel disegno concepito da queste frange estreme per sovvertire l'ordine pubblico.

388 Asce, «Stato degl'Individui componenti l'Amministrazione Comunale di Castel­lammare pell'anno 1866», in Deliberazioni del Consiglio, fase. 2.

Ma la composizione sociale della folla in tumulto, quale risulta dagli atti del processo istruito nei confronti dei 112 imputati di strage e sedizione armata, basta a rivelarci gli elementi vari e diversi della protesta, caratterizzata da spinte propulsive eterogenee, in parte dovute alla reazione immediata contro la coscrizione obbligatoria, in parte a istanze classiste, espresse da un confuso ribellismo antiborghese, privo comunque di motivazioni ideologiche sia pur mediate da in­fluenze convergenti delle opposizioni di destra e di sinistra (come si riscontrerà nel corso della rivoluzione palermitana del '66).
Dunque, la folla che tumultuò nei primi tre giorni del gennaio 1862 a Castellammare non pare che manifestasse propositi di riforma economica e politica. Le fonti processuali non ricordano alcun segnale in questo senso, se si eccettua l'identificazione di una presunta ispira­zione reazionaria del partito borbonico-clericale; ma potrebbero anche aver sottaciuto istanze e parole d'ordine di vago intento sociale (ad es., per la quotizzazione ai contadini dell'ex feudo di Scopello, cui pure si accenna nelle stesse fonti). È più sicuro che l'esplosione eversiva della massa si sia diretta esclusivamente contro un ordine di cose non piti tollerabile, sfuggendo a qualsiasi influsso di idee politiche che avessero potuto indirizzare - pur in ambito municipale e per rivendicazioni immediate - il sommovimento sociale verso un chiaro obiettivo di lotta. Ciò non toglie, però, che la spinta alla sommossa provocata da vecchi e nuovi risentimenti, sull'onda emozionale dell'odio contro la borghesia terriera, derivasse pure da refluenze sociali piti motivate, che qualcuno dei partecipanti riusci a concepire in chiave antigovernativa. (Non solo i filoborbonici, come Benedetto Palermo e Giovanni Sangiorgio, che si accostarono ai rivoltosi, ma anche alcuni popolani che si erano già distinti nei moti antiborbonici389). Nella folla anonima poterono rivelarsi, quindi, distinte fisionomie di ribelli, a riprova di un movimento socialmente composito, accomunato solo per i tempi della protesta dall'ostilità alla coscrizione militare.

389 Almeno tre dei partecipanti al moto dell'aprile 1860, diretto a Castellammare da D. Francesco Borruso, con l'intervento delle squadre di Giuseppe Coppola e dei baroni Triolo di Sant'Anna sopraggiunte da Monte S. Giuliano e da Alcamo, figurano tra gl'inqui­siti al processo del '64. Si tratta di giovani di età compresa fra i venti e i trent'anni: il mascàru Vincenzo Chiofalo di Antonino, il crivellatore Francesco Frazzitta di Girolamo e il carrettiere Nicolò Misuraca fu Vincenzo, oriundo di Cinisi. Nel rapporto del capo urbano Ferrantelli al giudice regio di Castellammare, già citato, che contiene i loro nomi, sono però indicati soltanto una trentina di quei partecipanti. È perciò probabile che tra i numerosi popolani che presero parte al moto antiborbonico ce ne fossero molti altri che sarebbero stati egualmente presenti nella rivolta del gennaio 1862.


FONTI: AST, Corte d'Assise, Verbali, vol. 8 (giugno/agosto 1864); Sentenze. vol.2 (n. 58 e n. 67 del 1864).


Dal Liber defunclorum della Matrice di Castellammare (AMC, vol. 1859/1865, die lerlia ianuarii 1862, ff. 80r-80v).


I due opuscoli del dr. Giuseppe Calandra dedicati, l'uno, ai fatti di Castellammare del '62 e, l'altro, alla contestazione della «memoria» difensiva prodotta a favore del notaio Di Blasi dall'avvocato Libario Simone.

