Salvatore Costanza


la copertina del libro

la copertina


© Copyright 1989
Arti Grafiche Corrao



via Valenza, 31
Trapani
Finito di stampare
nel settembre 1989



Ringrazio l'amico
Vito Accardo
per avermi portato
alla conoscenza
di questo libro



Questa ricerca storica riproduce, con ampliamenti e integrazioni, l'omonimo studio pubblicato nel fascicolo speciale dei «Nuovi quaderni del meridione» dedicato alla rivoluzione palermitana del settembre 1866 (n. 16, ottobre/dicembre 1966, pp. 419-38).





Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

LA PATRIA ARMATA di Salvatore Costanza


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RIBELLI E MAFIOSI NEL TRAMONTO DEL BRIGANTAGGIO SOCIALE


7. Manutengolismo e violenza abigeataria


Come elemento di sostegno e di compensazione del brigantaggio, il fenomeno del manutengolismo assume, è vero,. connotazioni rituali; ma esso opera entro strutture agrarie che non sono piu quelle del passato. Ciò che spinge i manutengoli a dare protezione e ricetto ai briganti non è certamente un obbligo di fedeltà a tutti i costi. Nel periodo in cui si rafforza la posizione di dominio dei gruppi mafiosi, la connivenza di questi ultimi col brigantaggio interviene come possi­bilità di avvalersi della violenza organizzata per incutere timore e rispetto: il brigante, cioè, perde la sua specifica connotazione protestataria ed è chiamato a svolgere le funzioni del comune delinquente.
Se non si considera il banditismo alla luce delle sue «variazioni diacroniche» (come ha ben avvertito Eric J. Hobsbawm), non se ne può cogliere la specificità storico-sociale. Al contrario, l'immagine che ce ne offre la leggenda o il mito popolare resta immersa in un vago, schematico simbolismo. Cajozzo, per es., vuole comprendere il ruolo del manutengolo tra le prove rituali dell'amicizia. E perciò pensa che l'omertà debba scontare con la persecuzione poliziesca e con la rovina economica la colpa di non tradire, pur di tener fede agli obblighi dell'ospitalità, simboleggiata efficacemente dalla tavula cunzata. Ecco, infatti, com'è tratteggiata nel poemetto la figura del manutengolo: C'è 'n'amico jìrili chi nn 'immita: / sempri la nostra tavula è cunzata, / e pi pagal!u nun ci nni pò munita, / mancu d'oro ci abasta 'na varcata; / si metti 'mprigiuriziu di vita, / pirchi la 'nfamità esti annavanzata (str. 17, vv. 3-8). Inoltre, l'amicujìratu si preoccupa di avvertire lo sbannutu della presenza, nel luogo, delle forze dell'ordine (grapiti l'occhi chi c'è 'nfamitati; str. 14, v. 2), di provvedere ai suoi bisogni e di saper tacere dinanzi al giudice.
Al brigante/poeta appare perciò incomprensibile, alla luce delle sue «parità morali», il comportamento della Giustizia che vuole pre­miare con una doviziosa taglia sul capobrigante il piu turpe dei delitti di cui possa macchiarsi un uomo: la trasgressione della fiducia che in lui ripone un altro uomo: La giustizia propia t'arraggiuna: I pi tia esti Pasquali la ruvina, I e si lu fai pigghiari, fai furtuna, I almenu si leva chista mala spina (str. 45, vv. 5-8). La morale popolare di cui si fa interprete Cajozzo non si preoccupa della transitoria posizione di illegalità dello sbannutu, ma del valore assoluto di cui egli si carica confidando nella legge dell' onore.
Assai di rado i manutengoli chiamati a chiarire i loro rapporti col banditismo reclamano, a propria discolpa, motivi di costrizione o di timore. Piu spesso ammettono di avere prestato aiuto ai briganti perché non li hanno riconosciuti come tali. Nella sottile distinzione (fatta, ovviamente, a livello istintuale) tra violazione della legge com­piuta in stato di necessità e atto inconsapevole è da individuare, intanto, il proposito di non aggravare la posizione giudizi aria dei fuorilegge, ma, ad un tempo, di autoescludersi da ogni possibile correi­tà che pur deriverebbe dalla semplice ammissione del riconoscimento. Dalle deposizioni dei manutengoli si ricava perciò l'impressione che i banditi si muovano in terra straniera, isolati dal mondo e del tutto sconosciuti.
La realtà, invece, è ben diversa. Nei luoghi frequentati dalla banda di Pasquale Turriciano (Spàracio, Inici, Fraginesi) esiste una fitta rete di connivenze e relazioni in cui entra quasi al completo il ceto rurale dei proprietarilborgesi. Accanto ad essi, i campieri degli ex-feudi e i guardiani di mandre e greggi, che costituiscono la manovalanza della mafia74.

74 Nel quadro che segue è indicata la composizione sociale del manutengolismo, rilevabile attraverso le schede e gli appunti che si trovano negli atti processuali (v. AST, Corte d'Assise, Processi penali, bb. 1-5; Sentenze, 1871-72, voll. 9-10; Verbali d'Assise, 1871, voI. 21), ma in un arco di tempo piuttosto lungo:

Dall'esame del quadro statistico (riportato in nota) ri­guardante i 46 manutengoli contro i quali fu promosso procedimento penale per le accuse di connivenza o complicità si rende evidente il limite entro cui si mosse l'indagine giudiziaria, concernente soltanto coloro che avevano avuto contatti diretti e periodici con i banditi, e non anche quei notabili di Castellammare su cui pure C come vedremo) erano caduti i sospetti dell'autorità politica. Appare inoltre significativa l'assenza, tra gl'imputati, di elementi non legati alle attività agricole Ci due unici artigiani che vi figurano risiedevano ad Alcamo). I membri della famiglia Ferrantelli, che avevano la loro masseria nell'ex-feudo Celso, compaiono con assiduità nelle istruttorie, con veste ora di testimoni reticenti, ora di abili sotto scrittori di denunce contro ignoti, presentate subito dopo che erano state rinvenute dai militi cavalcature e armi ad essi sottratte75. Eppure il ruolo che uomini di rispetto, come don Gioacchino Ferrantelli e i suoi figli, ebbero nelle vicende di quegli anni restò ignoto al tribunale, il quale si contentò di registrare sempli­cemente le loro deposizioni76.
Una differenza occorre fare tra il periodo antecedente e quello posteriore alla ribellione del settembre '66: mentre nel primo periodo manutengoli sono i familiari e gli amici dei giovani renitenti divenuti banditi in circostanze di ribellismo sociale, successivamente la funzione del manutengolo è assolta nel quadro dei traffici mafiosi. Nei processi degli anni 1867-71, istruiti per abigeati ed estorsioni, coi banditi si trovano coinvolti, come complici, ricettatori e favoreggiatori, individui considerati dal tribunale appartenenti alla mafia77.

75 Oltre ai Ferrantelli (per i quali v. documentazione in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. I, fase. 13), anche gli altri proprietari delle contrade Fraginesi, Concia, Gagliar­detta, Pianello, Pilato e Sarmuci adottarono nei confronti dei banditi un atteggiamento analogo (ivi, b. 2, fase. 32,41-42,44; b. 3, fase. 47-48, 59, 61, 71; b. 4, fase. 82-83).
76 Si veda, sui Ferrantelli, la ricerca prosopografica condotta nello studio precedente su La rivolta contro i «cutrara».
77 [vi, b. I, fase. 3 (Vincenzo Ruffino, vaccaro); b. 2, fase. 19-20 (Antonino Cannone e Settimo Cipponeri, bovari; Vincenzo Caruso e Pietro Pollina, campieri nell'ex feudo Spàracio, affittato a Vito Quartana); fase. 21-22 (Leonardo Incandela fu Leonardo, villico); fase. 36 (Alberto Bambina, villico); fase. 38-39 (Vincenzo di Giorgio, saccaio, e Francesco Lombardo, calzolaio); fase. 41 (Domenico Gennaci, possidente); b. 4, fase. 91 (Benedetto Fontana, villico). È superfluo ricordare che alla polizia veniva denunziata dai danneggiati solo una minima parte degli abigeati e delle estorsioni.


È soprattutto il fenomeno endemico dell'abigeato che sostiene l'ascesa dei gruppi mafiosi. A indicarne la diffusione e l'incidenza nell'econo­mia agraria locale valgono non tanto le sporadiche denunce dei proprietari78, timorosi di provocare eventuali ritorsioni da parte degli abigeatari, quanto le fruttuose mediazioni della mafia come prova della sua sperimentata influenza sulla malavita. Del resto, chi deve subire la razzia degli animali è il piccolo borgese del latifondo o il colono delle zone a vigneto, il quale non dispone di stalle o guardianie atte a custodire il bestiame. Da qui il carattere socialmente discriminatorio dell'abigeato, come violenza esercitata a danno dei piti poveri e indifesi79.