Se si considera, intanto, l'età dei partecipanti alla rivolta, si ha una conferma della presenza piuttosto esigua dei renitenti e obbligati alla leva di quegli anni, rispetto alla massa delle persone anziane e fuori leva. La maggior parte dei 112 inquisiti apparteneva, infatti, a classi di età comprese fra i 30 e i 50 anni (il 56,4 per cento). I giovani con meno di trent'anni rappresentavano, in percentuale, il 34,6 per cento degli stessi inquisiti, di cui però solo il 14,3 per cento apparteneva alle classi di leva 1840-43. Si sa, del resto, che i giovani castellammaresi compresi nelle liste d'estrazione per la leva degli anni 1861 e 1862 erano in tutto 319 (sarebbero stati 153 quelli della leva del 1863)390.
390 AST, Leva dell'anno 1861 e classe dell'anno 1840. Lista d'estrazione, 1840, vol. lA; 1841, vol. l B; 1842, vol. l C; 1843, vol. ID.

Anche i loro parenti piti prossimi (genitori e fratelli) non figurano tra gl'inquisiti che in un rapporto assai modesto rispetto agli altri parteci­panti alla sommossa: come risulta da un riscontro fatto direttamente sui registri anagrafici del Comune. Ne consegue il carattere composito della folla in tumulto, calcolata dalle fonti ufficiali in un migliaio di persone. (Il campione dei 112 inquisiti, di cui si conoscono età e condizione sociale, si deve perciò considerare abbastanza rappresentativo dell'insieme dei rivoltosi). Bisogna anche supporre che, per lo piti, i 613 testimoni a discolpa, e qualcuno di quelli chiamati a comprovare responsabilità degl'imputati al processo, presero parte in qualche modo all'evento ribellistico. Comunque, la loro età, e l'appartenenza alle diverse categorie e classi sociali (esattamente rilevabili dagli elenchi annessi ai Verbali d'Assise), non modificano sostanzialmente il com­puto percentuale che si è riscontrato per i soli inquisiti.
Come tipologia di base, la classe contadina nelle sue stratificazio­ni è la piti rappresentata (67,851100); ma se vogliamo analizzare le sue componenti interne, notiamo che i villici (braccianti, censuari e terrag­gieri) costituiscono i due/terzi del totale delle classi agricole, ivi comprese la categoria degli addetti alla custodia di mandre e greggi (19,7/100) e quella dei borgesi (10,6/l00). Questi ultimi, di solito, rientrano nel ceto medio dei massari/proprietari, o anche dei gabelloti. È però difficile' distinguere la loro condizione, genericamente assunta come quella di «contadini», se proprietari di qualche frusto di terra, oppure di «borgesi», se conduttori di aziende in cui si richiede il lavoro salariato di braccianti o la colonia di affittuari. Uno solo degl'inquisiti viene espressamente indicato come campiere. Tuttavia qualcuno dei borgesi (Ganci e Ferrantelli, per esempio)391 e dei villici esercitava di sicuro funzioni di guardiania. Tra i civili sono compresi quei residuati della fazione borbonica contro cui viene montato il processo, ma che, prima o poi, saranno un po' tutti scagionati da ogni accusa, o rimessi in libertà dalla grazia sovrana (e molti altri erano già stati prosciolti in istruttoria).

391 Gaspare Ganci era stato incaricato, dieci anni prima, da alcuni proprietari di custodire i loro fondi agricoli ai Fraginesi (v. nota 87 infra). Francesco Ferrantelli (sona ca ti pagu) dichiarò al processo che, durante la sommossa, «fu in arme perché uso a portare sempre il fucile in qualità di campiere» (v. «Diritto e Dovere», n. 25 del 4 luglio 1864).