78 Soltanto una decina, infatti, sono gli abigeati denunciati nel territorio di Castel­lammare tra il14 gennaio 1867 e il 5 febbraio 1871 (ivi, bb. 6-8,12,15-16,18-19,21). Esaminando tali processi si può constatare che, in genere, l'abigeato interessa gli animali da tiro e da soma. Sui rapporti criminosi tra abigeatari ed esponenti della mafia locale non mancano nelle suddette istruttorie precisi riferimenti. Per es., un bovaro di Calatafimi dichiara ai militi che egli aveva commesso un furto di bestiame grosso su istigazione dei noti fratelli Pampalone (già manutengoli della banda Turriciano), «i quali avrebbero venduto gli animali e ne avrebbero diviso con lui il guadagno» (ivi, 1871, b. 21). Le condanne per simili reati non erano mai inferiori a tre anni di carcere; ma poiché non si verificava che assai di rado la circostanza dell'abigeato semplice, concorrendovi invece numerose aggravanti per il tempo, il luogo e l'associazione delittuosa, le pene spesso salivano a dieci anni e piu. Nel Codice per lo Regno delle Due Sici/ie (Napoli 1819) e nel codice penale borbonico del 1859 all'abigeato era conferita una precisa fisionomia giuridi­co-normativa che sarebbe rimasta sostanzialmente nella successiva legislazione unitaria. Man mano però le severissime pene inizialmente previste per gli abigei furono mitigate, mentre si modificava la nozione stessa del reato, fino a che, nella legislazione vigente, la configurazione giuridica autonoma dell'abigeato scompariva (v. Novissimo Digesto Italia­no, a cura di G.D. Pisapia, I, Torino 1957, pp. 43-45). Sui precedenti storici del fenomeno, V.G. ALONGI, Studii di patologia sociale, I, L'abigeato in Sicilia, Marsala 1891; G. NAVARRA CRIMI, L'abigeato e la distribuzione jondiaria in Sicilia, Palermo 1911; A. CORDOV A, L'abi­geato in Sicilia e il nuovo disegno di legge per la sua repressione, in «Rivista penale», Torino, voI. LXXXIV (1916), fase. V.
79 Il giornale trapanese «La Falce» mise bene in evidenza tali aspetti del fenomeno: «l tristi effetti della situazione di agricoltura colpiscono i borgesi, cioè gli operai delle campagne, e quasi mai i massari: mentre quelli, perché deboli e quasi sempre sforniti di mezzi, sono piu esposti alle rapine dei ladri, i quali piu furbi ed avveduti di quanto comunemente si crede, nel meditare il piano di un furto, non mettono in prima linea la grandezza del guadagno, ma la sicurezza di non essere scoperti; e i massari, perché tengono delle guardie pei loro prodotti ed animali, e per essere denarosi, o si farebbero facilmente giustizia da loro stessi, o adibirebbero i magistrati competenti. Cosi è agevole scoprire la ragione, perché sono piu frequenti i furti degli animali equini, anziché dei bovi e delle pecore. Sanno bene i furfanti che i primi appartengono ordinariamente alla classe povera e perciò debole e meno temuta, e che i secondi appartengono alla classe piu agiata e potente, e quantunque conoscono essere piu facile a rubarsi gli animali bovini e pecore, che macellando si se ne perderebbe la traccia, pur non meno, fatti i loro conti, gl'industriosi rubano piu volentieri gli animali dei poveri, perché meno temuti, e quindi piu rubati» (n. 2 del 26 luglio 1874).

La forza pubblica incaricata di scoprire i furti di bestiame costituiva coi militi a cavallo (succeduti nel 1863 - ai - compagni d'armi) l'anello di congiunzione tra ladri e derubati. Su tale corpo di polizia rurale le opinioni erano divise tra quanti ne reclamavano la soppressione per essere i militi a cavallo, in sostanza, protettori della malvivenza e quanti, invece, li consideravano come il male minore in una situazione di permanente insicurezza. La difesa che specialmente i proprietari terrieri facevano della «guardia mobile» (si è già ricordato un provvedimento del marchese di Rudini del 1866) era ispirata da criteri di opportunità e dall'interesse economico, in quanto ai militi riusci va quasi sempre, mediante la cosiddetta componenda, quel recupero della refurtiva che alla polizia regolare, preoccupata soltanto di consegnare alla giustizia i colpevoli, non riusciva mai80.

80 Il corpo dei militi a cavallo, che, in pratica, riproduceva compiti e organizzazione interna delle antiche Compagnie d'armi, fu costituito coni decreto del 30 settembre 1863, ma poi sciolto nelle province di Palermo e Trapani, con decreti del 24 e del 31 dicembre 1864, e ripristinato due anni dopo. Un'interessante rassegna delle questioni poste dall'or­ganizzazione e dalla condotta dei militi a cavallo fu pubblicata da Angelo De Stefani sindaco di S. Ninfa e rappresentante degl'interessi dei proprietari latifondisti, nel citato giornale «La Falce» (Del servizio dei militi a cavallo in Sicilia e del modo di migliorarlo, 19 luglio/3D agosto 1874). De Stefani difendeva l'istituzione sulla base di criteri di opportunità logistica ed economica, riferendosi alle differenze esistenti tra la Sicilia e le altre regioni d'Italia. Tali differenze erano soprattutto evidenti attraverso le strutture agrarie dell'isola (presenza del latifondo e affittanza sotto forma di gabelle e metaterie; sterilità del suolo, malaria; precarietà delle vie di comunicazione, diboscamento degli ex demani comunali, ecc.). I contadini erano costretti a «lasciare vaganti gli animali necessari alla coltivazione, ritornando ai loro paesi, che per lo piu sono abbastanza lontani, od in cima alle montagne «...». Dal che deriva il facile esegui mento dei furti di abigeato e di qualunque cosa campestre, poiché nulla è piu facile che di rapire un animale, un frutto nell'aperta e deserta campagna, e condurlo via, servirsene e nasconderlo, essendo nel deserto dei feudi non facile a scoprir­lo» (ivi, 26 luglio 1874). I militi a cavallo erano perciò piu efficaci delle guardie appiedate, che poco conoscevano la campagna siciliana; e le riserve di ordine morale su tale corpo di polizia rurale avevano poco peso di fronte ad esigenze d'ordine pratico ben piu importanti.

Don Gaspare Fundarò, fu primu 'nfamuni, comandava dal dicembre 1866 la sezione dei militi a cavallo di Castellammare. Durante i tre anni in cui mantenne il suo incarico, non ostante il «cotidiano dovere» che lo spingeva alla «distruzione del malandrinaggio», com'egli stesso amava scrivere nell'esordio dei suoi rapporti, era riuscito ad assicurare alla giustizia soltanto i due fratelli minori di Camillo Cajozzoo Il modo stesso con cui egli era arrivato a quell'incarico era avvenuto non senza sospette pressioni sul corpo amministrativo. (Dove, comunque, sedevano alcuni esponenti del quadro mafioso castellammarese, tra cui quel Gioacchino Ferrantelli che già si è visto quale parte avesse avuto nelle vicende mafiose e banditesche degli ultimi venti anni81). Addirittura, come risulta da un atto deliberativo, il Consiglio comuna­le di Castellammare, con voto unanime, avrebbe pure condizionato la sua partecipazione alle spese di mantenimento della squadriglia mobi­le alla nomina di Fundarò quale comandante della guardia nazionale dei militi a cavallo per tutto il circondario di Alcamo82. Era questo un segnale inquietante trasmesso agli amministrati, nel momento in cui il potere statuale aveva di fatto abdicato, con le disposizioni ministe­riali dell'estate 1867 sul paese armato83, alle sue specifiche funzioni di tutela dell'ordine nelle campagne, per affidarle direttamente ai pro­prietari terrieri. E, in realtà, certi movimenti del capitano Fundarò nella caccia ai briganti si sarebbero dimostrati piuttosto devianti, col facilitare il piu delle volte la loro fuga; ma tranne la voce pubblica locale, che ricorda una segreta intesa fra il comandante dei militi e Pasquale Turriciano, non c'è nelle istruttorie alcuna sicura traccia di connivenza. Tuttavia tra i provvedimenti intesi a rimuovere le cause che avevano ostacolato la lotta contro il brigantaggio, il prefetto di Trapani incluse anche quello della destituzione di Fundarò dal suo incarico84.