La presenza di un numero consistente di artigiani e operai, insieme a qualche trafficante, comprova il carattere composito della sommossa. Vi sono rappresentati i mestieri piu strettamente collegati con le attività agricole (bardai, calcarari, crivellatori, saccalori, tessitrici), nonché l'artigianato tradizionale di paese (falegnami, sarti, murifabbri, panettieri, calzolai, ferrai). Questa componente sociale (15,2/l00), che deve essere considerata unitamente al ceto dei bottegai e carrettieri (3,6 per cento) per non appartenersi al rango dei semplici salariati, partecipò in modo cosi attivo alla violenza di massa (dodici di loro ebbero pesanti condanne ai lavori forzati) perchè spinta probabilmente da un generico sentimento di protesta contro i galantuomini del municipio e le gravezze fiscali. Gli obiettivi dei rivoltosi furono, infatti, oltre che le abitazioni dei cutrara, anche gli uffici della dogana e del Comune.
Dunque, il paese nelle sue varie articolazioni sociali fu trascinato sulle strade da malumori contrastanti. Chiofalo, mascàru e capraio, già vessillifero nei moti antiborbonici dell'aprile 1860392, condusse la testa della folla in tumulto, inalberando una bandiera rossa.

392 Vincenzo Chiofalo è ricordato come uno dei piu attivi partecipanti alla rivolta antiborbonica dell'aprile 1860 nel già citato rapporto trasmesso dal capo urbano Gioacchi­no Ferrantelli al giudice regio di Castellammare. (Sulla presenza dello stesso Chiofalo alla testa dei rivoltosi nel capodanno del'62, v. testimonianze al processo, ivi, n. 26 dell' II luglio 1864). Era nato a Castellammare il31 ottobre 1827 (v. in AST, Registro degli atti di nascita, 1827, vol. IO, N. 270).

La sua era, forse, tentazione di trovarsi in mezzo, ovunque ci fosse da rappresentare un moto di protesta. Quello di portare un vessillo di rivolta (rosso, come il fuoco dei suoi mortaretti) era assunto proclamato di raccolta e di richiamo, «segno» che le cose potevano cambiare. Non gl'importava nemmeno di sapere contro chi e in quale direzione, se lo troviamo in poco tempo schierato in campi apparentemente opposti, cambiando spalla al proprio fucile (per usare in senso meno figurato una nota espressione di Gramsci). I sentimenti di rancore, o di semplice ostilità, che lo spingevano ad inalberare quel vessillo lo accomunavano per questo agli odii antichi di una folla che nessuna «utopia», né etico-politica né religiosa, aveva mai preparato al riscatto sociale. Perciò mi pare che Chiofalo possa costituire nella cornice di quei fatti una sorta di metafora dell'inscienza propria della massa tumultuaria, priva dei valori positivi dell'imbatto politico, ma carica di quella speranza/disperazione che trascorre nella storia sotterranea delle plebi di Sicilia393.

393 Alla morte del padre, pure lui mascàru (v. testamento di m.ro Antonino Chiofalo del 4 gennaio 1856 in noto Vito Parisi: AST, 1196, ff. 3r-4v), che lascia al figlio le sue 50 capre, due piccoli fondi rustici a Petrolo e 800 mortaretti, Vincenzo si associa il nipote Antonino nella piccola fabbrica di fuochi d'artificio (ivi, atto del 17 gennaio 1857: AST, 1197, ff. Il r-12v). Antonino Chiofalo lo troveremo poi tra i gregari della banda di Pasquale Turriciano. Sarà ucciso a Baida, nel '66, durante un conflitto a fuoco con la forza pubblica (v. in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. l, fasc. 7).