81 ASCC, «Stato degl'Individui componenti l'Amministrazione Comunale di Castel­lammare pell'anno 1866», in Deliberazioni, fase. 2. Gioacchino Ferrantelli di Antonio (n. il 26 aprile 1807), di condizione possidente, era risultato tra i primi eletti al Consiglio comunale nelle elezioni del 12 luglio 1866.
82 Il Consiglio comunale approvò, infatti, la richiesta avanzata dalla Prefettura di Trapani con nota del 14 novembre 1867 per la formazione di una squadriglia di Guardia Nazionale a cavallo per il circondario di Alcamo «a condizione che il comandante di essa squadriglia fosse il Capitano Gaspare Fundarò a rimerito dei suoi servizii arrecati alla pubblica sicurezza del circondario» (cfr. ivi, fase. I, Deliberazioni del Consiglio dal 1°.11.1867 al 13.2.1868, sedu~a del 23 novembre 1867).
83 Provvedimenti contro il brigantaggio, in «Bollettino della Prefettura di Trapani», n. 7 del luglio 1867, pp. 358-61.
84 La sezione dei militi a cavallo di Castellammare fu sciolta e il servizio di polizia rurale venne affidato ai militi di Alcamo, sotto il comando del cap. Mancuso (v. in Asce, Carte diverse, fase. unico).

Manutengolismo e pratica abigeataria sono dunque i fattori che alimentano il brigantaggio e ne consentono la persistenza contro ogni misura repressiva attuata dallo Stato. Accanto ad essi la connivenza del potere politico locale si manifesta come elemento sostanziale di un sistema di rapporti extralegali che coi volge un po' tutte le strutture del consenso, oltre che il meccanismo della conservazione (o promozione) sociale degl'individui. Non c'è, ovviamente, tra le fonti ufficiali una serie organica di testimonianze che possano comprovare tale intreccio di relazioni e complicità. Solo accenni, indizi e osservazioni che cor­redano alcuni fascicoli processuali e qualche rapporto prefettizio, ma bastevoli per ricostruire a grandi linee la mappa dei li velli superiori della mafia castellammarese.
Intanto non sussiste piu la divisione, che pure si faceva ancora al tempo della rivolta contro i cutrara, tra liberali e filoborbonici. A Giuseppe Marcantonio (sulla cui maniera ambigua, sfumata di certificare la condotta dei tanti mafiosi del paese il procuratore del re di Palermo, Diego Tajani, avrebbe elevato un severo giudizio85) era succeduto, nel '66, alla guida dell'amministrazione comunale Nicolò D'Anna. Era questi ritenuto dalle autorità complice e manutengolo della banda Turriciano86.

85 AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. I, fase. 7; nota del 28 novembre 1870.
86 ASP, Pref., Gab .. b. 18, cat. 20, b. 12, Brigantaggio (1866-1870); rapporti dei comandanti militari e della legione dei carabinieri al prefetto di Palermo (dal 9 gennaio 1869 al2 marzo 1870). Il comandante della sotto zona di Alcamo del 13' reggimento fanteria riferendo, nell'estate del '69, sulle operazioni delle truppe nel circondario alcamese, osser­vava che «la principale forza del brigantaggio sta nell'appoggio di una parte della Giunta specialmente del Sindaco D'Anna ... Durante una breve assenza da Castellammare del Sindaco D'Anna molti commercianti e proprietari del paese si offersero di concorrere o personalmente o coi rispettivi campieri a cooperare colla truppa pella distruzione della banda. Esiste già una sottoscrizione di 85 di tali volonterosi cittadini. La loro azione però è per ora paralizzata dal genio malefico del Sindaco che ebbe sentore della cosa; ma se, come si ha fondamento di credere, sarà presto sciolto il Consiglio, si riuscirà nell'intento. Intanto si sono raccolti e si stanno raccogliendo molte deposizioni e indizi sulla complicità del D'Anna nel proteggere i banditi, ed è possibile che possa essere arrestato non appena sarà rimpiazzato nelle sue funzioni di Sindaco da un Commissario Straordinario» (ivi, «pro memoria» del 26 agosto 1869). Quando fu arrestato, il brigante Antonino Mistretta dichiarò «che la rovina sua e dei suoi compagni sono stati i galantuomini di Castellammare del Golfo, i quali sempre li esortavano a perseverare nella vita brigantesca, anziché costituirsi, come era loro intenzione, assicurandoli che era imminente la rivoluzione, e con essa la caduta dell'attuale Governo, e cosi sarebbero rimasti liberi di ogni imputazione», citando «tra i tanti» il notaio Vito Mattarella (che lo ospitò in una sua casa di campagna), Gaetano e Nicolò D'Anna (rapporto del com.te della legione dei carabinieri al prefetto di Palermo, 24 gennaio 1870). Alcuni proprietari avevano tentato di scagionarsi dell'accusa di manutengolismo: «Si cerchi il manutengolo nel contadino, il quale e per indole e per tradizione è portato a favorire il malandrinaggio; non nella classe degli onesti proprietarii che per principi i e per interesse devono odiare il masnadiere» (ivi, lettera del 20 dicembre '69).

È da pensare che accuse cosi pesanti non fossero considerate nelle sfere governative come il frutto di un giuoco illativo di estemporanee informazioni. Molti elementi erano stati frattanto raccolti da parte di giudici e commissari di polizia per determinare un quadro piuttosto fosco di sotterranee complicità. Con le elezioni amministrative del 12 luglio 1866 era aumentato il livello delle presenze mafiose nel Consiglio comunale di Castèllammare, mentre tra coloro che c'erano già crescevano le equivoche manipolazioni, gli atti d'arbitrio e le connivenze con certi ambienti. Per es., la condotta del sacerdote Ignazio Galante, che fin dal 1863 manteneva nel municipio responsabilità d'assessore, era chiaramente dettata dalla necessità di regolare i propri lucrosi affari contro quanti lo contrastavano nell'incetta e nello smercio dei vini. Tra i probabili esecutori di un incendio doloso dei suoi magazzini in contrada Molinello di Alcamo, Galante non aveva temuto di indicare al giudice che istruiva il processo il clan dei Buffa, noti da tempo come mafiosi e camorristi. Eppure per questi ultimi il sindaco D'Anna attestò ancora una volta una condotta «regolare»87.
Col passare del tempo, le autorità si erano perciò convinte della necessità di applicare drastiche misure amministrative onde stroncare la rete delle complicità e delle prevaricazioni che avevano radicato nella cosa pubblica i centri del potere mafioso. Ormai le note che arrivavano sul loro tavolo avevano messo in chiaro i tanti fenomeni d'inquinamento e di degenerazione dell'habitat civile, rendendo ur­gente lo scioglimento del Consiglio comunale: che, infatti, fu provocato, alla fine del 1869, da un provvedimento del prefetto di Trapani88.

87 Galante sospettò che l'atto intimidatorio perpetrato ai suoi danni, il 23 febbraio 1869, fosse stato opera di Antonio Buffa, figlio di Damiano, per contrasti personali e affaristici, e «perché la condotta del Buffa era oltremodo sospetta per appartenersi alla mafia e avere relazioni coi camorristi e malandrini del paese» (v. in AST, Corte d'Assise, Processi penali, b. 4, fase. 86-87).
88 ASCC, fasc. 2, Deliberazioni del Consiglio dal 17.1.1869 al 6.2.1870; Deliberazioni Giunta dal 7.11.1867 al 12.12.1872.

Quel provvedimento ebbe effetti pratici immediati per l'eliminazione delle ultime frange banditesche. Restava, però, con tutto il suo inquie­tante risvolto politico, l'interrogativo che si era posto un giornale moderato del capoluogo subito dopo la morte del capo brigante: «Come in sette anni si fa un solo arresto, ed in quattro mesi si vedon tutti prigioni?». E il giornale tentava anche di fornire una spiegazione ad uso dei propri lettori: «Noi vogliamo attribuire tutto il merito della estinzione dell'intiera banda Torregiani alla misura presa in questi ultimi tempi dalla nostra Prefettura nello avere sciolto il corpo municipale di Castellammare, ed allontanato dal potere qualche autorità sospetta, per essere stato finalmente capito dal nostro attuale Prefetto che quella banda, oltre allo scopo naturale della conservazione del proprio individuo, avea l'altro politico di mostrare la debolezza del nostro Governo, e come persone autorevoli di quel paese, sia per mantenersi al potere, sia per la speranza del ritorno di un passato di triste ricordanza, rendeano vano ogni tentativo della forza publica, frustravano ogni piano di operazioni»89. Spiegazione ancora in gran parte inficiata dal pregiudizio ideologico del contrasto tra liberalismo e legittimismo reazionario, che ignorava le logiche create dal nuovo potere informale: quelle che un giorno avrebbero fatto emergere la mafia castellammarese come forza extralegale di primo piano a livello internazionale.

89 «L'Imparziale», n. Il del 13 marzo 1870. Sulla fine del capobrigante v. pure rapporti in ASP, Gab., Pref, b. 18, cat. 20, fase. 12, Brigantaggio (1866-1870).


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