Risulta invece pressoché assente dal paradigma sociale evidenzia­tosi con la sommossa il ceto dei marinai e pescatori. Erano in molti, fin da allora, i padroni di barca, e quanti lavoravano all'imbarco e allo sbarco delle merci sulle navi che attraccavano al porto. Un discreto movimento di cabotaggio, oltre alle tradizionali attività di pesca (soprattutto nelle tonnare), avevano formato una marineria che, se non aveva ancora raggiunto il livello occupazionale di trent'anni piu tardi, poteva comunque valutarsi in quasi ottocento addetti394. Un quarto delle famiglie di Castellammare viveva cosi sulle risorse del mare, mantenendo propri canali di mediazione economica e distinte abitudi­ni di vita. Il fatto che tra gl'inquisiti compaiono solo due marinai (ma uno di essi sarebbe stato assolto dal tribunale) è una riprova della estraneità di questo ceto alle sollecitazioni del mondo contadino.

394 «Quadro statistico del movimento dei bastimenti tanto in entrata quanto in uscita avvenuto nei porti della provincia di Trapani durante gli anni 1861-69», in AST, Regia Prefettura, Porti e fari, b. 176, fasc. «Statistica del movimento dei bastimenti». Nel primo decennio postunitario, il movimento commerciale marittimo era costituito dall'arrivo, annualmente, nel porto di Castellammare di circa 800 navi, e da un eguale numero di partenze, per un ammontare di 10/12 mila tonnellate di merci sbarcate e imbarcate. Si esportava prevalentemente vino, molto meno cereali; s'importavano sommacchi, olii, sarde ed alici salate.

A rivelarci, infine, la presenza non marginale di contadini e pastori (ma anche di un carrettiere) venuti dai paesi vicini a dare man forte agl'insorti, è la percentuale, relativamente alta, dei non residenti (13,4/100). Sono per lo piu cinisari (6 su 15), ma qualcuno viene pure da Borgetto e da Marineo395.

395 Può riuscire interessante riscontrare quali individui, già notati nei rapporti di polizia del passato regime come malviventi, avessero partecipato alla sommossa. Sulla scorta di tali rapporti notiamo tra gl'inquisiti del 1862-64 otto nominativi compresi in due distinti elenchi, uno di «sospetti ladri» (cioè camorristi), l'altro di arrestati per misure di polizia tra il maggio 1849 e il dicembre 1850 (v. in AST, FI, Polizia, Corrispondenza (1849-53), fase. Notamento di tutti gl'individui ... ; e Stato nominativo di tutti gli arrestati...). Si tratta del campiere Francesco Ferrantelli inteso sona ca ti pagu, dei caprai Croce e Filippo Gargagliano, dei villici Giuseppe Arena, Carlo Carollo inteso caruso, Giuseppe Catanzaro, Melchiorre e Vito Sottile, tutti condannati ai lavori forzati. (L'identificazione è consentita dal fatto che i loro nomi sono corredati del patronimico, dell'età e condizione sociale.) Rispetto al totale degl'inquisiti, la loro presenza costituisce una percentuale di appena il 7, 14 per cento; ma è da supporre che non tutti i malviventi del paese poterono essere arrestati nel periodo successivo al rientro delle truppe borboniche, né che su tutti i «sospetti ladri» partecipanti alla rivolta poté riguardarsi l'attenzione del giudice che istrui il processo. Ad ogni modo, il fenomeno della diretta partecipazione di comuni delinquenti alle sommos­se rientra in una certa dinamica sociale, come dimostrano anche i pili recenti studi sui «marginali» e sulla criminalità (v. Fonti criminali e storia sociale, in «Quaderni storici», 49, aprile 1982, pp. 215 sgg.). Un'opera ormai classica per l'indagine stratigrafica sulla massa tumultuaria è Thecrowd in the French Revolution, Oxford 1959 (trad. it. Roma 1966) di GEORGE RUDÉ.

Ci è cosi possibile ricavare qualche considerazione conclusiva dall'esame che è stato fatto di una simile stratigrafia sociale. Se la motivazione piu immediata che spinse i rivoltosi agli eccidi e alle devastazioni di quei giorni fu senza dubbio la coscrizione obbligatoria, l'espansione raggiunta dalla protesta tra i contadini e gli artigiani fuori leva dimostra che vi si sommarono cause piu profonde e lontane. Del resto, gli obiettivi della folla in tumulto non si limitarono ai due rappresentanti dello Stato in veste di funzionari della leva (Asaro e Borruso), ma s'indirizzarono piuttosto contro i cutrara e i simboli funzionali del potere locale e statuale: il municipio, ma anche l'ex giudicatura, la dogana, il carcere e la caserma dei carabinieri. Quei simboli configuravano ormai una Giustizia estranea e nemica, docile strumento per le prevaricazioni dei galantuomini; ma soltanto la me­diazione prammatica degl'interventi mafiosi avrebbe potuto delegittimare di fronte alle masse quei poteri legali attraverso una pressione costante sulla loro autorità formale, come si vedrà in occasione del processo per i fatti del '62. Frattanto l'endemico ribellismo' della massa contadina fu tenuto a freno dalla mafia, che, esercitando la sua prote­zione sulla borghesia terriera e sulle emergenti élites ufficiali - nel momento in cui veniva meno la struttura autoritaria dello Stato -, evolveva nel senso della rispettabilità istituzionalizzata. Si definiva, cioè, a fronte di un'azione collettiva dei contadini potenzialmente eversiva, un livello «interstiziale» del potere reale, tendente, da un lato, a comprimere le tensioni sociali, dall'altro ad ottenere dal pubbli­co «opinione» e legittimazione mediante il sistema della «persuasività avvolgente»396. Non è nemmeno escluso (ma, secondo alcuni funziona­ri di polizia, se ne può essere sicuri)397 che molti giovani siano stati persuasi alla renitenza e alla diserzione dalle mene interessate degli ambienti di mafia, dai quali, in ogni caso, ebbero ricetto e protezione. (Lo si vedrà in seguito esaminando il fenomeno del brigantaggio sociale). Tuttavia dalla ricostruzione dei fatti si trae l'impressione che i gruppi di mafia siano rimasti estranei almeno alla fase preparatoria della sommossa, che, perciò, ha tutte le caratteristiche di unajacquerie contadina giunta alla esplosione eversiva perché spinta dalla posizione di extralegalità in cui si vennero a trovare renitenti e disertori. Erano troppi i motivi di rancore accumulatisi negli anni, e troppo amara la delusione sopravvenuta con lo sbocco borghese del «Risorgimento», per non poter essere canalizzati in un generale moto di protesta. I gruppi di mafia vi intervennero, come si è visto, solo per irretirlo in un nuovo sistema di relazioni e complicità governato da codici di comportamento assimilabili alla mentalità feudale delle masse, ma, di fatto, funzionali alla logica dello sfruttamento del lavoro contadino da parte di una borghesia terriera ormai compenetratasi con la dinamica stessa delle mafie. La conseguenza è stata che, da quel momento in poi, i nuovi poteri informali hanno visto accresciuto il proprio ruolo di mediazione, favorito in ciò dalla sostanziale inanità, o ambiguità, delle strutture dello Stato.

396 Henner Hess (Mafia. Zentrale Herrschaft und lokale Gegenmacht, Tiibingen 1970; trad. it. Bari 1973) condivide la mia osservazione sul «valore» del mafioso: «Mafioso non è chi si sente mafioso; ma chi è considerato come tale. Il pubblico fa il mafioso» (p. 77). Pensare che sia solo il timore che incute l'uso della violenza sistematica a conferire potere e rispetto al mafioso è ancora un modo semplicistico e pregiudiziale di concepire i complessi rapporti d'interdipendenza e i legami di clientela stabiliti in seno alla società rurale. Il lavoro di Hess si occupa in particolare della mafia tradizionale. Utilizzando modelli weberiani di analisi, e riconoscendo in valori e norme della subcultura isolana il processo di legittimazione del mafioso, Hess però non affronta il problema della sua «pubblicizzazione» nel contesto politico-sociale, cioè della sua funzione intermediaria e compensat:va degl'interessi borghesi.
397 G. SCICHILONE, Documenti sulle condizioni della Sicilia, pp. 117-19.


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